mercoledì 23 novembre 2016

Referendum: nel merito un corno

Chi ti chiede di "entrare nel merito" di una proposta costituzionale fatta in maniera unilaterale e ispirata a una concezione maggioritaria del potere ti trascina sul suo terreno e pian piano ti porta a considerare normale e degno di dibattito persino il ripristino delle forme istituzionali liberali predemocratiche.
"Sai caro, vorrei reintrodurre alcuni elementi di schiavitù, ma entriamo nel merito come persone educate e senza demonizzare, altrimenti vuol dire che siete prevenuti e volete personalizzare la questione".
Non è così che funziona in politica, dove ci si posiziona anzitutto attorno a un conflitto cruciale mentre tutto il resto è secondario.
E nello specifico ciò che unicamente è qui in discussione è il grado di faccia di culo di questi banditi e l urgente opportunità di sostituirli con chiunque, anche con il primo che passa per strada. Soprattutto se costui è anche un pelino meno arrogante e promette di farci divertire di più.
In sostanza respingete questa trappola a meno che non sia utile a convincere qualche povero di spirito innamorato dei formalismi. E non state a perdere tempo in chiacchiere, perche l argomento da usare è uno e uno solo: Renzi merda, votate No.
E alla fine non sentitevi in colpa, perché anche quegli altri, nonostante facciano i professorini, agiranno esattamente secondo questa logica.
Che poi è l'unica logica che rimane alla politica ogni volta che i passaggi della storia ci mettono di fronte al riaffiorare periodico dello stato di natura [SGA].












































Corriere della Sera


La costituzione che non entra in queste urne 

Francesco Bei  Busiarda 23 11 2016
Sta accadendo qualcosa intorno al referendum costituzionale del 4 dicembre. Qualcosa che i sondaggi non hanno rilevato, forse perché non sono lo strumento giusto per questo tipo di carotaggio. 
E’ un’esperienza che ciascuno di noi può fare in ufficio nelle chiacchiere davanti alla macchinetta del caffè, in autobus, in fila all’ufficio postale: del merito della riforma costituzionale, degli oltre quaranta articoli del ddl Boschi, della fine del bicameralismo paritario, del Cnel, del presunto rischio autoritarismo di cui parla di fronte del No, importa poco o nulla a nessuno. 
Le riforme, il dibattito sulle riforme, l’infinita battaglia sulla legge elettorale e sulla Costituzione non interessano, non ci emozionano più. Andremo a votare, magari saremo anche in tanti, ma la maggior dei cittadini che si recheranno alle urne lo farà, se lo farà, per punire il governo, per paura del salto nel vuoto se dovesse cadere Renzi, pensando alla propria banca che potrebbe fallire o al proprio figlio che non trova lavoro, con speranza o con rabbia, ma senza tenere in gran conto le ragioni di merito del quesito. 
E’ un fenomeno nuovo, ma che arriva da lontano. 
Può darsi avesse ragione Giulio Tremonti, quando scrisse qualche anno fa (La paura e la speranza) che cadute le grandi ideologie, falliti i grandi sistemi politici, i popoli credono ancora, ma credono soprattutto nelle cose piccole e più concrete, nelle cose che sono loro più vicine e che sono più attuali. Non chiedono la riforma della sanità, ma il funzionamento del «loro» ospedale; non chiedono la riforma del lavoro, ma il «loro» posto di lavoro. Eppure non è stato sempre così. Anzi, se vogliano scorgere un filo rosso nel dibattito politico degli ultimi vent’anni - ma si potrebbe partire dalla «Grande Riforma» invocata da Bettino Craxi già negli Anni Ottanta - questo è stato proprio la necessità, condivisa da tutti, della riforma del sistema politico. Quando il 95 per cento degli italiani nel 1991 si espresse, in occasione del referendum Segni, a favore dell’abolizione delle preferenze multiple, innescando quella piccola valanga che portò poi a rivoluzionare il panorama dei partiti, il tema era sulla bocca di tutti, era diffusa e maggioritaria la sensazione di essere alla vigilia di una svolta, di partecipare a un tornante della storia. Eppure non poteva esserci questione più tecnica della legge elettorale. Così come gli scontri che si accesero intorno alla Bicamerale D’Alema, al patto con Berlusconi, alla riforma del Porcellum, infiammarono il Paese, appassionavano. Di quel fuoco cos’è rimasto? E’ come se nessuno pensasse più che saranno le riforme della governance politica a tirarci fuori dal pozzo in cui siamo caduti, malgrado solo tre anni fa il Parlamento abbia conferito al presidente Napolitano un secondo mandato proprio per favorire la conclusione del processo riformatore iniziato da Enrico Letta e concluso da Matteo Renzi. 
Come se gli italiani si dividessero ormai lungo altre linee di faglia: euro dentro/fuori, Unione europea sì/no, immigrazione accoglienza/rifiuto, lavoro più opportunità/più protezione. Tralasciando completamente se il Senato debba essere composto oppure no da sindaci e consiglieri regionali. Come se dal Paese salisse una rabbia, una frustrazione che la politica non riesce più a incanalare lungo le sue priorità. Come se anche da noi, dopo gli Stati Uniti America, il ceto medio impoverito, quelli che Trump ha definito i «forgotten men», i dimenticati, non aspetti che un’occasione per scaricare il proprio malcontento. Magari anche in maniera autolesionistica. Come ha notato qualche settimana fa Rino Formica ormai la somma delle difficoltà del Paese forma un agglomerato così vasto che alla prima occasione si può creare un rovesciamento. Questa volta però senza sbocco, al buio.
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Rissa sui voti all’estero Il No prepara i ricorsi e il Pd evoca elezioni 

Berlusconi: “Mediaset per il Sì perché teme ritorsioni” 

Amedeo La Mattina  BUsiarda 23 11 2016
Due giorni fa Grillo ha definito Renzi «un killer del futuro». Ieri, sempre i 5 Stelle sul blog del leader, hanno descritto il premier come «una scrofa ferita che attacca chiunque vede perch ha una paura fottuta del voto del 4 dicembre». Un altro pezzo del fronte del No, quello dei professori e dei costituzionalisti, invece minaccia ricorsi se vince il Sì di misura e con il voto decisivo degli italiani all’estero. Un ricorso, hanno spiegato il presidente e il vicepresidente del Comitato per il No Alessandro Pace e Alfiero Grandi, all’ufficio reclami del referendum che può sollevare una questione di costituzionalità. Ci sarebbe a loro avviso la violazione di alcuni principi fondamentali, a cominciare dalle segretezza. Non siamo ancora alla guerra delle carte bollate, ma poco ci manca. Di sicuro è che non c’è fiducia negli avversari, arrivando al punto di non accettare il responso delle urne. Da parte dei grillini e del centrodestra si è pure insinuato il dubbio di brogli elettorali nel voto degli italiani all’estero.
Renzi avverte un certo nervosismo nelle file del No e sostiene che i sondaggi sono sbagliati. E quindi confida di potercela fare. «Quando ci dicono scrofa ferita o serial killer noi dobbiamo tornare sul merito. Non ci danno una scheda con su scritto “scrofa ferita Sì o No’”. Noi faremo campagna referendaria con il sorriso sulle labbra. Non faremo ricorsi e contro-ricorsi. Loro ora tentano di buttarla in rissa, quindi calma e gesso». Poi il premier torna ad avvertire che se vince il No, e «se ritornano quelli di prima a contrattare inciuci», andrà via «con il sorriso, non mettendo il broncio». Cosa succederà dopo? Per il vicesegretario Pd Lorenzo Guerini si andrà presto ad elezioni, entro l’estate del 2017, con una nuova legge elettorale. Una dichiarazione contenuta in un’intervista a Bloomberg e poi ridimensionata. Le sue parole sarebbero state «forzate». «È del tutto evidente che l’indizione delle elezioni è prerogativa del Presidente della Repubblica». Forzature o meno, è questa l’intezione di Renzi che non a caso è tornato a polarizzare lo scontro mentre dall’altra parte della barricata viene aperto il fronte estero. 
Oggi i comitati per il No incontreranno il ministro Paolo Gentiloni per capire come sono state definite le liste degli italiani residenti all’estero. In effetti una certa incertezza si è insinuata tra gli anti-renziani: forse perché temono che una forte percentuale di astensionismo possa tenere lontano dalle urne gli elettori orientati al No. Ma c’è chi non vuole mostrare dubbi, come fa Massimo D’Alema. L’ex premier considera sbagliato pensare a ricorsi. «Si fanno quando si perde e io non credo che il No perderà. Inoltre si fanno avendo delle ragioni. Ma in questo caso mi sembra un giudizio preventivo sul voto degli italiani all’estero». 
C’è infine una questione tutta interna al centrodestra, quella del ruolo delle reti Mediaset che non si sono trasformate nel megafono del No. A spiegarlo è stato Silvio Berlusconi. «Hanno paura della possibile ritorsione di chi ha il potere. Ho avuto discussioni ed ho dovuto accettare questo fatto essendoci dentro le aziende i risparmiatori. Devo prendere atto che la dichiarazioni del presidente Mediaset sono attribuibili alla difesa di questi risparmiatori. Se il governo dovesse vincere ci sarebbero conseguenze negative per le nostre aziende». Berlusconi guarda pure al dopo referendum e dice cose indigeste per Salvini e Meloni: nuova legge elettorale proporzionale, con lo sbarramento al 5%, e «Grosse koalition» come in Germania. 
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Il rischio Italia preoccupa l’Europa Il referendum fa sempre paura 
Visco non basta a rassicurare Francoforte e Bruxelles 

Alessandro Barbera Busiarda 23 11 2016
passeranno appena quattro giorni dall’esito del referendum del 4 dicembre alle decisioni della Banca centrale europea sul futuro del piano di acquisti di titoli da 80 miliardi al mese. «Comunque vada, le riforme devono proseguire», diceva ieri a questo giornale il governatore di Banca d’Italia Ignazio Visco. Un messaggio di rassicurazione ai mercati, con il quale Via Nazionale si mostra pronta a fronteggiare un eventuale scenario negativo. Come l’hanno presa a Francoforte, al cui vertice siede l’ex governatore della Banca d’Italia? A precisa domanda i vertici dell’istituto centrale europeo evitano qualunque commento ufficiale. «Non possiamo», risponde secco un portavoce. Se Visco in questa fase svolge un ruolo di garanzia a Roma, a Francoforte devono tenersi lontani da scenari che possano chiamare in causa l’indipendenza dell’istituto: le decisioni di politica monetaria si prendono per tutti. Visco è fra coloro i quali spinge per la conferma del piano di acquisti nei numeri fin qui visti. Non la pensano così i tedeschi, che chiedono un’inversione di tendenza e l’uscita – seppur lenta - da un piano che a loro avviso rischia di creare bolle speculative e starebbe comprimendo i bilanci di banche e fondi pensione. Nei corridoi dell’Eurotower si respira però una convinzione: Visco è ottimista sul fatto che le conseguenze del prevalere del sì o del no possano essere messe sullo stesso piano. In tutte le conversazioni riservate Draghi dice di non aver nessuna voglia di farsi prendere per la giacchetta, e non ha espresso nessuna preferenza. Ma ci tiene a mostrarsi ottimista - qui sì – su come sta andando la congiuntura in queste settimane: nei discorsi degli ultimi giorni ha detto più volte che l’economia dell’area euro sta rispondendo bene al piano di stimoli monetari. L’8 dicembre sarà un appuntamento comunque difficile: nel caso in cui il referendum fosse approvato si attenuerebbero i rischi di instabilità che giustificano il piano. Ma in caso di vittoria del no sarà ancor più difficile argomentare le ragioni della sua prosecuzione, perché confermerebbe la tesi dei nordici per la quale il “Quantitative easing” serve anzitutto a sostenere i Paesi più deboli dell’eurozona. «Siamo pronti a tutti gli scenari», insistono all’Eurotower. 
«Gli effetti di una vittoria del no saranno limitati», insiste Standard and Poor’s. Ormai da settimane il numero uno di Intesa San Paolo Carlo Messina va esprimendo lo stesso concetto: «L’importante è che l’Italia abbia un governo in grado di portare avanti le riforme» perché ha «fondamentali fortissimi» e un tasso di risparmio «da tripla A». Ma si tratta del timore di alimentare la paura o della convinzione che al Quirinale abbiano le idee chiare sul dopo? Certo «l’Italia ha il debito che ha e occorre un governo con una maggioranza. Se dopo il referendum non sarà così, certo sono preoccupato». L’economista Francesco Daveri è tranquillo sul fatto che «il 4 dicembre il Quirinale avrà pronto il suo paracadute politico», poco importa se si tratterà di un Renzi bis o di un governo Padoan. «Ma più di Visco mi preoccupa di più l’efficacia del paracadute finanziario: il fatto che le decisioni della Bce saranno solo dopo il referendum non è ininfluente».
«E’ indubbio che si aprirebbe una fase di forte instabilità. E l’instabilità non piace né ai mercati, né a chi investe», spiega Nicola Nobile di Oxford Economics. In realtà gli analisti del gruppo inglese non temono conseguenze drammatiche sullo spread: in caso di vittoria del no il differenziale con il Bund tedesco potrebbe salire fino a 50 punti oltre i 180 di oggi; in caso di vittoria del sì stimano un azzeramento del differenziale con la Spagna, attualmente 60 punti sotto l’Italia. Ma è pur vero che 100 punti base sono qualche miliardo in più di interessi sul debito, e che – in caso di vittoria del no - l’ombrello protettivo della Bce non potrebbe nulla contro un calo di fiducia da parte di quegli investitori interessati agli aumenti di capitale del Monte dei Paschi o di Unicredit. «Se vince il no quello di Mps è seriamente in discussione», chiosa Nobile. E’ quel che sostiene Goldman Sachs da settembre. Non è un caso se Visco, pur non drammatizzando le conseguenze del no, non escluda un intervento pubblico sulle banche. 
Twitter @alexbarbera 
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