giovedì 24 novembre 2016

Putin denuncia a buona ragione il deficit di democrazia nei paesi dell'Europa occidentale

Corriere della Sera

La Repubblica


Corriere della Sera

L’attacco di Putin alla Ue “Democrazia in degrado” 

Mozione dell’Europarlamento denuncia i finanziamenti russi ai populisti Pd e Forza Italia astenuti, i grillini votano contro: manipolazione della realtà 
Marco Bresolin Busiarda
Da un lato ci sono gli equilibrismi dei capi di Stato e di governo, che all’ultimo Consiglio europeo hanno trattato fino a notte fonda per poi cancellare dal documento finale ogni riferimento a possibili sanzioni alla Russia per i raid in Siria. Dall’altro c’è l’Europarlamento che, con meno vincoli e più libertà, ieri ha approvato una risoluzione molto critica nei confronti del Cremlino per i suoi tentativi di influenzare cittadini, media e politica in Europa.
Il documento approvato dall’aula di Strasburgo in sostanza dice due cose. Primo: Putin è responsabile di «una campagna di disinformazione» e di «propaganda ostile all’Unione europea». Secondo: la Russia «finanzia partiti e altre organizzazioni all’interno dell’Ue», in particolare le formazioni di estrema destra e populiste. Accuse a cui Putin ha risposto quasi in tempo reale, puntando il dito contro il «degrado politico della democrazia nei Paesi occidentali». Lo Zar ha difeso i suoi media dagli attacchi: «Hanno cercato di insegnarci la democrazia», ha detto riferendosi all’Europa, ma «proibire qualcosa non è in sintonia coi principi della democrazia».
A creare particolare fastidio tra le mura del Cremlino è stato l’accostamento tra la Russia e l’Isis. La risoluzione sottolinea infatti che l’Ue deve lottare contro le campagne di disinformazione e propaganda fatte da «Paesi come la Russia» e da «entità come l’Isis, Al Qaeda e altri gruppi terroristi jihadisti violenti». Si elencano poi i nomi degli strumenti usati dal Cremlino per diffondere il suo verbo all’interno dell’Unione: «Stazioni televisive multilingue, come Russia Today, pseudo-agenzie di stampa e service multimediali, come Sputnik», oltre che «social network e troll». L’obiettivo, secondo l’Europarlamento, è quello di «attaccare i valori democratici, dividere l’Europa e assicurarsi un sostegno interno», per questo l’Ue dovrà difendersi con una «task force». 
Nonostante la risoluzione sia stata approvata, il Parlamento Ue ha mostrato una profonda spaccatura al suo interno: 304 i voti a favore, 179 i contrari e 208 gli astenuti. Molto significativo il comportamento degli eurodeputati italiani, tendenzialmente contrari alla risoluzione. Hanno votato compatti per il «No» i 3 parlamentari della Lista Tsipras, i 5 della Lega e i 17 del M5S. In linea con il gruppo dei socialisti europei, ha scelto l’astensione la quasi totalità degli eurodeputati Pd: solo 3 voti a favore (Bonafè, Picierno e Costa) e un contrario (Cofferati). Forza Italia invece ha votato in modo diverso rispetto alla maggioranza del gruppo Ppe, che ha dato via libera al testo: 7 astenuti, 3 contrari e un solo sì (Cicu). Favorevoli i due deputati di Ncd e Raffaele Fitto (Ecr). Per il M5S questa risoluzione è «una vergognosa manipolazione interessata e mistificatrice della realtà». I grillini dicono che ora è arrivato il momento di «ricucire le relazioni con la Russia». Interpellata su presunti legami tra il M5S e Mosca, la relatrice del provvedimento, la polacca Anna Fotyga, ha risposto con una frase sibillina: «Ci sono persone che costantemente ripetono la narrativa del Cremlino. Questo è ben noto, basta monitorare i dibattiti parlamentari».
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MAGARI TRUMP FOSSE REAGAN 

SIEGMUND GINZBERG Rep
C’ERA Ronald Reagan quando andai a fare il corrispondente in America per l’Unità. La sua elezione nel 1980 era stata uno shock. Fu dileggiato. Additato a spauracchio. Ebbene, sapete che vi dico? Ci farei la firma se Trump fosse come Reagan. E invece ora come ora potrei solo dirgli: Mr. Trump, lei non è Reagan, io Reagan l’ho conosciuto, ero suo amico… Ma come, si diceva allora, un attore di Hollywood sulla poltrona più importante del mondo? Anzi — non ci si dimenticava mai di sottolinearlo — un attore di film di serie B? Un cowboy che non sa niente del mondo? Un vecchio un po’ rimbambito che racconta barzellette da mattina a sera? Uno che fatica e si annoia a leggere i dossier? Un ultrà sostenuto da Ku-Klux-Klan e Big Business? Uno che infila gaffe una dietro l’altra?
Dies nigro signanda lapillo, giorno da segnare con un frego nero, definì la sua elezione uno dei più colti e intelligenti dirigenti del Pci dell’epoca, Paolo Bufalini. Aveva ragione e aveva torto. La presidenza Reagan avrebbe portato alla fine dell’Unione sovietica e, di concerto con Margaret Thatcher, alla fine della vecchia sinistra in Europa. Implosero, crollarono quasi da soli. Cambiava tutto. Forse in peggio, forse in meglio: di questo si continuerà a discutere. Ma cambiava inesorabilmente.
Il mondo fu percorso da un brivido il giorno in cui, durante un test tecnico a microfoni aperti, Reagan disse: «Sono il presidente degli Stati uniti, vi annuncio che ho appena dato l’ordine di lanciare i nostri missili nucleari…». Era fatto così: niente l’avrebbe fatto rinunciare a una buona battuta di spirito. Nel 1981 gli spararono. Ai chirurghi disse: «Spero che siate tutti repubblicani (e non democratici) ».
Nell’Urss di Breznev forse credevano davvero che il suo anticomunismo fanatico e infantile portasse alla guerra. Dal canto suo l’intelligence Usa credeva che l’Urss fosse vispa e solida, non decrepita come si rivelò poi. I servizi a volte l’imbroccano. Altre sbagliano. Non importa se perché ci sono o ci fanno.
Ma Reagan non fu per niente il guerrafondaio che una parte del mondo si immaginava. È vero, agiva come fosse sul set. Citava film ad ogni piè sospinto, su ogni argomento. Ci misi un po’ a rendermi conto che tutta l’America vive come se recitasse, si muove, parla, gesticola come fanno gli attori nei film. Reagan era l’America. Non capivamo che aveva in mente Star Wars di John Lucas, non oscure demonologie, quando definì l’Urss “Impero del male”. Lui credeva nel lieto fine, che non può mancare in un film americano. In una riunione con i vertici del Pentagono aveva detto che non avrebbe mai, in nessun caso, autorizzato l’uso di armi atomiche, nemmeno nel caso che gli Stati uniti fossero stati attaccati. I generali lo presero per pazzo.
Lo accompagnai a Mosca a incontrare Gorbaciov. Fu il mio primo viaggio con la White House press. Ci fermammo a Helsinki due giorni a far turismo perché lui doveva riposare. Aveva fama di lavorare poco, alzarsi tardi e andare a dormire con le galline. Si confondeva in storia e geografia. Fece ridere quando sostenne che erano le foreste a produrre inquinamento. Eppure fu profeta. Quando a Berlino nel 1987 improvvisò dinanzi alla Porta di Brandeburgo: «Signor Gorbaciov, abbatta questo Muro!».
Ero ancora corrispondente a Pechino quando Reagan invitò Deng Xiaoping in America e gli fece indossare il copricapo dei capi Sioux. Vero: si attorniò all’inizio anche di farabutti ed esaltati. Ma ebbe come segretari di Stato George Schultz e James Baker. E come vice aveva scelto un moderato, l’ex capo della Cia Bush padre. Lo avevo conosciuto, abilissimo ricucitore con la Cina, quando era incaricato d’affari Usa a Pechino.
La rivolta dei “non protetti”, dei dimenticati, degli invisibili del ventre americano accomuna Reagan e Trump. La differenza è che Reagan allora unificò il Paese, mentre Trump continua a spaccarlo. Entrambi hanno vinto presentandosi come campioni dell’anti- politica. Reagan con un po’ più di garbo: «Dicevo che la politica è la seconda più vecchia professione del mondo; mi sono reso conto che le due professioni in realtà sono molto simili».
Reagan accolse in America centinaia di migliaia di boat people in fuga via mare da Vietnam e Cambogia. Trump ha promesso di cacciare messicani e musulmani. Ma il diavolo potrebbe voler apparire più brutto di quanto è. Trump ora dice di voler deportare due-tre milioni di clandestini. Ma aggiunge che ce l’ha con «criminali, stupratori, trafficanti di droga», e non con tutti i non in regola, perché tra loro «c’è anche tanta brava gente». È pressappoco il numero di espulsi in questi anni da Obama. Molto meno dei 10 milioni che diceva di voler espellere il Trump candidato.
Come Trump, Reagan aveva promesso di ridurre le tasse. Lo fece. Vero: soprattutto per i già ricchi. Aveva promesso di ridimensionare il Big Government. Finì invece col gonfiare a dismisura la spesa pubblica. Il risultato combinato fu l’immane debito. Che però il resto del mondo, a cominciare dalla Cina, si accolla ben volentieri.
Eppure Reagan fu uno dei presidenti americani più amati, popolari e simpatici. E soprattutto fu fortunato, il che è fondamentale, come aveva capito bene Machiavelli. Magari Trump fosse come lui.
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