mercoledì 9 novembre 2016

Scherzetto... Il ciclo della rappresentazione democratica negli USA si è esaurito. L'Europa segue a ruota


Non capire la fase politica, ridursi al tifo da stadio, essere subalterni.

Esattamente come ieri erano ridicoli e subalterni quei compagni che assieme a Veltroni, al Manifesto e Liberazione avevano vinto le elezioni americane con Obama, sono oggi patetici e non meno subalterni quelli - spesso proprio gli stessi - che le hanno vinte di nuovo con Trump e adesso esultano come degli infanti.

Quando si è deboli, impotenti e confusi, l'immaginazione prevale sempre sulla realtà, almeno fino alla prima guerra e al primo taglio del welfare. La nostra storia non meritava però anche questa umiliazione.

Va detto, comunque, che il vero vincitore del premio Pane & Volpe è zio Bernie Sanders.
A questo punto ha dimostrato sul campo di avere i tempi giusti e la stoffa per fare il leader della sinistra italiana.
Pensiamoci. [SGA].

Una vittoria clamorosa che lascia attoniti i faziosi ma offre infiniti spunti di riflessione a chi non ha paura della realtà 
di Fulvio Scaglione Giornale 

Giuseppe De Bellis Giornale

Una lunga notte di sorprese. Il discorso nel suo quartier generale: sarò il presidente di tutti gli americani. Hillary Clinton si congratula con lui ma non parla. L'invito di Obama alla Casa Bianca   Elena Molinari mercoledì 9 novembre 2016 Avvenire

Senso del tragico e idealismo le doti del vero statista 
Due differenti visioni del mondo che devono poter coesistere per non cadere nell’impossibilità di agire o nei negoziati senza fine 
Robert D. Kaplan Busiarda
In La mia vita (Racconto di un provinciale), pubblicato nel 1896, Anton Cechov traccia un ritratto davvero devastante dei muzhik, i contadini russi, che mostra quando le condizioni sociali e politiche della Russia siano rimaste immutate nel corso della storia: «Erano quasi tutti persone nervose, irritate, offese; con una immaginazione repressa, ignoranti, di aspetto povero e scialbo, sempre con gli stessi pensieri, sulla terra grigia, i giorni grigi, il pane nero, gente furba che però, come gli uccelli, riusciva soltanto a nascondere la testa dietro un albero. Non sapevano fare di conto, e non sarebbero andati a raccogliere il vostro fieno per venti rubli, ma ci sarebbero andati per un mezzo secchio di vodka, nonostante con venti rubli ne avrebbero comprati quattro, di secchi».
Molti, a leggere queste righe, potrebbero scuotere la testa constatando quanto sia impossibile che mai venga qualcosa di buono dalla Russia, comprendendo come tutto, dagli zar a Lenin e Stalin, fino a Putin, sia legato in qualche modo alla realtà sociale dipinta da Cechov. Avrebbero ragione. Molti altri potrebbero invece pensare a tutte le riforme necessarie ad alleviare condizioni di vita così misere, e a tutte le strade che la Russia alla fine del XIX e all’inizio del XX secolo aveva davanti - e ha davanti tuttora - per migliorare la società. E anche questi avrebbero ragione.
Geopolitica vs politica
Definire la prima visione come realistica e la seconda come idealistica sarebbe semplicistico, come anche parlare di visione deterministica e antideterministica - con coloro che si oppongono all’intervento umanitario collocati di solito nel primo campo e quelli favorevoli nel secondo. Tutte queste dicotomie colgono comunque elementi di una particolare divisione nella battaglia delle idee. Sto parlando di sensibilità e visioni del mondo totalmente differenti - che includono anche divergenze di opinioni su argomenti più specifici - e c’è qualcosa di profondo che spiega molte delle dispute in corso a Washington, e che spinge alcuni, per esempio, ad ammirare la saggezza presciente dell’iper-realista Brent Scowcroft e altri ad applaudire l’instancabile energia di John Kerry nel cercare di fare del bene.
In realtà sto parlando di quelli che sono attratti dalla geopolitica - l’eterna battaglia di spazio e potere combattuta sulla carta geografica da Stati con caratteristiche storiche e culturali particolari e spesso immutabili - e quelli che pensano invece alla politica, una sfera nella quale l’umanità cerca attivamente di trovare soluzioni ai problemi internazionali, proponendo azioni specifiche al governo americano. Il primo gruppo è più o meno incline a leggere e studiare la storia e la letteratura, il secondo alle scienze politiche. Il primo si fa sedurre dalla narrativa, il secondo da grafici e tabelle. Il primo va in cerca di essenze culturali profondamente radicate, il secondo di quello che nell’era della globalizzazione accomuna gli individui oltre le barriere culturali.
Per quanto queste generalizzazioni siano imperfette, ritengo che contengano una verità. E cioè che sulle grandi questioni della politica estera le persone si schierano in base ai loro gusti e inclinazioni intellettuali. Ma qui la faccenda diventa più complicata, perché gli idealisti della politica, come mi è capitato di notare, sono più inclini alle scienze politiche, mentre i neoconservatori (una sottospecie degli idealisti) preferiscono la filosofia, dalla quale attingere principi astratti da applicare a tutto il mondo.
Quelli che, leggendo il brano di Cechov, abbassano le braccia di fronte alla bestialità immutabile della Russia tendono a diffidare dei grandiosi piani per imporre i valori americani all’estero; coloro che leggono Cechov come un appello a passare all’azione sono meno cauti. 
Meglio Shakespeare
Onestamente, mi sento appartenere di più al primo campo, frutto non solo delle mie letture preferite, ma anche di decenni come corrispondente all’estero, che mi hanno insegnato come numerosi luoghi abbiano esperienze storiche radicalmente diverse da quelle dell’America.
In realtà, uno statista non può considerarsi tale senza prestare ascolto a entrambe le sensibilità. Deve essere un geopolitico che accetta la battaglia dello spazio e di potere tra Stati con diversi valori, aspirazioni ed esperienze storiche, e nello stesso tempo cercare di ottenere in questa spietata competizione dei vantaggi per il suo Paese. Accettando il mondo come è, con tutte le sue crudeltà così ben descritte da Cechov, ha il senso del tragico. Ma siccome deve anche cercare vantaggi e migliorare le situazioni grazie alla diplomazia, deve credere nell’azione umana, il che richiede una buona dose di idealismo. Perché possedendo soltanto il senso del tragico lo statista resterebbe impossibilitato ad agire, mentre limitandosi all’idealismo si lascerebbe coinvolgere in un negoziato dopo l’altro, senza piano né scopo, e senza saper riconoscere un risultato realistico o semplicemente utile (un po’ come il segretario di Stato Kerry). Quindi, è necessario impiegare entrambe le sensibilità, in quanto ciascuna da sola è limitante e riduttiva.
Formazione carente
La geopolitica è troppo meccanica. Si sconfigge da sola rifiutando di prendere in considerazione gli individui. Non accetta che, in fondo, Shakespeare ha più da insegnarci di Mackinder o Mahan. D’altro canto, i politici di tipo idealista spesso ignorano semplicemente l’esistenza di mondi come quello descritto da Cechov, e più il mondo diventa caotico più reagiscono con stupore e sconvolgimento, perché il sapere storico e culturale che si ricava dalla storia e dalla letteratura, con tutte le sue verità spiacevoli, è qualcosa che loro, e i loro insegnanti del college, hanno troppo spesso ignorato. È questa la ragione ultima per la quale le nostre élite, invece di accettare un mondo di semi-anarchia, ne restano completamente spiazzate.
Nello stesso tempo, devo ammetterlo, la politica è una disciplina molto più difficile e impegnativa della geopolitica. Per esempio, l’Ucraina dal punto di vista della geopolitica russa, di quella americana e di quella tedesca è un conto, ma produrre una politica nei confronti dell’Ucraina è qualcosa di molto diverso. Dobbiamo fornire armi agli ucraini? E quali armi? Quanto ci costerà? Quanto tempo servirà per addestrarli a usarle? E quanto la loro dottrina militare e la struttura delle loro forze armate sono adatte a utilizzare con efficacia le nuove armi che gli possiamo dare? Cosa succede se le armi cadranno nelle mani dei russi? E cosa accadrà se l’aver armato gli ucraini non riuscirà a cambiare la situazione sul terreno, cosa facciamo come piano B? Dobbiamo usare il Pentagono o chiedere alla Cia? Ecco perché, mentre il geopolitico può essere un professore seduto in poltrona, un politico deve essere rapido, dinamico e dotato di strumenti sociali della miglior specie per promuovere le sue proposte attraverso la burocrazia. La politica è meno astratta e dotata di fascino intellettuale della geopolitica, ma richiede più carattere e personalità.
Il mio timore è che la crescente tendenza dell’accademia alla specializzazione, insieme alla politicizzazione delle scienze umanistiche, stia producendo nuove élite politiche carenti di una formazione che includa entrambe le visioni che ho appena descritto.
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Fare i conti con il trumpismo per capire l’era post-democratica 
Cosa c'è di nuovo in America. Continuerà a far discutere l’endorsement sul web di Slavoj Žižek a Donald Trump come «fenomeno antisistema»
Luca Celada Manifesto Los Angeles Aggiornato 9.11.2016, 12:19 
Il voto di ieri ha espresso il verdetto degli americani sulle elezioni più singolari nella storia recente del paese. Quelle che hanno visto un corpo estraneo insinuarsi in un sistema politico parso d’improvviso disperatamente anacronistico e in profonda crisi. 
Le elezioni Usa del 2016 sono le ultime nell’ordine ad aver comprovato la crisi fisiologica delle democrazie sotto il peso del liberismo transnazionale che ha sconquassato le classi medie e lavoratrici ed esautorato gli elettori. 
L’ascesa «distopica» e post-politica di Trump ha incarnato la reazione viscerale a un alienante ordine globale. 
Proprio per questo è un errore leggerla come idiosincrasia americana. Soprattutto nel continente che nell’arco di pochi mesi ha visto barricate contro donne e bambini rifugiati, il trionfo isolazionista della Brexit, vagoni piombati in Ungheria, le ascese di Viktor Orbán, Marine Le Pen, Nigel Farage e Matteo Salvini e nelle frontiere sigillate a Ventimiglia la pietra tombale di Schengen e del progetto comunitario. 
Trump probabilmente è più pericoloso di ognuno di questi aspetti ma il rancore che ha fomentato nella rust belt deindustrializzata, la paura e le divisioni come strumento demagogico legittimato dal trumpismo, è lo stesso che oggi riverbera da Mosca all’hinterland padano, agli swing states del Midwest. 
Quella che inizialmente, insomma, era parsa a molti una anomalia da epoca reality o uno svarione destinato ad autocorreggersi, è finito per rivelarsi sintomo di un fenomeno più ampio, quella nuova era nazionalista in cui si possono annoverare anche le prese di potere di Temer a Brasilia e Duterte a Manila. 
Sfidando i pronostici il populista post berlusconiano si è impadronito del partito conservatore nazionale e ha trascinato la politica americana fuori da ogni binario con una inquietante quanto efficace campagna demagogica. I primi ad imparare a proprie spese la lezione sono stati i repubblicani debellati come birilli nelle primarie da un candidato che nel giro di poche settimane si è impossessato del Gop sotto gli occhi increduli dell’establishment del partito. 
L’esproprio è stato sancito durante la convention dai sorrisi tesi all’interno del palasport di Cleveland e dagli slogan nei comizi degli «insurrezionalisti» di Trump all’esterno, quelli in cui il leader dei Bikers for Trump, Chris Cox, mi assicurava che a gennaio avrebbe portato 1000 Harley Davidson a Washington per festeggiare l’insediamento del proprio beniamino. I tatuati centurioni ed i «patrioti» con vistose armi alla cintola sembravano improbabili corsari all’arrembaggio di un sistema che li aveva troppo a lungo ignorati. Barbari pronti a scorrazzare nei palazzi espugnati di Washington con la foga dei soviet nel Palazzo d’Inverno. 
In altre parole depositari di un ardore «rivoluzionario» che Donald Trump ha cavalcato fino all’uscio dello studio ovale. 
Nei giorni scorsi ha provocato abbondante scalpore e polemica in rete l’endorsement di Trump da parte di Slavoj Žižek. In realtà il filosofo sloveno ha semplicemente sottolineato che fra il liberismo socialmente moderato di una congenita insider come Hillary Clinton e il ribaltone «distruttivo» del suo avversario, è quest’ultimo ad esprimere l’impeto più plausibilmente rivoluzionario rispetto al sistema costituito. 
Quello che Žižek ha definito un «riconoscimento disperato» è la valutazione che, fra i due programmi, sia la gestione oculata e moderata di una globalizzazione crepuscolare, cioè il progetto Clinton, il più nocivo. Žižek ha dato voce a chi si domanda in cuor proprio se il nichilismo nefasto, carico di isolazionismo e xenofobie, oggi espresso in molte parti del mondo non sia il fuoco purificatore che è necessario attraversare per poter costruire sulle macerie della democrazia tardo-liberista qualcosa di nuovo. 
Trump, nel bene e soprattutto nel male, ha espresso col suo catartico «vaffa» al sistema, un Weltanschauung con cui i progressisti, la sinistra del mondo, non può evitare di continuare a misurarsi. E questo significa come avvenuto in America valutare se sostenere candidati imperfetti come argine alle catastrofi prorompenti o tralasciare le battaglie strategiche di retroguardia. 
E ancora, se lottare per riformare il tardo capitalismo dall’interno come esorta a fare ad esempio Robert Reich, o cercarvi alternative «esterne» come propone Cornel West. E in ogni caso quali strategie adottare (ambientalismo, localismo, impegno territoriale?) in un panorama post-ideologico, post-fattuale, post-politico – sostanzialmente post-democratico. 
Dalle urne americane è uscita un’unica certezza: gli interrogativi si porranno, non solo in America, sempre più urgentemente nei prossimi quattro anni. E oltre.

La rabbia riempie le urne ma il paese resterà diviso
Gianni Riotta Busiarda
Lunghe code ai seggi e pioggia in molti Stati e voti per posta, lasciano presagire affluenza record nel duello finale tra la democratica Hillary Rodham Clinton e il repubblicano Donald J. Trump. Gli analisti temevano che disaffezione e rancore, due candidati impopolari nei loro stessi partiti, alienassero i cittadini dal voto, giusto l’8 novembre quando, 56 anni fa, in un clima di ottimismo, fu eletto John Kennedy. Invece proprio una campagna ispida e litigiosa di colpi bassi, con le manovre dell’ Fbi del direttore Comey e Putin a scatenare hackers contro i democratici, l’aria da western all’O.K. Corral, 1881, ha persuaso gli americani a mettersi in coda già col buio.
Solo contro tutti
Donald Trump può guardare a questo esito con orgoglio. Per la prima volta nella storia tutti i presidenti viventi, Carter, Bush padre e figlio, Clinton, due repubblicani e due democratici, votano per lo stesso candidato, Hillary. Tutti i giornali, comprese testate che da un secolo e mezzo appoggiavano i repubblicani, hanno offerto endorsement a Clinton. I finanziatori hanno bocciato il venerabile Grand Old Party repubblicano, Hillary aveva per spot tv 135 milioni, Trump solo 4. I notabili del partito, spinti dai candidati McCain 2008 e Romney 2012, hanno sabotato il loro campione. Hillary ha mobilitato migliaia di volontari, Trump non aveva in molte città neppure una stampante. Eppure, malgrado lo svantaggio sulla carta incolmabile, Trump è arrivato sul filo di lana pressoché pari con Romney 2012. Il meltdown, la fusione del partito, non c’è stata, milioni di americani hanno votato, decisi, per l’irrequieto Trump.
Debolezze dei candidati
Accuse di molestie sessuali, tasse occultate, aperto disprezzo per politica tradizionale e intellettuali, le menti snob della destra a denunciarlo e uno spot antisemita, con il finanziere Soros e politici ebrei alla berlina? Perdonato tutto, Trump ha riunito la base del partito. Effetto dell’impopolarità della Clinton, che qualunque candidato repubblicano «normale», Jeb Bush, Paul Ryan, Romney, avrebbe battuto. Ma anche del richiamo populista del businessman di New York. A tradirlo solo l’eccesso di foga, che sembra aver mobilitato milioni di ispanici, spaventati dal Muro contro il Messico e dalle minacce contro l’emigrazione. Donne e latinos salvano Hillary, ma Trump schiera la stragrande maggioranza dei maschi bianchi, e tra gli uomini senza laurea spadroneggia, 70% a 30. Una legione che non diserterà, un blocco sociale e storico imponente.
Ecco la straordinaria novità: vinca o perda, Trump è un colosso della politica mondiale, con il crisma di mezza America. Con lui, e la sua base furente che ama le corse automobilistiche Nascar, le armi, se ne frega delle belle parole su democrazia e diritti, diffida di guerre e libero mercato, i moderati repubblicani dovranno fare i conti per almeno una generazione. Se Clinton riuscisse, grazie alla sua caparbietà e alla paura dei centristi per Trump, a raggiungere la Casa Bianca, non deve illudersi di poter rabbonire a chiacchiere i sanculotti digitali. I cosiddetti Alt Right, militanti di destra che dominano il web come Richard Spencer, simpatizzante per Mussolini, capelli rasati, 20000 follower su twitter @richardbspencer, motto «sono il Karl Marx dell’Alt Right», non accetteranno tregue, solo l’impeachment di «Hillary» li placherà. Ai comizi vendono una simpatica maglietta per la stampa, con scritta stile Ikea: «Corda, Albero, Giornalista, Istruzioni Accluse».
Il razzismo
Il cupo livore contro minoranze, neri, donne, gay, ebrei, fa dire a Eddie Glaude, di Princeton University, e John Nichols del settimanale progressista The Nation, che «i maschi bianchi» hanno paura di un’America in cui non comandano più. Se Clinton non vara in gran fretta riforme per impiegati, operai e contadini impoveriti, già alle elezioni parlamentari di midterm 2018 sarà alle corde. Al partito che fu di Lincoln si pone un dilemma strategico. O il Gop torna ad essere centrista e autorevole, capace di guidare la base focosa, di aprirsi alla nuova geografia politica Usa, donne, neri, ispanici, o resta ostaggio di Trump, Alt Right, fondamentalisti cristiani, rumorosa minoranza ma all’opposizione. La Storia ha parlato ieri, chi non ne accetterà la lezione si aspetti umilianti sconfitte.
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Se il potere diventa "rosa" con regole fissate dagli uomini
Lucia Annunziata* 
La appena conclusa «peggiore campagna elettorale di sempre» è stata percepita come tale perché ha fatto male. 
Due candidati entrambi imperfetti hanno innescato una tempesta perfetta di inadeguatezze, fragilità ed imbarazzi. Rivelando a tutti le condizioni reali del Paese, e il collasso anche in Usa del sistema dei partiti; indicando il progressivo sbriciolamento del mito di una democrazia finora considerata solida (certo più solida di quelle europee) nei suoi bilanciamenti e nei suoi toni. 
Una operazione verità dolorosa ma che ha fornito una rappresentazione dell’America molto più realistica. Tale da condizionare il corso della nuova presidenza. 
I migliori esempi di questa nuova dinamica riguardano la ridefinizione nel discorso pubblico della rilevanza delle donne e quella delle classi sociali. Non poco, considerando il numero di elettori che i due temi coinvolgono. 
Sulle donne la miccia viene accesa da Trump, nel «Paese più democratico del mondo», che la narrativa ufficiale vuole anche come il Paese dove la condizione femminile è più avanzata, il candidato repubblicano Trump si presenta come un convinto, e aggressivo, molestatore, verbale (e materiale?), delle donne. Sorpresa, indignazione. Ma per la sfidante Hillary dovrebbe essere la migliore occasione per capitalizzare nuovi voti. Purtroppo Hillary Clinton non riesce a deflettere la serie di attacchi di Trump, per una semplice ragione: lei stessa non è esattamente, si scopre, una bandiera delle donne. La sua carriera, prima, e la sua corsa alla Casa Bianca dopo, sono costruite sul potere del marito ex Presidente. E la sua elezione trasforma di fatto una presidenza democratica in un affare di famiglia. Certo la presidenza familiare è stata tentata dai Kennedy, e praticata dai Bush. Ma è un filo diverso il passaggio di tale istituzione fra marito e moglie - una strada che nessuna donna con qualche autostima prenderebbe (e forse è impietoso dirlo, ma i precedenti sono Imelda Marcos, e, in questi giorni, la patetica ricomparsa in Nicaragua di Daniel Ortega che corre per la presidenza insieme alla moglie). 
Colta fra queste due imperfezioni, l’America scopre improvvisamente il vero posto delle sue donne. Umiliate da mani invadenti, peggio pagate degli uomini, e penosamente costrette, anche nel caso di affermazioni spettacolari, come quella della presidenza, ad adeguarsi alla linea di potere vera, quella di un marito. Il mondo in cui muove i primi passi la prima candidata donna Presidente non è dunque un luogo glorioso per le donne. Ma almeno è il mondo com’è - e non quello coperto finora dalla propaganda ufficiale. 
Non è la sola rivelazione. Nelle attuali elezioni è stata infatti messa al centro dell’attenzione, di nuovo, la scala fra classi. Concetto, quello di classe, che - come per le donne - nella narrativa pubblica è stato a lungo annegato nella retorica della «uguaglianza sociale» del sogno americano. Di nuovo, è la intemperanza verbale dell’imperfetto Trump, a ridefinire il dibattito. Mal pagato, arrabbiato, convinto di aver pagato da solo il prezzo della «jobless recovery», una ripresa più finanziaria che reale, e convinto di aver perso con il suo potere di acquisto la sua strategica centralità nel destino del Paese, l’uomo bianco, perno tradizionale della stabilità americana nonché zoccolo duro dell’elettorato democratico, unisce la sua voce a quella di Trump. E anche in questo caso è stata la «imperfezione» di Hillary a fare da volano a questo cambiamento. Definita dal suo status di privilegio, dalla sua accorta gestione del potere, dalla sua intimità con il sistema, viene vista dalla sua stessa base elettorale come parte delle élite avversarie più che il proprio difensore. Prova spettacolare della mancanza sul tema di sensibilità della candidata è il suo discorso sulla fine del carbone, suonato ai minatori come una campana a morte. 
Non che sia sorprendente questa inversione di ruoli - il voto della classe operaia democratica da tempo balla, e nella rielezione di Bush ad esempio fu proprio il consenso operaio di Stati industriali a far rivincere George W. Ma mai, finora, lo scontento era diventato una piattaforma politica. 
La rabbia (se non la «lotta») di classe è tornata centrale nella battaglia politica in Usa. Ma nelle mani di un tycoon, che porta al suo partito repubblicano un voto che non ha mai avuto prima, ma che è l’opposto di tutti gli interessi che i repubblicani rappresentano. Mentre il partito democratico nelle mani di Hillary finisce con l’essere indicato come antagonista della sua stessa base. Un gioco di rappresentanza avvitato su un inedito incrocio, un cambiamento di pelle in corso dei partiti, il paradosso dei tempi in cui viviamo anche in Europa. Solo un atto di estrema superficialità può portarci a chiamarlo «populismo» 
*Direttore di Huffington Post Italia
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L’America ferita 
Minacce, insulti e liti furibonde in un Paese mai così tanto diviso
VITTORIO ZUCCONI rep
WASHINGTON E ADESSO, Presidente? Nella solitudine degli 80 metri quadrati dello Studio Ovale davanti alla scrivania che fu di John F. Kennedy, il panorama di un’America straziata e di un mondo sbriciolato si spalancherà in tutta la sua enormità oltre le finestre blindate. Mai, si è detto e ripetuto in questa tossica campagna elettorale, gli Stati Uniti sono stati tanto divisi, il rancore degli sconfitti verso i vincitori tanto acre e la convalescenza tanto precaria. Ma è vero?
La tentazione di annunciare l’Apocalisse americana, di narrare l’Armageddon finale delle contraddizioni culturali, sociali, economiche, razziali di quella insalatiera umana, come la definiva Jimmy Carter, chiamata America è un tema ricorrente nel racconto degli Stati Uniti. L’andamento di questa campagna elettorale 2016 lo ha riportato d’attualità con la prepotenza della retorica di Trump. Mai, nella storia moderna della politica, negli Usa si era sentito il candidato di un partito definire l’avversario, in questo caso l’avversaria, una «farabutta criminale», promettendo di lock ‘ er up, di rinchiuderla in carcere dopo l’elezione tra le ovazioni dei supporter. Mai un candidato aveva messo a priori in dubbio la regolarità del sacrosanto processo elettorale e la legittimità del risultato. Trump è stato il giocatore che contesta l’arbitro «prima che cominci la partita» ha detto Barack Obama.
Ma la profondità delle faglie sismiche che oggi spaccano gli Stati Uniti appare insanabile soltanto se la si osserva nel presente e non nella continuità turbolente di una nazione che continua a cambiare se stessa, generazione dopo generazione. Le lacerazioni che oggi la percorrono sembrano inedite e insanabili soltanto perché uno dei due pretendenti alla corona temporanea ne ha fatto la propria piattaforma di successo, utilizzando l’eco ormai immensa della caverna dei Social network.
Oltre i dispettucci personali, le mani non strette, le volgarità da spogliatoio di palestra, la paranoia delle forze di sicurezza timorose che tanta violenza retorica si materializzasse in proiettili, gli orridi spot televisivi, la realtà sociale e culturale sottostante non è più difficile, né insanabile, di quanto sia stata in altri momenti di crisi e forse sempre. Una serie di miti è riaffiorata, per provare l’abisso sul quale l’America cammina, ma visti da vicino sono, appunto, più miti politici che realtà. La compressione della “classe media”, intesa come classe media maschile e bianca, non è cominciata con i trattati commerciali di libero scambio o con la delocalizzazione: muove negli anni ’70, quando l’esplosione del prezzo del petrolio coglie completamente impreparate le Sorelle di Detroit, chiuse nelle loro arroganza, e spalanca le porte alle più razionali produzioni giapponesi. L’inquietudine e la frustrazione dei ventenni, i “Millennials” come sono stati battezzati ora, non raggiungono neppure la soglia delle rivolte violente cominciate nei campus universitari degli anni ’60, stimolate dal Vietnam, mentre la brutalità della polizia contro le vite dei neri è una continuazione, non una novità, in una storia che ha visto cani lanciati contro dimostranti pacifici nel Sud. I rari episodi di disordini nei comizi di Trump sono scaramucce rispetto alle giornate di guerriglia sanguinosa attorno alla Convention Democratica di Chicago1968.
Il fatto che si sfrutti il turbamento di una società spregiudicatamente a fini elettorali non lo rende né più letale del passato, né nuovo. Il discredito delle istituzioni è acuto, ma non inaudito a chi visse e ricorda gli anni di Nixon, “Dick il Sudicio”, di Johnson il “killer dei ragazzi americani”, della tragica follia del Maccartismo. Tutto è grave, tutto è importante nella nazione che oggi paga, dopo il passeggero balsamo delle buone intenzioni spalmato con il primo presidente afroamericano, il trauma ritardato di quindici anni terribili, aperti dall’oscenità del 2001, acuiti dall’insensatezza delle guerre lanciate “per scelta” e dal collasso delle banche travolte dalla loro stessa ingordigia incontrollata. Ma l’America del 2016 che il nuovo Presidente vedrà attraverso le finestre del proprio studio, anch’esso toccato dalla vergogna di uno scandalo umiliante, non è diversa dall’America che Roosevelt ereditò da Hoover, Johson dal Kennedy assassinato, Carter da Ford, Reagan da Carter e Obama da Bush il Giovane. L’abisso fra città e campagne, fra Park Avenue e Main Street dei piccoli paesi, fra le signore in carriera che vivono nei sobborghi nutrendo i figli di buoni cibi nutrienti e le “casalinghe disperate” sparse nel ventre del Grande Ovunque americano senza futuro con le loro micidiali merendine, è sempre stato visibile e incolmabile, agli occhi di chi uscisse dal perimetro delle metropoli e si avventurasse oltre. Ogni presidente, quale che sia il suo colore politico, lo conosce, promette di colmarlo e fallisce.
Speculare sulle contraddizioni dell’America ha fatto vincere molte elezioni, ma non le ha mai sanate, perché esse sono il motore, la natura profonda di una società costruita sul “sogno” che ha l’ inevitabile rovescio, “l’incubo”. Gli attacchi del terrorismo pseudo mistico, l’alluvione di immigrati dal Grande Sud hanno agitato l’America bianca e l’hanno incattivita nel panico del sentirsi assediata e minoritaria. “The White Male”, il maschio bianco, si sente ormai specie in via di sottomissione, circondato da nuovi americani sempre meno bianchi e da donne sempre più uguali a lui. Dunque l’America che il 46esimo presidente dovrà guidare è una nazione che si sta, ancora una volta, trasformando e confonde, per alcuni, la trasformazione con la fine. Ma, ancora una volta recuperando Mark Twain, le notizie della sua morte sono grandemente esagerate. They will survive. Sopravviveranno.
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LA LINGUA DELL’ODIO 
NADIA URBINATI Rep
C’È UN luogo comune sull’America che è rimbalzato nei media tradizionali e sui social media in queste settimane: a fronte dei colpi bassi tra i candidati e degli scandali, svelati o annunciati addirittura da agenzie pubbliche come l’Fbi, cadono i miti sull’America delle regole e della democrazia. Un luogo comune che non coglie nel segno perché non è una novità che la politica americana superi l’immaginazione quanto a spietata durezza.
La storia americana è scandita dall’uso di colpi bassi e di violenza in politica: omicidi di presidenti (a partire dal grande Lincoln fino al giovane Kennedy) e candidati (l‘ultimo Robert Kennedy), scandali che hanno fatto cadere presidenti (Nixon), campagne dal linguaggio populista violento e razzista (del democratico Wallace), infine finanziamenti miliardari alle campagne elettorali che servono addirittura a misurare il gradimento dei candidati, per cui chi è semplicemente “popolare” non ha nei fatti le stesse possibilità di vincere di chi ha dalla propria le multinazionali e le oligarchie di partito (un tema che Bernie Sanders ha più volte sollevato nelle primarie contro Hillary Clinton). Insomma, l’America è ammirevole non per la sua purezza ma per l’esplicita confessione delle impurità della politica e per quella straordinaria forza delle istituzioni e dell’opinione che resistono a scandali e a violenze. Cinismo verso la politica e convinzione della rettitudine delle persone ordinarie: su questo dualismo si è costruito il mito del populismo americano “buono”, che mai ha tracimato dal regime costituzionale. L’immaginario di un eccezionalismo americano nella valutazione del populismo è durato almeno fino a Donald Trump.
La novità immessa nella politica americana — forse la maggiore novità — sta qui: nel fatto che gli americani, ultimi tra tutti i paesi democratici, abbiano scoperto che il populismo “cattivo” è possibile. Il “popolo” può essere personificato da un pessimo leader e identificato con un linguaggio fortemente negativo e negazionista: negativo, come in altri momenti del passato (pensiamo appunto a Wallace) e anche negazionista, come mai prima d’ora. Negazionismo: Trump ha dichiarato da settimane di poter negare il risultato di queste elezioni (se perdesse), perché esito di una campagna condotta in maniera fraudolenta sia da parte della candidata Hillary che da parte dei media liberal, e delle élites acculturate dei college Ivy.
Sugli “errori” di Hillary sappiamo: errori per aver usato, quando era segretario di Stato, telefoni pubblici e privati indifferentemente, senza fare distinzione tra le questioni personali e quelle politiche. Un errore di valutazione e il segno di un’abitudine al potere (che Hillary frequenta a vario titolo, privato e pubblico, da alcuni decenni), che non sembra aver tuttavia messo a repentaglio gli interessi nazionali. Ma a Trump importa poco il fatto materiale.
Il fatto nuovo di questa campagna è, come si diceva, un altro: Trump ha accusato ripetutamente i media “liberal” di aver fatto una campagna tendenziosa, di aver premeditato la disinformazione (lo ha ripetuto anche la moglie Melania in due interviste televisive) per farlo perdere. Il New York Times è stato la sua bestia nera (effettivamente impegnato in una campagna schieratissima e senza alcuno sforzo di oggettività), ma anche la Cnn, benché meno tendenziosa.Perché questa reazione al modo in cui è stata condotta la campagna elettorale? Per preparare l’azione anti-Casa Bianca nel caso egli dovesse perdere le elezioni. È questa anticipazione di accusa di illegittimità insieme al turpiloquio linguistico usato quotidianamente il fatto nuovo di questa campagna presidenziale. I timori restano sia in caso di vittoria di Trump (per il carattere e lo stile della sua politica) sia nell’ipotesi di una sua sconfitta (per le conseguenze destabilizzanti che sono state minacciate). Questa è la novità di queste presidenziali: la sistematica campagna denigratoria non solo verso la candidata (questo sarebbe nella norma) ma anche verso le istituzioni.
La virulenza verbale di Trump ha sdoganato il politically incorrect con conseguenze future che possono essere spiacevoli, come l’escalation dell’intolleranza e la discriminazione delle minoranze — gli immigrati (latino- americani soprattutto), i musulmani (stranieri e americani), le donne acculturate che perseguono carriere nelle professioni. Insomma, il cielo del Nuovo Mondo sembra essere gravido di nuvoloni neri, sia che vinca o che perda Trump, una figura di non-politico la cui campagna ha marcato un’escalation notevole nel processo di delegittimazione in un’America che soffre ancora le conseguenze di una politica imperiale improvvida che l’ha impoverita e incattivita.
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“L’idealismo ha perso l’onda dei Millennial sfocia nell’astensione” 
William Finnegan. L’autore del libro sul surf “Giorni selvaggi” “Solo Sanders li ha fatti sognare”
LUIGI BOLOGNINI Rep
DAL NOSTRO INVIATO NEW YORK.
È quasi frastornato William Finnegan, firma di punta del
New Yorker,
premio Pulitzer per il magnifico Giorni selvaggi (in Italia edito da 66th and 2nd), un libro che racconta il surf come mai prima, come una pratica zen nella quale conta cercare l’onda perfetta sapendo che forse non arriverà mai. Ed è sull’onda finale che si sono decise le presidenziali americane. E in un modo che nemmeno nche un profondo conoscitore dell’America come lui immaginava.
Come spiega il risultato di Trump? «Con una sola parola: una rivoluzione. Che un simile candidato, che non sa strutturare non dico un pensiero, ma una frase, che dice solo volgarità, un buffone arricchito, ecco, che uno così sia stato considerato credibile dall’elettorato è una rivoluzione. Ha portato anche nella politica americana, che ne sembrava immune, il populismo all’europea, anzitutto quello di Berlusconi, cui somiglia moltissimo per il sessismo, la provenienza sociale, il mondo della tv. Anche per questo lascia un partito repubblicano comunque in macerie: Trump non aveva un proprio movimento politico, tanto che si è dovuto appoggiare al Gop, alienandogli per queste e per le prossime il voto delle tante minoranze, come i latinos e i neri, oltre che ovviamente le donne».
Eppure eccolo lì, fino in fondo. Non crede che sia dipeso anche dalla debolezza della candidatura avversaria?
«Della candidatura sì, della candidata no. Hillary è capace e intelligente, ma ha giocato malissimo, credendo di aver già vinto. E non ha il carisma del marito Bill o Obama, gente che sa sedurre, entrare in sintonia con chiunque. Paradossalmente anche Trump è uno vero. O meglio, è falsissimo, ma c’è dell’evidente, grossolana, genuinità in quel che dice, e questo alla gente è piaciuto, ogni gaffe quasi lo ha rafforzato. E Hillary è molto impopolare, diciamolo tutto, antipatica. E poi è una donna, e molti elettori non si fidano a nominare una donna comandante in campo. Le candidature in fondo si sono sorrette tra di loro: chi ha votato uno dei due lo ha fatto contro l’altro e viceversa ».
Si pensava che queste elezioni sarebbero state decise dai Millennial, la generazione dei nati dal 1982 fino – ora – al 1998, finalmente tanti quanti i baby boomer, la generazione tra gli anni ‘40 e ‘60, una settantina di milioni.
«L’hanno fatta, la differenza. Andando o no alle urne, più che scegliendo l’uno o l’altro candidato. I venti-trentenni in America, sono molto più per i democratici che per i repubblicani. Per vari motivi. Il principale è che chi è stato adolescente nel Terzo Millennio non se ne fa niente di uno slogan che richiama gli anni Ottanta come “Make America great again” di Trump: non può avere nostalgia di qualcosa che non vissuto. Il secondo è stato il carisma di Obama. Il terzo è che la politica dei democratici è comunque più attenta al sociale e questa è una generazione che vive di incertezze sul futuro. Ma alle primarie il suo vero candidato era Bernie Sanders, paradossalmente il più anziano, eppure quello che più sapeva parlarle di futuro e di idealismo. Il pragmatismo di Hillary piaceva meno, anche se alla fin fine i programmi non erano troppo diversi. Sanders da vero gentiluomo e persona lealissima ha cominciato a fare campagna per la Clinton ventre a terra. Ma la diffidenza, o meglio l’indifferenza dei millennial verso di lei è restata. E ha avuto il proprio peso in questo risultato».
Altri sconfitti sono i sondaggi.
«Sì, ormai la gente mente spudoratamente a certe domande, si vergogna di ammettere di votare certi candidati. Poi però lo fa. Quindi tutti i sondaggi sono sbilanciati verso sinistra. Si chiama Bradley effect, qui, ma bisognerà trovare il modo di riformarli una volta per tutte».
Sia il presidente uscente che quello entrante sono una rivoluzione per gli schemi americani. Il prossimo passo? Un gay? O addirittura un ateo?
«Non esageriamo. Credo un latino, c’è un’ottima generazione che sta crescendo».
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