domenica 27 novembre 2016

Renzi è solo l'ultima provvisoria incarnazione del sovversivismo perpetuo delle classi dirigenti italiane





La Stampa
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L’Economist tifa No. Arrivano i pompieri 
Referendum. Per il settimanale britannico si rischia l'uomo solo al comando. E «le dimissioni di Renzi potrebbero non essere la catastrofe che molti in Europa temono». La Bce pronta a aprire l'ombrello in caso di turbolenze finanziarie 

Andrea Colombo Manifesto 25.11.2016, 23:57 
Contrordine. La vittoria del No non fa più paura. L’Economist, anzi, si schiera apertamente e non ci va leggero: «Gli italiani dovrebbero votare No. Renzi ha sprecato quasi due ad armeggiare con la Costituzione. Prima l’Italia torna a occuparsi delle riforme vere meglio è per tutta l’Europa. Il nuovo Senato sarebbe un magnete per la peggiore classe politica. Ogni eventuale beneficio della riforma è secondario rispetto ai rischi, in cima ai quali c’è quello di un uomo solo eletto al comando. Le dimissioni di Renzi potrebbero non essere la catastrofe che molti in Europa temono. L’Italia potrebbe mettere insieme un governo tecnico come ha fatto tante volte». De profundis. Che arriva dal prestigioso settimanale britannico dell’Economist Group controllato dalla Exor – la holding degli Agnelli – proprio nel giorno in cui Renzi andava a Cassino a raccogliere l’endorsement di Sergio Marchionne. 
La Bce è molto più felpata e tuttavia getta a sua volta acqua sul fuoco. «Non si possono prevedere le conseguenze di una vittoria del No e i rendimenti dei titoli di Stato hanno subito movimenti al rialzo perché i mercati iniziano a valutare il rischio referendum», esordisce il vicepresidente Vitor Constancio. Poi però rassicura: «La Bce è pronta a esercitare un ruolo di stabilizzazione come ha sempre fatto». La rete di protezione è pronta. 
La strategia della sdrammatizzazione trova pronto riscontro in Italia, anche all’interno del Fronte del Sì e nel Pd. Aveva iniziato Dario Franceschini, mercoledì scorso, ripetendo che anche se la riforma fosse sconfitta Renzi non dovrebbe affatto dimettersi. Rilancia oggi il governatore della Toscana Enrico Rossi: «Renzi può continuare a governare sostenuto dal partito. Credo che questa, qualunque sia l’esito del referendum, sia l’ipotesi migliore per il Paese e per la sinistra». 
Il pompiere numero uno, però, è Silvio Berlusconi. Ripete che non sarà comunque Forza Italia a chiedere la testa del premier: «Ha la maggioranza, quindi sarà una sua decisione». Il leader azzurro sta facendo quel che aveva da tempo annunciato ai suoi. Dopo aver atteso l’ultimo scorcio di campagna è entrato in campo con la massima determinazione occupando quanti più spazi mediatici possibile e sgombrando il campo da ogni voce su un suo sostegno segreto alla riforma: «E’ pericolosa, apre la strada a una possibile deriva autoritaria». Aggiunge di suo la battuta forse più cattiva di cui sia mai stato fatto oggetto Matteo Renzi: «Ha sbagliato lavoro: come presentatore televisivo io lo avrei preso subito». 
Ma se fino al referendum l’ex Cavaliere gioca la stessa partita degli altri sostenitori del No, le cose cambieranno un minuto dopo. Soprattutto, ma non esclusivamente, se la riforma verrà sconfitta. I suoi alleati Salvini e Meloni hanno fretta. Vorrebbero capitalizzare l’eventuale successo subito dopo la modifica della legge elettorale e forse persino prima, anche a costo di votare con un sistema diverso per Camera e Senato. Il dinamico ottantenne è deciso a federarsi con loro, sostiene di avere già un progetto preciso. Ma sui tempi non se ne parla. Con o senza Renzi premier Berlusconi vuole prendere tempo, modificare la legge elettorale, iniziare a discutere di una riforma costituzionale condivisa. E’ certo di avere nella manica l’asso del Quirinale: «Non credo che il presidente potrebbe mai consentire elezioni con l’Italicum. Ci sarebbe il rischio di ritrovarci Grillo al governo». 
L’argomento non è precisamente istituzionale e tanto meno corretto, ma ha il suo peso. Non è l’unico però. Il punto essenziale è che il No alla riforma suonerebbe automaticamente come bocciatura anche della legge elettorale. Per Renzi, che ne ha già promesso la modifica, difenderla sarà impossibile. Sulla carta ci sarebbe il tempo per varare una legge nuova e votare in primavera. Nei fatti è quasi impraticabile e una volta superata l’estate sciogliere le Camere con pochi mesi di anticipo non avrebbe senso. Come l’Economist ha indicato, se vincerà il No è quasi certo che la legislatura arriverà alla sua scadenza naturale.


Un premier 3.0 per rovesciare il pronostico
Federico Geremicca  Busiarda
Ci sono le battute, come inevitabile: «Nella mia veste di scrofa ferita e aspirante serial killer...». Qualche faticosa autocritica: «La mia sorte non è importante, non farò l’errore di personalizzare». Un avvertimento a Berlusconi (e non solo) di cosa potrebbe riservare l’alba del 5 dicembre, se vincesse il No: «Lui dice “il giorno dopo ci sediamo al tavolo con Renzi”... No, a quel tavolo ci troverà Grillo e Massimo D’Alema». Ma nella lunga intervista concessa ieri dal premier a Massimo Gramellini, c’è soprattutto - in controluce - l’asse portante della possibile strategia futura: certo buona in caso di vittoria del Sì, ma ugualmente utile anche in vista di una campagna elettorale che molti ormai vedono vicina.
Una sorta di Renzi 3.0, che ha bisogno di una premessa nella quale il segretario-premier, naturalmente, crede ancora: la vittoria del Sì al referendum. Una vittoria che - a giudizio di Renzi - farebbe dell’Italia e del suo governo (premier in testa) il soggetto più forte in Europa, considerate le fatiche e le insidie elettorali che attendono Angela Merkel e François Hollande. E una forza che, acquisita in Italia, Renzi intenderebbe spendere - ed è una novità - soprattutto in Europa: «Il 2017 sarà cruciale per l’Europa, l’Italia deve avere una sua forte strategia».
Una strategia, una linea, che il presidente del Consiglio ha sintetizzato con una battuta: «Tra populismo e globalizzazione». Tradotto in politica - e col volto dei due leader che oggi meglio paiono incarnare quei due filoni - fra Trump e Merkel: una specie di terza via tra populismo nazionalista e certo rigore tecnocratico europeo. Che comunque obbligherebbe Renzi a trovare un equilibrio tra la fase uno del suo governo (convintamente europeista) e l’attuale fase due, segnata da polemiche quotidiane, veti annunciati e rivendicazione di sovranità.
Per il premier si tratterebbe, in fondo, di dare spessore e sistematicità a quel che in qualche modo è già stata la sua discussa pratica di governo in questi mille e passa giorni: accompagnare a classici provvedimenti «di sinistra» iniziative (leggi) che parlino anche all’elettorato più moderato, di centrodestra. Un tentativo, insomma, di tener conto del vento che tira e provare ad evitare al Pd la sorte che si è abbattuta sui socialisti spagnoli, francesi e greci, e sugli ancora provati laburisti inglesi.
Si tratta, come è evidente, di un tentativo non facile e già oggetto di contestazione - nell’ultimo anno almeno - per l’implicito «snaturamento» di approcci e valori classici e cari alla sinistra italiana. Ma soprattutto, questa ipotetica terza via sarebbe più difficilmente percorribile senza la forza - una sorta di investitura - che una vittoria del Sì attribuirebbe a Renzi ed al governo, tanto sul piano interno quanto sulle scenario europeo. Ma che possibilità ha il Sì di prevalere nelle urne del 4 dicembre?
Difficile dirlo. Ma da qualche giorno, paradossalmente, la campagna referendaria - dopo tentativi di spersonalizzazione e discussione nel merito - sembra esser tornata precisamente al punto di partenza: il referendum sul premier. Con una novità non da poco, dettata - forse - dall’avvicinarsi della sentenza. Infatti, al cacciamo (o salviamo) Matteo Renzi, si è andata aggiungendo una domanda: va bene, lo cacciamo, ma dopo che succede? Anche per questo è difficile immaginare che il rush finale di questa campagna venga lasciato ai costituzionalisti e a dotti confronti sul bicameralismo: lo scontro sarà tutto politico, e l’arma più forte in mano al Sì - checché se ne pensi - oggi sembra proprio essere quella certa e atavica paura italiana del «salto nel buio». Come forse, mesi e mesi fa, Matteo Renzi aveva immaginato. O forse soltanto sperato.
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I POTERI INTOCCABILI 

MARCO RUFFOLO Rep 
PENSAVAMO di poter giudicare d’ora in poi i dirigenti pubblici sulla base dei risultati raggiunti. Di poter legare le loro carriere e i loro premi (oggi dati a pioggia) alle performance realizzate. Pensavamo di poter costringere le Regioni a chiudere la marea di società inutili, o utili solo a distribuire poltrone. Mettiamoci l’animo in pace. Non accadrà nulla di tutto ciò. La Consulta ha messo una pietra sopra la riforma della pubblica amministrazione.
SEGUE A PAGINA 37
ERA uno dei pilastri del programma di Renzi e se ne è salvata solo una piccola parte: quella sulla digitalizzazione. A questo punto sarà molto difficile che il governo possa rimetter mano a delega e decreti attuativi. Cadono le norme sulla dirigenza, sul pubblico impiego e su partecipate e servizi pubblici locali. Cadono perché il governo le ha approvate solo con il “parere” delle Regioni e non raggiungendo l’“intesa” con loro. Le materie toccate dalla riforma Madia sono infatti in gran parte di competenza regionale o mista Stato- Regioni, come nel caso della sanità e della finanza pubblica. E dunque il governo non poteva decidere da solo. Si apre ora uno scenario estremamente complesso che per forza di cose incrocia l’esito del referendum sulla riforma costituzionale, e alimenta una polemica già incandescente. «Siamo un Paese bloccato, siamo circondati da una burocrazia opprimente», commenta Matteo Renzi. E Renato Brunetta, identificando il bersaglio del premier nella Consulta stessa, si appella scandalizzato al capo dello Stato. Poi Palazzo Chigi spiega: la critica era alle Regioni.
Non è certamente la prima volta che la Corte Costituzionale interviene in un contenzioso tra Stato e Regioni. Dal 2001 i suoi giudizi su questo tipo di conflitti sono passati dal 5 al 40% del totale. Perché? Tutto comincia quindici anni fa, quando per arginare la poderosa onda federalista scatenata dalla Lega, il centrosinistra, allora al governo, cambiò la Costituzione togliendo allo Stato una lunga serie di competenze esclusive e obbligandolo a condividere la maggior parte delle decisioni in condominio con le Regioni. “Competenza legislativa concorrente”: così venne chiamato questo infernale meccanismo. Lunghissimo l’elenco delle materie: dal commercio estero alla tutela del lavoro, dall’istruzione alle professioni. E ancora: tutela della salute, ricerca e innovazione, ordinamento sportivo, protezione civile, alimentazione, governo del territorio, energia, grandi reti di trasporto, porti e aeroporti, casse di risparmio, beni culturali e ambientali, previdenza complementare e persino il coordinamento della finanza pubblica. In tutti questi campi il governo non poté più agire da solo. Come era prevedibile, al posto dell’agognata collaborazione è cominciata una guerra senza quartiere fatta di ricorsi e contenziosi. E tra un contenzioso e l’altro, l’azione riformatrice dei governi è rimasta spesso sospesa. Aspettando che i giudici si esprimessero. Dal 2002 al 2014, 500 sentenze a favore delle Regioni, 475 contro.
Innumerevoli le misure governative bocciate. Quelle che trasferivano fondi alle Regioni senza il loro consenso per scopi particolari, come fare asili nido, o procedere alla difesa del suolo o alla manutenzione degli edifici scolastici. Quelle che acceleravano opere pubbliche ponendo un limite di 60 giorni ai tentativi di intesa con le Regioni interessate. O ancora quelle che ponevano un freno agli sprechi della finanza locale, pretendendo dai governatori una relazione con le misure anti-spreco realizzate. In tutti questi casi i giudici della Consulta hanno dichiarato illegittimi i provvedimenti dei governi per le stesse ragioni che hanno ispirato la sentenza di ieri. Poco importa se l’intesa con le Regioni non si trova, il fattore tempo non è considerato importante. Ecco cosa dice una sentenza di illegittimità di fronte a una legge statale che dava 60 giorni di tempo per trovare l’accordo: «La disposizione prevede quale unica condizione per l’adozione unilaterale dell’atto il semplice decorso del tempo», e «prescinde completamente dal principio di leale collaborazione». Come dire che l’obbligo di collaborare non può avere limiti di tempo. Non importa se nel frattempo cittadini e imprese non hanno più alcun riferimento legislativo certo per prendere le loro decisioni.
Cosa fa adesso la riforma costituzionale che andremo a convalidare o a spazzare via il 4 dicembre? Prende tutte quelle competenze che oggi vengono esercitate “in condominio” e le attribuisce in esclusiva allo Stato. Il che ci consegnerebbe sicuramente un quadro più certo e allargherebbe notevolmente i margini di manovra del governo, restringendo tuttavia in alcuni casi, come nell’istruzione universitaria, gli spazi di autonomia interna.
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IL FANTASMA DEL GOVERNO TECNICO FRANCESCO MANACORDA Rep
GOVERNO tecnico, sentenzia duro l’Economist. I tecnici, evoca minaccioso Renzi, mettendoli nella stessa frase con la palude e le sabbie mobili, e assicurando la sua assoluta incompatibilità con tali repellenti figuri e scenari. Esecutivo politico e non tecnico, tuona perfino Padoan, lasciando ancora una volta di stucco chi credeva che proprio quel mite economista con un passato all’Ocse fosse il Tecnico per eccellenza.
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AVVIENE insomma che nel gioco continuo eppure sempre ricorrente della politica — un po’ come se fossimo sul tabellone del Monopoli — torni ancora una volta lo spettro del governo tecnico. Agitato per l’appunto come spauracchio aumentatasse dal premier che sarà forse costretto a passargli la mano, ma immaginato da molti come l’unica soluzione possibile a un dopo referendum dove vinca il no. Magari auspicato dai mitici mercati, che parlerebbero appunto anche attraverso l’Economist e similari. E apprezzato, anche se in silenzio, da quei circoli, specie centro e nordeuropei, che vedrebbero assai meglio un’Italia responsabile e silenziosa, impegnata a fare i compiti a casa di finanze pubbliche, invece di quel primo ministro sempre un po’ sopra le righe che unisce rivendicazioni condivisibili a dosi massicce di retorica antieuropea.
C’è insomma chi si augura di rivedere a Palazzo Chigi un emulo di Ciampi, Amato, Dini o Monti e chiede all’Italia di dedicarsi non tanto alla riforma costituzionale, quanto alle riforme concrete che servono all’economia, da quella della giustizia a quella della burocrazia.
Possibile che dopo una sconfitta di Renzi al referendum questo avvenga, ma con un panorama di fondo assai mutato. Chi ha guidato nei decenni passati l’Italia da tecnico ha saputo spesso usare l’Europa come obiettivo o sprone, contando appunto su quel vincolo esterno che tradizionalmente serviva a far inghiottire a un elettorato ridotto sacrifici indigesti se proposti solo a livello nazionale e a ridurre simmetricamente — “È l’Europa che ce lo chiede” — le responsabilità della classe dirigente locale. Ma quelle ricette amare dei tecnici che a volte sono state indispensabili — è il caso delle riforme pensionistiche varate prima da Dini e poi da Monti, che nonostante le numerosissime contestazioni hanno introdotto elementi di equità tra generazioni — adesso rischiano di non essere più legittimate nemmeno in Europa. Il semplice rigore sui conti pubblici, senza un disegno per provare a uscire dalle secche infinite della crisi, non va di moda al G7 e ha già meno adepti dalle parti di Bruxelles; per non parlare degli Stati Uniti dove Trump rischia di passare per il più keynesiano dei conservatori.
Più che di tecnica, insomma, ci sarebbe bisogno di politica. Politica di sviluppo, certamente, e con le poche risorse indirizzate in modo univoco verso la crescita. Da questo punto di vista la disinvoltura di Renzi nel mixare comprensibili rivendicazioni in sede europea con una gestione disinvolta della finanza pubblica e un cocktail infinito di elargizioni in classico stile preelettorale, non lo aiuta di certo a definire la sua figura come quella di un politico riformista.
Forse, facendo così, il premier aprirà davvero la strada a un successore tecnico che non si scontri più con la Commissione su uno 0,1% di rapporto deficit/Pil. Ma forse anche sul governo tecnico e sui suoi rapporti con Bruxelles è ora di alzare lo sguardo dalle nostre vicende e guardarci un po’ attorno.
Proprio ieri — è solo una coincidenza, ma davvero suggestiva — il presidente della Bundesbank, ossia quanto di più ortodosso si possa immaginare anche in Germania in termini di rigorismo sui bilanci pubblici, ha chiesto di togliere alla Commissione europea il controllo sui conti pubblici dei singoli Stati per affidarsi a un organismo tecnico. Il motivo? La Commissione è troppo politicizzata — e dunque troppo morbida con gli indisciplinati — e c’è bisogno di un organismo super partes che giudichi con rigorosi criteri oggettivi. Attento tecnico, ci sarà sempre qualcuno più tecnico di te.
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