sabato 12 novembre 2016

Sono passati solo due giorni e Trump ha già rotto

L’ex presidente restituì fiducia nei principi liberali non solo al suo Paese ma a tutto il mondo occidentale. Il neoeletto invece vuole tornare allo storico isolazionismoe considera «anomalo» il recente protagonismo 
Panebianco Corriere
il laboratorio della nuova destra 

Giovanni Orsina  Busiarda
Quasi 40 anni dopo le prime elezioni di Thatcher e Reagan, la Brexit e l’ascesa di Trump alla Casa Bianca rimettono il mondo anglosassone all’avanguardia dei processi di trasformazione della destra politica occidentale.
Semplificando molto, anche nel mettere insieme due Paesi assai diversi, è possibile sostenere che il processo di modernizzazione della destra reso palese dalle elezioni del 1979 nel Regno Unito e del 1980 negli Usa abbia rappresentato una risposta alle «rivoluzioni individualistiche» degli Anni Settanta e al conseguente, definitivo tramonto degli assetti sociali e culturali «tradizionali». La destra anglosassone degli Anni Ottanta per un verso reagì agli eventi del decennio precedente. Ma per un altro ne accolse la spinta individualistica, deviandola sul mercato. Mercato, inoltre, che non intendeva chiudere nei confini nazionali, ma aprire sempre di più a una dimensione internazionale.
Almeno sul terreno economico, perciò, quella nuova destra aveva tra i suoi caratteri fondanti l’individualismo e l’internazionalismo. Per inciso, fu proprio a questi caratteri che si ispirò esplicitamente Berlusconi nel 1994 con la sua rivoluzione liberale. Sempre semplificando, è possibile sostenere inoltre che dagli Anni Settanta in poi l’individualismo e l’internazionalismo abbiano caratterizzato non soltanto le destre, ma pure le sinistre occidentali. Anche se, in questo caso, l’enfasi cadeva più sui diritti che sul mercato.
Stritolata per tre decenni fra i due individualismi e i due internazionalismi, di destra e di sinistra, la politica – che è un’impresa collettiva, e finora è rimasta ancorata allo stato nazionale – è andata in pezzi. Così che, nel momento in cui l’Occidente dell’individualismo e dell’internazionalismo è entrato in crisi, destra e sinistra non hanno saputo far altro che proporre, come soluzione, ancora più internazionalismo e ancor più individualismo. Gli elettori, bisogna ammetterlo, per un po’ hanno pazientato. Col prolungarsi della crisi, però, l’area elettorale che né la destra né la sinistra riuscivano a coprire – quella di chi per interesse, timore, o scelta ideologica chiedeva una «frenata politica» sulla via dell’individualismo e dell’internazionalismo – è venuta crescendo sempre di più. A tal punto che è riuscita infine ad attrarre su di sé e fagocitare sia i conservatori inglesi sia i repubblicani americani. Generando un terremoto politico paragonabile a quello del 1979-80.
Due corollari di questo ragionamento, in conclusione. Affrontare i voti per la Brexit e per Trump da un punto di vista storico, come ho cercato di fare qui, aiuta a evitare un errore concettuale madornale: ritenere che questi fenomeni siano soltanto il frutto di scelte irrazionali, «di pancia», o ispirate da sentimenti spregevoli («deplorable», copyright Hillary Clinton). Il che non vuol dire, naturalmente, che l’irrazionalità e la spregevolezza non abbiano avuto alcun peso, né che la via neo-nazionalista verso la quale puntano per ora sia la Brexit sia Trump sia scevra di pericoli, o migliore di quella che abbiamo seguito finora.
Il secondo corollario ha a che fare con l’Europa continentale e con l’Italia. Si può dubitare che un neo-nazionalismo come quello delineato da Trump in campagna elettorale giovi agli Stati Uniti, e ancor di più che giovi a noi europei. È ben più difficile, però, dubitare che gli Usa abbiano la forza – politica, economica e militare – per perseguirlo. Che ne abbia la forza il Regno Unito è già molto, ma molto meno certo. Non avrei invece alcun dubbio sul fatto che quella forza non l’abbiano gli Stati dell’Europa continentale, e tanto meno l’Italia. Come ha dovuto imparare a sue spese Berlusconi, importare la destra anglosassone nella Penisola non è cosa semplice.
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per i governi casa bianca rischiosa sul fronte interno 

Dassù Busiarda
Se avesse vinto Hillary Clinton i governi europei avrebbero avuto di fronte uno scenario difficile in politica estera (confronto con la Russia, escalation in Siria) ma facile in politica interna (la vittoria di un candidato tipico dell’establishment atlantista). Con l’affermazione di Trump è vero l’opposto: il «rischio» politico legato alla vittoria di The Donald è collegato anzitutto alle dinamiche interne, con il timore di un contagio populista fra le due sponde dell’Atlantico. Non è un caso che si freghino le mani Matteo Salvini e Beppe Grillo, Viktor Orban e Marine Le Pen, Nigel Farage e Geert Wilders: con Trump alla Casa Bianca - questo il ragionamento - il vento anti-sistema ha ormai espugnato il cuore del sistema occidentale e, dopo la Brexit, investirà anche le capitali del Vecchio Continente. La conclusione è troppo semplice per essere vera: rileggendo Tocqueville e sapendo qualcosa delle differenze fra i sistemi elettorali di Stati Uniti e Francia, Marine Le Pen sembra destinata a restare, come Hillary Clinton, una presidente mancata. Ma qualcosa di fondato c’è: il caso americano è una specie di Brexit all’ennesima potenza, dimostrando che quando il malessere sociale si combina alla distanza o alla indifferenza delle élites, le scelte politiche tradizionali possono essere spazzate via. Estremizzando un po’ l’argomento, per la maggior parte dei governi europei Trump è il segnale di un rischio esistenziale.
In politica estera il segnale è diverso. Trump non è un internazionalista classico, a differenza della tradizione repubblicana del dopoguerra. È un nazionalista che crede nella «America-first» - e nell’«America-great». Una visione del genere può oscillare dall’isolazionismo (ma che nei tempi di oggi è al massimo un «retrenchment», un ripiegamento parziale) all’interventismo selettivo e muscolare, nel nome dei valori patriottici e degli interessi americani. E con tanti saluti alle istituzioni internazionali. Walter Russel Mead, storico delle varie correnti della politica estera americana, definirebbe il Trump candidato un «jacksoniano»; vedremo se lo sarà anche il Trump presidente (e qualcosa di più capiremo dal suo team di politica estera). In questa concezione, l’Europa non è particolarmente amata ed è lasciata di fronte alle sue responsabilità dirette. Cadranno i nostri alibi. Da una parte, infatti, la politica economica di Trump ridurrà ulteriormente gli spazi perché l’America possa funzionare da «locomotiva»; lo si vedrà al tavolo del G-7, a presidenza italiana. Dall’altra, Trump non intende più sostenere oneri sproporzionati nella Nato. Si dirà che è una vecchia storia. Ma Trump potrebbe andare fino in fondo: agli europei verrà chiesto se intendono tenere in vita la Nato. Se è così dovranno pagarsela. In tempi di bilanci asfittici non sarà così semplice ma l’effetto Trump avrà almeno un vantaggio: costringerà l’Europa a prendere finalmente sul serio la sicurezza e la difesa comune. 
Si delinea un cambiamento di fondo: la presidenza Trump sembra destinata a segnare la fine definitiva della «pax americana», l’ordine internazionale costruito dopo la Seconda guerra mondiale e sopravvissuto in modo sfilacciato al crollo del Muro di Berlino. Per la prima volta, anche se in estremo ritardo, l’Europa è obbligata a crescere. Se non lo farà, nel dopo Brexit e con Trump, non sarà mai un attore rilevante. E si disgregherà.
Fa parte della rivoluzione di Trump una visione diversa della Russia. In una fase di quasi guerra fredda, Trump è convinto di potere raggiungere un accordo con Vladimir Putin. I precedenti non sono incoraggianti: sia Bush junior che Barack Obama avevano tentato un «reset» iniziale con Mosca, per poi fallire. Trump potrebbe avere un vantaggio ideologico: è privo di quel tasso di «russofobia» tipico della diplomazia americana e crede, come Putin, nella logica degli accordi fra uomini forti. Il problema è che i margini di compromesso con Mosca sono stretti, anche per un Presidente americano che sia disposto a sacrificare la Crimea, a considerare secondario il destino dell’Ucraina, e a contemplare una futura spartizione della Siria. Per una parte degli europei (Italia e Germania in testa) esistono dei benefici (economici). Per un’altra dei rischi (di sicurezza). Per tutti, la realtà è che una trattativa del genere può passarci letteralmente sulla testa. Le differenze di interessi fra i paesi dell’Ue, in materia di Russia, restano molto rilevanti: l’Europa non avrà mai una politica estera comune se non tenterà di ricomporle. 
Se noi europei avremo a che fare con un’America-first, Trump avrà a che fare con un’Europa assorbita da un lungo ciclo elettorale e dalla gestione della Brexit. L’inclinazione del nuovo Presidente sarà di tenere agganciata Londra (la sua prima telefonata è stata per Theresa May) senza perdere Berlino. Dopo avere battuto la prima donna americana, avrà di fronte due donne europee. Speriamo che prevalga Il buon senso. In un sistema internazionale che definiamo multipolare e che in realtà è semplicemente anarchico, il futuro delle democrazie occidentali è più a rischio di quanto sia mai stato da un secolo a questa parte. Riconoscerlo è l’incentivo indispensabile per continuare a cooperare.
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Corriere della Sera -  Richard Ford

Silvio Berlusconi: «Hillary Clinton ha pagato il suo essere un elemento di continuità con gli ...

Corriere della Sera
Gli elettori americani hanno votato, segretamente, nel segreto dell'urna come si dice
Corriere della Sera - Batista


«Trump disgustoso!». Il Village è tutto una protesta. Gli ambientalisti a Washington Square, ...

Corriere della Sera - 16 
Corriere della Sera


“Un mercato senza più vincoli” La ricetta per rilanciare gli Usa 
I fedelissimi del tycoon scrivono il programma economico Meno burocrazia e meno tasse sul lavoro, più negoziati bilaterali 

Francesco Semprini Busiarda
Deregolamentazione a tutto campo per sostenere produttività e innovazione tecnologica. Donald Trump si fa guidare dalla stella più alta del firmamento repubblicano, Ronald Reagan. La «Reaganomics», la ricetta economica che ha come ingredienti l’abbattimento della burocrazia in mercati e settori produttivi, e l’alleggerimento della tassazione sul lavoro, è il punto di riferimento del presidente in pectore. 
Sebbene «The Donald» non abbia ancora reso noti uomini e programmi a cui affiderà la politica economica dei prossimi quattro anni, giorno dopo giorno emergono elementi utili a capire come «Farà l’America grande di nuovo». Uno spunto arriva da Robert J. Barro, professore di Harvard su cui Trump avrebbe posato gli occhi per un futuro ruolo nella sua squadra di governo. In un recente lavoro per «American Enterprise Institute», osservatorio di orientamento conservatore, Barro utilizza la formula «Job-filled non-recovery», ovvero crescita di posti di lavoro senza una reale crescita economica. Un’«anomalia» generata dal fatto che il governo ha usato e abusato di politiche assistenziali, sussidi di disoccupazione, buoni pasto, pensioni di invalidità e soprattutto l’Obamacare (che tuttavia potrebbe in parte sopravvivere, secondo quanto dichiarato dallo stesso Trump). Secondo Barro si tratta di misure che, sebbene non generose come in certe realtà europee, disincentivano la ricerca di occupazione. E questo crea «l’ingannevole» riduzione del tasso di disoccupati, rapporto tra disoccupati e chi cerca effettivamente lavoro. L’altro effetto, secondo Barro, è che sono stati create posizioni, certo, ma si tratta di lavori spesso part-time o precari e che, in ultima istanza, non aumentano il numero complessivo di ore lavorate. Questo vuol dire - ed ecco il passaggio critico - che la produttività, ovvero quanto ogni individuo produce in un determinato intervallo di tempo, rimane invariata. E quindi non crescono salari e stipendi, prigionieri della stagnazione a cui si è assistito negli ultimi anni e di cui hanno pagato le spese maggiori la classe media. Questa la patologia.
La cura, secondo la Trumpeconomics - è che la produttività cresce facendo diventare più efficienti i mercati, riducendo il peso di regole e burocrazia. In una parola «deregulation», sul modello della Reaganomics a cui deve essere associata una riduzione della tassazione su lavoro e redditi da capitale. Si tratta di un intervento dal lato dell’offerta, mentre su quello della domanda l’imperativo deve essere «mettere i soldi pubblici in investimenti produttivi». «Non dobbiamo fare un ponte solo perché fa crescere il Pil sulla base della semplice equazione keynesiana, - spiegano fonti interne al partito repubblicano -. Per capirci un ponte che non è percorso è come un negozio sfitto, non serve. Un nuovo New Deal alla Roosevelt non serve a nessuno». Su un aspetto invece potrebbero sorgere frizioni in seno alla nuova amministrazione: il commercio. Come fa notare Barro - repubblicano che però non ha sposato in blocco la dottrina Trump - il commercio aiuta l’innovazione tecnologica, che è un motore della crescita, quindi porvi dei limiti è stolto. E come Barro la pensano in molti nel Grand Old Party. «Attenzione però, perché Trump ha sempre parlato male del Tpp, che riguarda Paesi a basso costo del lavoro, ma non del Ttip, il trattato con l’Europa, che è invece fatto di regole volte a migliorare l’efficienza dei mercati», spiegano da ambienti conservatori a Washington. In quest’ottica il presidente eletto potrebbe fare dei distinguo fondamentali. E anche sul tanto criticato Nafta ci potrebbero essere convergenze parallele, visto che sia il presidente messicano Enrique Peña Nieto, sia il premier canadese Justin Trudeau sembrano pronti a ridiscuterne i termini.
Infine, sugli altri fronti Trump potrebbe puntare a negoziati bilaterali, un aspetto di cui parlerà in tempi brevissimi con la premier britannica Theresa May. Deregolamentazione vuol dire anche stracciare la legge Dodd-Frank sul settore finanziario, per sostituirla con un progetto alternativo messo a punto da Jeb Hensarling, attuale presidente della commissione Servizi finanziari della Camera e uno dei papabili al Tesoro. Una misura che, al contrario di quanto sembri, ben si sposa con la volontà di porre paletti alle «vecchie signore» di Wall Street come predica la Trumpeconomics. «La legge ha favorito le grandi banche e penalizzato quelle locali per gli alti costi di “compliance”», spiegano. Ovvero quegli istituti su cui Trump punta per rilanciare il credito alle piccole imprese tagliate fuori dalla crisi. Al Wall Street Journal ieri ha ribadito che «le banche devono tornare a prestare soldi come una volta». Lo stesso Jamie Dimon, a.d. di Jp Morgan e papabile alla guida della squadra economica di Trump, ha ammesso che la legge «è il fossato più profondo che lo protegge dal resto del sistema bancario». E non a caso il collega di Goldman Sachs, Lloyd Blankfein, ha commentato all’ipotesi di smantellare la legge in questo modo: «Va bene modificarla ma non mi sembra il caso di eliminarla del tutto». 


“L’America tornerà ad avere l’esercito più forte del mondo” 
Woolsey, consigliere per la sicurezza di Trump “L’Isis si sconfigge inviando truppe sul terreno” 

Paolo Mastrolilli  Busiarda
«Il primo obiettivo, in tema di sicurezza nazionale, sarà investire sulle forze armate per rafforzarle. Poi dovremo schiacciare l’Isis sul terreno, in Siria, Iraq, Libia, e controllare meglio il flusso dei migranti nel Mediterraneo. Quanto alla Russia, le dichiarazioni fatte dal presidente eletto Trump durante la campagna non rappresentano una posizione politica. Chiederemo agli europei di fare di più per la Nato, ma questo non significa che verremo meno ai nostri obblighi verso gli alleati». 
James Woolsey non parla per sentito dire, quando elenca le priorità della nuova Casa Bianca. L’ex direttore della Cia ha servito la campagna presidenziale di Trump come Senior Adviser on National Security, e ora fa parte del suo Transition team. Il «Washington Times», ben informato su questi ambienti repubblicani, lo indica tra i possibili candidati alla guida del Pentagono. 
Lei è stato il primo direttore della Cia col presidente Clinton: perché non ha appoggiato sua moglie Hillary?
«Non potevo condividere quanto ha fatto in tema di protezione delle informazioni classificate, i favori per la fondazione di famiglia, e il ruolo degli Usa nel mondo. Trump era superiore in termini di onestà, integrità, ma anche di posizioni».
Come giudica la sua elezione?
«È stata una sorpresa per tutti, ma sarà un buon presidente, di sicuro migliore di quanto sarebbe stata Clinton».
Quali sono le sue priorità in termini di sicurezza nazionale?
«La prima è potenziare le forze armate, che sono state fortemente indebolite durante gli otto anni di Obama. È una cosa indispensabile, che dobbiamo fare subito. Theodore Roosevelt diceva che per essere rispettati bisogna parlare con voce soffice, ma portare con sé un grosso bastone. Questo bastone deve essere non solo grande, ma anche forte ed efficace. È la prima e più importante iniziativa, e Trump si è impegnato a prenderla».
Chiederete più contributi agli alleati della Nato?
«La Nato sarà più forte che sotto qualunque altro presidente nella storia americana, ma va riequilibrata. È dal 1949 che i capi della Casa Bianca si lamentano, perché gli europei non fanno abbastanza per finanziare la sicurezza comune. Noi investiamo molto nella difesa, molto più degli alleati in termini percentuali di bilancio, e questo disturba gli americani».
Durante la campagna elettorale Trump ha detto che l’articolo 5, cioè l’intervento in difesa di qualunque alleato attaccato, potrebbe non essere più automatico.
«Quanto ho appena detto sul piano finanziario non significa che non rispetteremo i nostri obblighi verso gli alleati».
Le dichiarazioni di Trump su Putin, però, preoccupano.
«Non erano una posizione politica. A volte i leader dicono cose amichevoli per ragioni diplomatiche. Roosevelt chiamava Stalin “Zio Joe”, ma questo non voleva dire dimenticare che era il più grande killer di esseri umani nella storia, o appoggiare l’Urss. Riconosceva solo che ci serviva per sconfiggere i nazisti. Non leggerei troppo in queste dichiarazioni».
Condivide il sospetto dell’intelligence Usa secondo cui gli hacker russi hanno rubato i documenti pubblicati da Wikileaks?
«Centinaia di hacker lavorano per Mosca, pubblici e privati. C’è un’ottima possibilità che abbiano cercato di rubare dati. Non è una cosa rara: se non succede, dovresti chiederti il perché».
Cosa farà la nuova amministrazione contro l’Isis?
«Bisogna schiacciarlo in Occidente, e sul suo territorio. Questo comporta operazioni anti- terrorismo che sono complicate da condurre nei Paesi democratici, perché gli aggressori si nascondono bene, e operazioni sul terreno. Bisogna sconfiggere l’Isis in Iraq, Siria e in tutti i Paesi dove è presente, per impedire che possa sostenere di avere un Califfato».
Dobbiamo mandare più soldati sul terreno?
«Ne abbiamo già diverse centinaia. Gli occidentali non devono condurre il grosso delle operazioni, ma se essere più efficaci nell’offensiva, la raccolta dell’intelligence, l’addestramento e i raid aerei richiede più impegno, dobbiamo considerarlo».
Anche in Libia?
«L’inflitrazione dei rifugiati dalla Siria è un problema serio per l’Europa, e per gli Usa, perché laggiù un passaporto si compra con 10 dollari. Dobbiamo controllarli meglio».
E sul terreno?
«La chiave è lavorare col nuovo governo, ma ci sono difficoltà. Questo è un problema storico grave per l’Italia, e tutti dobbiamo essere pronti a fare di più».
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“Donald e Brexit sono figli della rivolta del ceto medio” 

L’ad di Borsa: politiche contro la diseguaglianza 

Marco Zatterin Busiarda
Tutto si spiega con la globalizzazione e il modo in cui è stata gestita. «Non voglio demonizzarla, anzi», ammette Raffaele Jerusalmi, però è chiaro che la caduta delle barriere globali «ha avuto un forte impatto negativo sul ceto medio di cui il referendum sulla Brexit e l’elezione di Trump sono riflesso diretto, alla stregua del fiorire e dell’affermarsi di movimenti populisti in paesi come Grecia, Francia, Germania e Italia». Chi ha dubbi rilegga le cronache di questi mesi, lo shock britannico e quello americano erano già scritti. «Non è un caso - concede l’amministratore delegato di Borsa Italiana - che i due paesi che più aggressivamente hanno pensato, a torto o ragione, che la globalizzazione fosse una grande opportunità si ritrovano il conto politico più salato: non è un caso perché pagano l’indebolimento e la perdita di fiducia della classe media». Se ne deduce che l’Occidente corre su un crinale insidioso, verso la “terra incognita” della post globalizzazione, con americani e britannici in testa. Forse. «Il malessere è emerso e si è manifestato alle urne», sottolinea Jerusalmi, classe 1961, scacchista, esperto di affari e mercati, dal 2010 alla guida di Piazza Affari, appassionato del grande schema delle cose. Rivela di aver predetto sia la Brexit che Trump, dati inevitabili resi più anomali dal fatto che «America e Regno Unito sono i Paesi usciti meglio dalla crisi». Hanno finito per essere vittime, riassume, «dei tanti che, col voto, hanno protestato per il loro malessere». In altre parole, sono stati scossi «dal prevalere della paura sulla speranza».
Rivolta del ceto medio, dunque?
«Un effetto della globalizzazione è stato l’affermarsi di aree geografiche dalla manodopera meno costosa. Questo ha mosso rapidamente i capitali, insieme con le produzioni. Le classi medie hanno perso lavoro, in difficoltà davanti a questa nuova concorrenza. Si è generata una deflazione che ha ridotto i salari nominali, colpendo gli operai e gli impiegati delle aziende rilocalizzate. È un tema globale. Ma più pronunciato nei Paesi più aggressivi che oggi sono i primi a cercare alternative».
Eccoci a Usa e Regno Unito. Come se ne esce?
«È un brutto circolo vizioso dal quale si può uscire solo con politiche che facilitino la redistribuzione della ricchezza, agendo su variabili come i contratti o la tassazione».
Mica facile, visti i tempi.
«Per nulla. Anche perché la crisi del ceto medio non sarebbe stata altrettanto grave se non fosse coincisa con la digitalizzazione e lo sviluppo tecnologico. Essi hanno consentito di aumentare l’attività, ma hanno ridotto il mercato del lavoro. Su questo s’è innescata la crisi finanziaria». 
Il voto del malessere porta a una nuova rivoluzione?
«È un segnale. Conforta che il processo ha una natura pienamente democratica e non si vedono i rischi di una deriva autoritaria».
È possibile che il superconservatore Trump sia costretto a fare il socialdemocratico?
«Potrebbe essere, ma non è detto. Le differenze fra destra e sinistra sono più difficili da rappresentare. Molte ideologie su cui si basavano le dinamiche politiche non esistono più. Oggi c’è la necessità di rispondere in modo più pragmatico alle richieste dei singoli individui. A prescindere da destra e sinistra».
Immagina il paradosso in cui il nuovo Presidente degli States diventa il più democratico dei repubblicani.
«Chi governa non può agire indipendentemente dal suo paese. Non scrive su un foglio bianco, ha dei vincoli di cui tenere conto, a partire dalla percezione dei cittadini a cui deve rispondere».
I casi Trump e Brexit ci dicono che siamo in un fase di post globalizzazione?
«Abbiamo visto dei segnali necessari. O richiesti dalle circostanze. La storia dirà quale tesi è buona. L’importante è prendere atto del problema e della complessità delle soluzioni. La consapevolezza è sempre un buon punto di partenza». 
Dopo Trump e Brexit, dobbiamo aspettarci una vittoria di Hofer in Austria e una sconfitta di Renzi al referendum?
«Il voto americano e quello britannico denunciano il desiderio di protestare, ma anche di smentire i sondaggi. Ora potrebbe prevalere la voglia di un effetto sorpresa».
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Hart: “Il sistema elettorale è arcaico Ma la sua vittoria è legittima” 

L’ex candidato democratico alla Casa Bianca: “In democrazia l’esito si accetta Il mio partito ha perso contatto con la sua storica base operaia da 40 anni” 

Paolo Mastrolilli Busiarda
«Il collegio elettorale è un sistema arcaico di cui dovremmo liberarci, però non vedo come chi protesta in strada possa negare la legittimità dell’elezione di Trump».
Gary Hart era arrivato ad un passo dalla Casa Bianca, nel 1988, prima di essere affossato dallo scandalo a sfondo sessuale che secondo il suo biografo Matt Bai ha cambiato per sempre la politica americana. È rimasto però uno dei cervelli più fini del Partito democratico
Cosa ha sbagliato Hillary Clinton?
«I democratici hanno perso il contatto con la classe lavoratrice bianca della “rust belt”, che costituiva la sua base. Questo non è successo ieri, ma è un fenomeno che dura da 30 o 40 anni, cioè dall’inizio della transizione dall’economia manifatturiera industriale a quella tecnologica. Già negli Anni Ottanta il candidato presidenziale Mondale favoriva il protezionismo per proteggere i lavoratori, mentre io spingevo per la riqualificazione. Il governo non ha aiutato chi veniva lasciato fuori, e i democratici hanno pagato il prezzo».
Nelle primarie Bernie Sanders lo aveva detto.
«È un problema che riguarda tutta la nazione, ma noi democratici siamo percepiti come il partito favorevole al governo, e quindi abbiamo sofferto di più questo fallimento. Anche altro, però, ha contribuito alla sconfitta. Ad esempio la corruzione a Washington. Non quella illegale, ma l’influenza legale di lobby e interessi speciali, rigettata dagli americani esclusi». 
Sanders aveva detto anche questo: con lui avreste vinto?
«Sì, c’è stata una rivoluzione a sinistra con Sanders, e una a destra con Trump. Entrambe puntate contro Washington».
Hillary però ha vinto il voto popolare: il collegio elettorale va abolito perché nega la democrazia?
«Sembra un sistema arcaico, e in effetti lo è. Fu creato per dare più peso agli Stati piccoli e poco abitati, e sopperire alla lentezza con cui si contavano i voti fino al ‘900. Ora però è anacronistico, possiamo liberarcene e passare al voto popolare. Già il caso del 2000 doveva spingerci in questa direzione».
Questo giustifica le proteste in corso in tutto il Paese?
«No, anche perché non sembrano proteste contro Trump, ma contro chi ha votato per lui. Le elezioni sono finite, e in democrazia quando si contano i voti devi accettare il risultato. Non so come puoi protestare contro una consultazione legale. I manifestanti possono lamentarsi quanto vogliono, ma Trump diventerà lo stesso presidente, perché non si può negare la legittimità del processo. La cosa curiosa è che prima del voto era stato lui a mettere in dubbio il rispetto del risultato. Ora i ruoli si sono rovesciati, ma nessuno in strada denuncia illegalità ai seggi».
L’Europa è preoccupata per le posizioni prese da Trump sulla Russia, la Nato e la Ue.
«Ha ragione ad esserlo, perché durante la campagna lui ha messo in discussione tutte le alleanze e i sistemi della nostra sicurezza. Non capisco come un candidato presidenziale che parla bene di Putin possa vincere le elezioni, soprattutto nel partito conservatore. È un mistero perché non sia stato penalizzato. Molti vorrebbero relazioni migliori con la Russia, ma non appoggiando Putin, che si oppone alla democrazia».
Come si ricostruisce ora il Partito democratico?
«Il problema in realtà non riguarda solo i democratici, perché Trump ha distrutto entrambi i partiti tradizionali. I repubblicani devono abbracciarlo, ma lo considerano un fenomeno passeggero, e stanno già discutendo la loro identità, l’elettorato, i temi in cui credere, e la loro riorganizzazione».
Però sono alla Casa Bianca, mentre i democratici sono in minoranza anche al Congresso.
«Sanders, Warren, l’intera ala progressista ora farà sentire la sua voce. Ma non saranno gli unici. Va costruita una nuova coalizione».
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Tra i minatori del Kentucky “Saremo anche ignoranti ma abbiamo fatto la storia”

ALLE ORIGINI DELLA RIVOLTA 
Nella contea del carbone che ha spinto il magnate alla Casa Bianca dove il dibattito sul clima conta meno dei posti di lavoro persi 

Gianni Riotta Busiarda
«Fare il minatore, nel Kentucky orientale, non è un lavoro, è un modo di vivere. È la tua esistenza, la tua cultura. Una fratellanza umana, che sfama e manda i figli al college, grazie a chi invece scende sottoterra senza poter studiare. La miniera è lavoro onesto, duro, manuale, ingrato, crudele, spoglio e pericolosissimo. I minatori hanno costruito l’America. Sono gente fiera, non ignoranti subumani. Sono fieri, l’avete capito?».
Rifletto su questa commossa difesa dei minatori del Kentucky, dai viali assolati della cittadina di Frankfort. Nel 1780 gli indiani uccisero sulla riva del fiume Kentucky un pioniere di nome Frank, e i compagni gli dedicarono il villaggio. Gli eredi del povero Frank hanno ora portato alla vittoria Donald Trump, umiliando la Clinton, i minatori odiano gli accordi di Parigi firmati da Obama, perché chiudono la loro storia pur di ridurre l’anidride carbonica. Quando Trump promette, «Straccio il patto contro i gas serra!» applaudono, battendo i piedi con gli scarponi Timberland gialli. Sono ormai rimasti in pochi in vallata, 6900, meno che nel 1898, gli ultimi licenziamenti di febbraio, 1500 senza lavoro. Gli altri a vivere arrangiandosi, poco nobile per chi «ha costruito l’America ed è fiero», «Negli anni Venti ogni anno la popolazione raddoppiava».
Gli ambulatori a Frankfort curano «black lungs», polmoni neri, le malattie professionali dei minatori, ma la disoccupazione è la malattia peggiore. Chi è «fiero» di avere «costruito il Paese» soffre poi di alcolismo, eroina, solitudine, depressione, divorzi, suicidi. La vita media degli operai non cresce, torna ai tempi del pioniere Frank.
Sul viale centrale di Frankfort, Broadway, si apre la libreria «Poor Richard», che da 40 anni è amministrata da Lizz Taylor, «visita la soffitta, ci sono migliaia di libri antichi», e quando salgo le scale cigolanti entro davvero nella Caverna di Ali Babà, con i volumi che Signori e Signore leggevano quando i minatori scavavano. Su una copia del Faust degli Harvard Classics, la collana che «ogni uomo colto deve leggere per 15 minuti al giorno», un nome scritto col pennino, «Margaret Swift» e la data «1911». «Il carbone permetteva agli aristocratici di studiare Goethe e ai poveri di non morire di fame come sui monti Appalachi era la regola. Io ho votato Hillary, ma capisco chi vota Trump. Sanders era troppo di sinistra, Hillary troppo moderata. In mezzo s’è infilato Trump» conclude saggia Lizz.
Attraversato un vicolo, vedete la vetrina brillante di Kentucky Knows. La porta la apre il proprietario, Tony Davis, orgoglioso di esporre su un manichino la divisa da marine, «Ho servito nel corpo per 4 anni, qui molte famiglie sono militari, alcune hanno combattuto con Washington». Tony compra centinaia di botti usate del bourbon, il whiskey locale che ha reso lo Stato, con il derby dei cavalli e il cocktail alla menta «Mint Julep», famoso. Poi le smonta, doga per doga, e ne ricava mobili d’arte fantastici, legno ricco, grasso, stagionato. Tony, e il suo amico John, invitato a bere un caffè al bourbon, sono cauti, «il popolo ha parlato, siamo ex militari, il presidente è Capo delle Forze Armate», poi si sciolgono, «non era una scelta felice ok? Ma Hillary ci veniva addosso, qui la gente ha paura. Sa cosa fanno per eliminare la povertà dalle vallate più misere? Danno sussidi alle famiglie, perché traslochino dove possono sperare in un lavoro. Vai a vedere i traslochi, si spezza il cuore, qui tengono in soffitta le medaglie del trisnonno alla Guerra Civile, le pallottole Miniè, che si trovano nei boschi», rozze munizioni che aprivano ferite curabili solo con amputazioni e sega da falegname.
«Siamo americani, dobbiamo unirci» dice Tony. Ieri era Veteran’s Day, il giorno dei veterani militari e nel patriottico Sud garriva ovunque Old Glory, la bandiera a stelle e strisce. Nel cimitero di Versailles, una dolce collina alla Spoon River, una bandierina su ogni lapide di ex soldato. E davanti al ristorante Cattleman, specialità costolette di porco fritte con le cipolle, passeggia John Howard, il cappello con le decorazioni e la scritta «Reduce di Corea e Vietnam» calcato in testa. Nel 1957 il presidente, ed ex generale, Eisenhower teneva, prudente, in Vietnam solo 693 militari americani, sceltissimi uomini di intelligence e controguerriglia. Howard era uno di loro, già reduce del gelo coreano, poi Francia, Italia, Germania: «La scelta politica era mediocre, il Paese è spaccato. Tu da dove vieni?» intima con tono da ufficiale. New York Sir. «Ah un maledetto yankee, un nordista eh, li detestiamo qui quelli come voi» e ride con occhi felici. Poi si fa serissimo «Nulla per noi ex militari è doloroso come l’America che si odia, tra fratelli. Dobbiamo andare avanti. Trump è presidente? Spero faccia del bene all’esercito».
Nelle grandi città, militanti di sinistra, che spesso non hanno neppure votato Clinton, marciano in strada, pochi ma con al seguito telecamere e web. Trump, abile, ne approfitta e denuncia gli intolleranti. Qui, nel Trumpland profondo, non trovate invece neppure una voce rauca. Ogni elettore democratico, Lizz, o la sua commessa Kathy, soavi capelli grigi, «lo so, a Hollywood mi darebbero la parte della bibliotecaria in un giallo!», difende i minatori che votano repubblicano. Fascisti! gridano a Broadway, New York. Brava gente che vuol vivere, spiegano a Broadway, Frankfort.
Rimugino le parole così forti, «Fieri, hanno costruito l’America i minatori», ascolto vicende come quella di Gary Hall, caposquadra per 33 anni sottoterra, ultimo lavoro a Pike County, disoccupato dal marzo 2015, «niente mutua e purtroppo noi ci ammaliamo spesso. Dopo una vita in miniera mi ci vedi a fare la guida turistica?».
Con i prati di bluegrass, i vigneti, i cavalli a guardare dagli steccati, Eastern Kentucky è meraviglioso, ma pochi turisti sono attratti dalle distillerie pregiate del Bourbon, «abbiamo inquinato, scappano» lamenta Lizz Taylor. Per questo qui il livore dei cortei non arriva. Le parole di nostalgia per i minatori che votano Trump, orfani del loro piccolo mondo antico, sono di Ivy Brashear, gay, femminista, blogger Huffington Post, militante di Hillary, «ma con la famiglia qui da 10 generazioni». «Io temo la presidenza Trump come donna, come queer, come progressista - spiega Ivy - Ma non odio né incolpo i minatori e chi lo ha votato qui, perché non siamo né diversi, né nemici, siamo la stessa cosa, gente del Kentucky. Lo so, la pensiamo in modo opposto, ma non siamo quella robaccia cui questa elezioni ci vogliono ridurre. Siamo cresciuti insieme nelle valli, famiglie numerose e unite, la luce fino a tardi in estate, i cani che si chiamano di collina in collina e Nonna che prepara cena per un esercito. Non abbiamo vicini di casa, abbiamo amici e dobbiamo trovare subito insieme un porticato con le dondolo e ragionare, uniti contro i Politici che non ci capiscono, divorando pomodori in insalata».
Lascio Frankfort con nello zainetto il caffè aromatizzato al bourbon regalo di Tony, un libro di poesie del ’32 della Lizz e la certezza che se Hillary avesse avuto Ivy Breashar come consulente, anziché i parrucconi dell’immagine laccata, ‘ste elezioni non le perdeva.
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I veterani di tutte le guerre sulla Quinta strada per Donald 
In più di 20mila hanno sfilato per le strade di New York “Siamo fieri di servire e fare grande il nostro Paese” 

Francesco Semprini Busiarda
«Dear Marines, grazie per proteggere il nostro Paese, grazie di combattere per noi. Grazie per essere forti, senza paura e super. Grazie per salvare le nostre vite e la nostra libertà. Grazie per renderci liberi». Virginia fa la terza elementare e questo è il compitino che ha svolto qualche settimana fa quando la maestra le ha chiesto di scrivere un pensiero «a chi conta nella tua vita». Il compitino di Virginia, nipote di un Marine, si è trasformato in uno degli stendardi con i quali si è aperta ieri la parata sulla Quinta avenue dei militari che hanno combattuto in tutte le guerre d’America. 
In decine di migliaia si sono riuniti a Madison Square Park, sulla 23esima per la cerimonia di apertura del Veteran Day, la giornata dei veterani, presieduta da Bill De Blasio. Per marciare alla volta della 52 esima e Quinta Avenue dove è stato allestito il villaggio dei veterani, punto di incontro per gli eroi in divisa, a due isolati dalla Trump Tower. Una marcia dell’orgoglio attraverso gli isolati dove gli anti-Trump hanno sfilato per due notti al grido di #NotMyPresident. Ieri invece è andata in onda quella che nel presidente eletto ha trovato un nuovo punto di riferimento. 
I militari, in divisa o in pensione, sono parte di quello zoccolo duro che ha dato vita alla maggioranza silenziosa trasversale. E ieri quel popolo ha sfilato di nuovo: 250 gruppi per un totale di oltre 20 mila persone, veterani delle guerre in Afghanistan e Iraq, reduci del Vietnam, cadetti, cornamuse e pronto soccorso. 
E un ospite d’eccezione Luke Watson, 92 anni combattente della Seconda guerra mondiale. Certo, loro tengono a precisare che si tratta di una celebrazione militare. «Nulla di politico, non vogliamo avere nulla a che fare con quelle manifestazioni», spiega Tim reduce dell’Afghanistan. Ma tra i protagonisti del Veteran Day sulla Quinta Avenue non mancano cartelli Trump-Pence, bandiere americane e caschetti con adesivi «Make America Great Again». Ci sono i motociclisti con le bandiere nere «Prisoner of War, Missing in Action» accanto a quelle a stelle e strisce. Gli stessi che avevano invaso Cleveland per la convention del Grand Old Party di luglio. «Come veterano dell’Iraq mi riempie il cuore vedere l’America che si riunisce intorno ai propri eroi», racconta Mark. «Si tratta di fratellanza, di servire la nostra patria - prosegue - e di consentire ai nostri cari di vivere sicuri a casa propria». 
Un Veteran Day ancora più simbolico perché cade nel 15 esimo anniversario degli attacchi alle Torri gemelle e a Washington e nel 25 esimo di «Desert storm», la prima guerra del Golfo. Ed è a loro, ai veterani di queste guerre passate e presenti, prima fra tutte quella al terrorismo, che Trump ha fatto appello promettendo loro il futuro che meritano, levandoli dalle strade dove «vivono nella miseria e nell’oblio». A loro si era rivolto in un comizio poco prima del voto spiegandogli che nessuno meglio di lui poteva capirli perché come loro era un «coraggioso» nel suo bisness: «E lo sarò da presidente». Il popolo in divisa gli ha dato fiducia, ora aspetta. Senza compromessi. 
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Lo scontro Ue-Trump  Meno Nato, più Putin come cambieranno le relazioni con l’Europa

ANDREA BONANNI E FEDERICO RAMPINI Rep
SUI MIGRANTI e sugli statunitensi non bianchi, Trump ha un’attitudine che non rispecchia i nostri valori europei». Il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker ieri è andato all’attacco del nuovo presidente americano ricordando che «l’elezione di Trump comporta rischi di vedere gli equilibri intercontinentali disturbati sui fondamentali e sulla struttura». Anche l’inesperienza del neoeletto è un problema: «Con Trump perderemo due anni: il tempo che faccia il giro del mondo che non conosce. Gli americani non hanno alcun interesse per l’Europa: questo è vero per la classe dirigente e per l’America profonda. Non conoscono l’Europa. Trump ha detto durante la campagna elettorale che il Belgio è una cittadina europea». Secondo Juncker, la politica di Trump può avere «conseguenze perniciose» perché «viene messa in questione l’alleanza transatlantica, e quindi il modello sul quale si poggia la difesa dell’Europa». Le parole del capo dell’esecutivo europeo rispecchiano una preoccupazione diffusa nella Ue, che vede una lunga lista di potenziali motivi di contrasto con la nuova amministrazione americana.
Il primo a dover rispondere a queste preoccupazioni degli europei sarà, crudele ironia… Barack Obama. Il presidente uscente aveva previsto da tempo un ultimo viaggio internazionale in Germania e in Grecia la settimana prossima. Incontrerà Merkel, Hollande e Renzi. Tutti gli chiederanno del suo successore. Obama, fedele al fair play dimostrato in questi giorni, dovrà prodigarsi per rassicurarli, almeno ufficialmente.
Intanto la squadra di Trump che gestisce i contatti con la Casa Bianca per la transizione manda un altolà a Obama: non faccia atti vincolanti in politica estera in questi due mesi, perché la nuova Amministrazione non sarebbe tenuta ad onorare gli impegni.
Ecco quali sono i principali punti di attrito tra l’Ue e Donald Trump.
TTIP E COMMERCIO MONDIALE LA POSIZIONE EUROPEA
La firma del Ttip, il «trattato del secolo» per la creazione di uno spazio economico unico tra Europa e Stati Uniti, era svanita anche prima dell’elezione di Trump. L’imminenza del voto in Olanda, Francia e Germania, e la durezza della delegazione americana nel corso dei negoziati, avevano indotto gli europei a gettare molta acqua sul fuoco degli entusiasmi. Ma, al di là delle contingenze politiche e delle controversie su questioni importanti ma puntuali, come la tutela delle denominazioni di origine o gli standard igienico-sanitari, i principali governi europei restano favorevoli a regolare il commercio mondiale e la globalizzazione con una serie di accordi internazionali. E ne hanno appena firmato uno, il Ceta, con il Canada. L’idea di un’America che torni a essere protezionista spaventa imprese e governi.
E QUELLA DI TRUMP
Nei primi 100 giorni vuole denunciare il Nafta (mercato unico nordamericano) e bloccare la ratifica del Tpp con Asia-Pacifico. I suoi bersagli prediletti sono Cina e Messico. Il Ttip con l’Europa non lo interessa. In generale diffida di tutto ciò che sa di libero scambio. Poiché sta infarcendo la sua squadra di lobbisti delle multinazionali, questi potrebbero fargli cambiare parere. Però rifiuterebbe di sottostare alle richieste europee sulla protezione dei consumatori e dei lavoratori.
FINANZA E FISCO LA POSIZIONE EUROPEA
Se sul clima hanno dato l’esempio, in campo finanziario gli europei hanno seguito l’esempio di Obama che, all’indomani della crisi finanziaria, ha imposto una serie di severe regole prudenziali a Wall Street. Con un certo ritardo, l’Europa si sta adeguando per migliorare la trasparenza e la controllabilità dei processi finanziari. Se ora, con Trump, dovesse partire Oltreatlantico una nuova ondata di deregulation finanziaria, gli europei si troverebbero presi in contropiede. Senza contare che una destabilizzazione del sistema regolatorio sulle piazze finanziarie rischierebbe di rendere ancora più complicato il già difficilissimo negoziato con la Gran Bretagna sul destino della City di Londra.
Altro contrasto potrebbe nascere sulla fiscalità delle grandi multinazionali. Dopo decenni di elusione fiscale tollerata, gli europei si sono decisi ad applicare il criterio che i grandi gruppi transnazionali, prevalentemente americani, debbano pagare le tasse là dove realizzano i profitti. I piani di detassazione di Trump potrebbero complicare l’esito della battaglia.
E QUELLA DI TRUMP
Lavorerà col Congresso repubblicano per smantellare almeno in parte la legge Dodd-Frank, la riforma dei mercati finanziari voluta da Obama che ha messo dei vincoli alla speculazione sui derivati e ha limitato la libertà d’azione delle grandi banche. È una marcia indietro rispetto a obiettivi di regolazione dei mercati sui quali c’era accordo con la Bce. Trump vuole indurre le multinazionali Usa a rimpatriare i capitali che giacciono in Europa offrendo una sorta di condono: aliquota scontatissima del 10% una tantum.
UE E BREXIT LA POSIZIONE EUROPEA
Bruxelles e il resto d’Europa non dimenticheranno l’appoggio fornito da Trump alla Brexit. Un episodio indicativo dell’opinione negativa che Trump sembra nutrire sulla Ue e sul suo progetto di integrazione, che invece Obama appoggiava apertamente. La sintonia di Trump con il leader dell’Ukip Nigel Farage è un altro indizio dell’appoggio che la nuova Casa Bianca potrebbe fornire ai governi populisti europei che, dall’Ungheria alla Polonia, rivendicano una maggiore sovranità nazionale rispetto alle regole europee.
All’inizio disse di non sapere cos’era Brexit. Quando gliel’hanno spiegato, ne è diventato un fan entusiasta. È il più importante leader straniero ad avere dato un appoggio pieno all’uscita del Regno Unito. Il primo leader europeo che ha voluto chiamare dopo la sua vittoria elettorale è Theresa May. Ha invitato la premier britannica a venire quanto prima in visita ufficiale a Washington. Si candida a diventare la sponda atlantica di tutti i movimenti populisti anti-Ue, anti- Schengen, anti-euro.
MIGRANTI E ISLAM LA POSIZIONE EUROPEA
Il principio di non discriminazione su base sessuale, razziale o religiosa è uno dei valori fondanti dell’Unione europea. Di fronte all’ondata di rifugiati che ha investito la Ue dopo l’inizio della guerra in Siria, la fede religiosa di chi fugge un conflitto o una persecuzione non è mai stata un criterio preso in considerazione nel decidere se accettare o respingere le richieste di asilo. Solo i regimi nazional- populisti di Ungheria e Polonia hanno sollevato obiezioni, proponendo di ospitare i profughi in nome dell’integrità «cristiana» delle loro comunità. Ma queste argomentazioni sono state seccamente respinte dagli altri governi. Anche nella lotta contro il terrorismo di matrice islamica, le autorità eu- ropee sono sempre state molto attente ad evitare di criminalizzare l’intera comunità dei fedeli musulmani. Nella sua lettera di congratulazioni a Trump, Angela Merkel è stata attenta a sottolineare che la cooperazione con Washington può continuare solo sulla base di questi «valori condivisi».
Dal suo sito internet sono scomparse alcune tra le proposte più provocatorie fatte in campagna elettorale come il cosiddetto “esame di religione” alle frontiere degli Stati Uniti per bloccare l’ingresso dei musulmani. Resta però ostile all’accoglienza di rifugiati dalla Siria e altre aree del Medio Oriente. Per quanto la retorica possa moderarsi rispetto alla campagna elettorale, il messaggio di Trump è di diffidenza verso l’Islam in generale.
PUTIN E NATO LA POSIZIONE EUROPEA
La Russia di Putin è un grosso problema per l’Europa. Anche se con molte sfumature diverse, gli europei sono arrivati a definire una linea comune nei confronti del neo-nazionalismo del Cremlino. La condanna per l’annessione della Crimea, per il sostegno al separatismo ucraino e le critiche per i bombardamenti indiscriminati in difesa del regime di Assad in Siria sono punti fermi e condivisi. Le frasi pronunciate da Trump contro gli attuali equilibri interni alla Nato, poi, potrebbero spingere gli europei a rafforzare una loro difesa autonoma, processo che comunque richiederà tempo.
È grato dei frequenti omaggi che il leader russo gli ha espresso. Ha accennato più volte che in Siria forse la soluzione migliore è lasciar fare i russi (che appoggiano Assad). Sull’Ucraina e la Crimea non ha mai condiviso le condanne di Obama e degli europei. Sulla Nato, ha detto che l’America potrebbe non intervenire a difesa degli alleati in caso di aggressione russa, se questi stessi alleati non pagano abbastanza per sostenere i propri eserciti.
MEDIO ORIENTE LA POSIZIONE EUROPEA
Gli accordi sul nucleare iraniano sono stati uno dei pochi successi diplomatici firmati dall’Europa e patrocinati dall’Alto rappresentante Ue Federica Mogherini. La normalizzazione dei rapporti con Teheran, fortissimamente osteggiata da Israele, è uno dei temi più consensuali tra i governi europei. Ora questa politica di appeasement potrebbe essere rimessa in discussione dalla nuova amministrazione americana. Timori analoghi riguardano la difficile relazione tra Israele e Palestina. Gli europei sono sempre stati fermi sostenitori della soluzione dei due stati, anche a costo di rapporti a volte difficili con Israele. Una posizione che era condivisa anche dall’amministrazione Obama. L’Europa teme che in futuro possano tornare in discussione sia la soluzione dei due stati, sia la richiesta di fermare l’espansione delle colonie israeliane nei territori occupati. E che si riaccenda un altro focolaio di crisi in una regione già tormentata da molti conflitti.
È allineato con Benjamin Netanyahu, considera l’alleanza con Israele come il caposaldo della politica estera americana. Ha spesso definito “pessimo” l’accordo con l’Iran sul nucleare, minacciando di cancellarlo. Più di recente, il suo entourage ha fatto trapelare che potrebbe accontentarsi di imporre alcune modifiche.
AMBIENTE LA POSIZIONE EUROPEA
L’Europa è sempre stata all’avanguardia nel mondo per quanto riguarda la difesa del clima, la riduzione delle emissioni inquinanti e la promozione delle energie alternative. Su questi temi è stata a lungo in contrasto con l’amministrazione neocon del repubblicano Bush, molto legato alla lobby del petrolio. Ma ha trovato in Obama un alleato solido. Questo ha consentito lo storico accordo di Parigi sul clima, firmato l’anno scorso sotto l’egida dell’Onu. Gli europei restano schierati a difesa di questo tipo di approccio per combattere i cambiamenti climatici e sono impegnati a ridurre dell’80 per cento, entro il 2050, le emissioni di anidride carbonica rispetto ai livelli del 1990. Ma evidentemente il loro impegno servirà a poco se gli Usa, che con la Cina sono il maggior inquinatore mondiale, non dovessero seguirli.
Appena entrato alla Casa Bianca, fin dal primo giorno bloccherà ogni versamento all’Onu legato alla lotta al cambiamento climatico. Trump, inoltre, intende stracciare gli accordi di Parigi. Il suo obiettivo dichiarato è tornare al primato dell’energia fossile: petrolio, carbone, gas. Del resto, la sua linea è inequivoca: il prossimo presidente degli Stati Uniti considera il cambiamento climatico «una bufala inventata dai cinesi per indebolire l’industria americana».
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I cattolici  “Hanno scelto Trump per dire no al sistema”
Il vaticanista statunitense Allen “È stato un voto di frustrazione le battaglie etiche non c’entrano”

PAOLO RODARI Rep
CITTÀ DEL VATICANO. «La maggioranza dei cattolici negli Stati Uniti ha votato per Trump, ma non l’ha fatto esclusivamente per motivi inerenti alla difesa della vita e della famiglia. È stato più che altro un voto di frustrazione, contro un governo e una burocrazia che fino a oggi non hanno per nulla soddisfatto ».
Le gerarchie invece?
«I vescovi si sono mantenuti più equidistanti, analogamente alla posizione su Trump che il Papa ha espresso a Scalfari: “Non lo giudico”. E credo che il motivo di questa equidistanza, inusuale dopo anni di appoggio più o meno esplicito ai repubblicani, sia sostanzialmente un rifiuto delle sue posizioni».
John Allen, vaticanista statunitense, dirige Crux, quotidiano cattolico con base a Boston. Profondo conoscitore del mondo religioso americano, invita a non fidarsi di chi parla con troppa sicurezza di “voto cattolico”.
I cattolici rappresentano il 25-30 per cento della popolazione. Secondo lei questo voto non esiste?
«Non dico questo, ma credo che questo voto non vada troppo mitizzato. Trump era per tutti, credenti e non credenti, il candidato della rivoluzione, pronto a riformare un sistema ingiusto e che non ha soddisfatto. Per questo anche molti cattolici lo hanno preferito a Hillary Clinton».
Un po’ come accadde nel 1994, quando gli italiani preferirono Berlusconi?
«Esattamente. Le analogie con il ’94 italiano sono notevoli. Trump, come Berlusconi allora, rappresentava una novità, la possibilità di una svolta storica. E la rappresentava anche per i credenti».
In ogni caso, non sono pochi i cattolici che scelgono candidati di destra per le posizioni conservatrici sui temi della vita, della famiglia, della contraccezione, della ricerca bioetica.
«I cattolici negli Stati Uniti sono divisi fra conservatori e progressisti. Un trenta per cento è fedele all’insegnamento della Chiesa, e su questi temi ha posizioni tradizionali: questo 30 per cento senz’altro ha votato per Trump. Poi c’è un altro 20-25 per cento che è più sensibile ai temi del lavoro, della politica estera. Anche questi sono conservatori, e hanno scelto Trump. Ancora: c’è un trenta per cento di progressisti che va sempre, a priori, con i democratici. Resta un ultimo venti per cento, un elettorato credente moderato. Stavolta, questo venti per cento ha scelto Trump. Ma l’ha fatto, ripeto, principalmente per motivi anti-sistema».
Si dice che i vescovi americani siano conservatori: è vero?
«Negli Stati Uniti ci sono 196 vescovi locali, che diventano 240 se aggiungiamo gli ausiliari e 350 con gli emeriti. Hanno tutti posizioni diverse fra loro e inserirli in un unico schema è impossibile. Si può in ogni caso dire che un venti per cento ha posizioni teologiche conservatrici, mentre un dieci per cento è più progressista. Tutti gli altri possono pendere più a destra o più a sinistra a seconda del momento ».
Tuttavia, negli anni scorsi, i vescovi erano molti vicini a repubblicani.
«È vero. Ma in queste elezioni, diversamente dal passato, i vescovi sono stati più prudenti. E lo sono stati sia rispetto a Clinton che rispetto a Trump. In qualche modo, entrambi non li convincevano. Tuttavia, se è vero che la maggioranza dei cittadini cattolici ha votato per Trump, sarà interessante vedere come, e se, i vescovi useranno questo credito che hanno verso il nuovo presidente. Su molte posizioni sono distanti da Trump, ma hanno un credito da giocare. Vedremo come si comporteranno».
Francesco ha detto a Scalfari di non giudicare Trump, ma di essere interessato al fatto che egli faccia o meno soffrire i poveri. Eppure la visione del Papa sembra lontana anni luce da quella di Trump. È così?
«Trump è distante non soltanto da Francesco, ma anche dall’insegnamento della Chiesa. Per questo sarà interessante capire come si muoverà l’episcopato nei suoi confronti, anche alla luce delle elezioni dei vertici della conferenza episcopale, che avverranno la settimana prossima. Come sempre, dovrebbe essere eletto presidente chi attualmente ricopre l’incarico di vice, e cioè Daniel DiNardo di Houston, un vescovo conservatore ma molto attivo pastoralmente. Più interessante sarà vedere chi eleggeranno come vice presidente: da qui si vedrà quale linea l’episcopato intendere abbracciare».
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Gli uomini delle lobby 

Uomini azienda come McKenna e Catanzaro consiglieranno Trump

FEDERICO RAMPINI Rep
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE NEW YORK.
L’establishment abbraccia il populista. Le élite saltano sul carro del vincitore. E il realismo stempera il movimentismo. I risultati sono eclatanti: dopo avere promesso in campagna elettorale l’abrogazione immediata e totale di Obamacare (la riforma sanitaria) in un’intervista al
Wall Street Journal
Donald Trump fa già retromarcia, forse ne cambierà solo dei pezzi. In campo economico l’abbraccio tra i poteri forti e l’outsider è evidente. Le Borse hanno reagito bene, il dollaro si è rafforzato. Solo pochi settori sono penalizzati a Wall Street: scendono i titoli delle energie rinnovabili e del settore sanitario, per le incertezze iniziali sulla riforma Obama (che aveva il placet delle compagnie assicurative). Esultano banche, energie fossili, edilizia e opere pubbliche.
I segnali della grande alleanza che si cementa rapidamente fra Trump e l’establishment capitalistico sono leggibili nella composizione della sua squadra. O meglio delle squadre al plurale. C’è il “transition team”: gli uomini che gestiscono questa transizione da qui all’Inauguration Day del 20 gennaio. Poi c’è la futura squadra di governo, con oltre mille caselle da riempire quasi subito (e 4.000 in tutto) fra ministri e altri incarichi dirigenziali. Tra le due squadre avvengono spesso dei passaggi: alcuni dei consiglieri della transizione potrebbero a loro volta finire nell’organigramma dell’esecutivo. In ogni caso i nomi sono rassicuranti per l’establishment. A cominciare da Wall Street. Per il dicastero del Tesoro sono circolati identikit di grandi banchieri come Jamie Dimon di JP Morgan; ma ancora più utile nell’interesse di Wall Street sarebbe la nomina di politici che hanno sempre sostenuto gli interessi della finanza. In pole position c’è Jeb Hensarling, deputato repubblicano del Texas, presidente della Commissione bancaria alla Camera. Fiero avversario della legge Dodd-Frank che nel primo mandato di Obama riformò i mercati finanziari, Hensarling è il candidato ideale dei banchieri: sfoltirebbe lacci e lacciuoli che in questi anni post- crac del 2008 hanno ridotto le opportunità speculative. Un altro uomo-chiave è Paul Atkins, ex membro repubblicano della Sec (authority di vigilanza sulla Borsa): è uno dei più ascoltati da Trump ed è un alleato fedele dei banchieri.
Smentendo subito una delle sue promesse elettorali, Trump si sta circondando anche di lobbisti professionali, al servizio delle grandi aziende. Nel settore energetico, per esempio, i suoi consiglieri sono Michael Catanzaro, che da anni rappresenta a Washington gli interessi di diversi colossi petroliferi e lavorò anche per George W. Bush; nonché Mike McKenna che è il lobbista dei Fratelli Koch, la dinastia petrolchimica di destra. Gli elenchi dei lobbisti accorsi a consigliare Trump si allungano di giorno in giorno, nell’entourage del presidente eletto sono ben rappresentati gli interessi dell’agrobusiness, delle telecom, del tabacco. Per un incarico di rilievo nel commercio estero si fa il nome di Dan DiMicco, un ex industriale dell’acciaio noto per le sue idee protezioniste. Quindi la luna di miele fra i mercati e Trump sancisce il fatto che l’establishment capitalistico ha già instaurato un rapporto intenso, intimo e promettente. Prima del voto si diceva: l’economia non ama l’incertezza e Trump sarà un salto nel buio. Adesso la sensazione è quella di un ritorno all’antico, almeno per i trattamenti di favore riservati al Big Business.
C’è un’altra ragione per cui i mercati “adottano” Trump smentendo tutte le previsioni apocalittiche della vigilia. Questa riguarda lo scenario macroeconomico. L’America entra nel suo ottavo anno consecutivo di crescita. La storia e la statistica dicono che si tratta di una ripresa già molto lunga, i tempi sarebbero maturi per la prossima recessione. Può rivelarsi benefico e tempestivo il maxi-piano di Trump per rinnovare le infrastrutture decrepite: strade, autostrade, porti, aeroporti, rete elettrica. Mille miliardi di dollari d’investimento, fu la sua promessa in campagna elettorale. I dettagli li ha elaborati per lui l’economista Peter Navarro della University of California- Irvine. Si tratta di un piano condivisibile anche dai democratici: Hillary Clinton e Bernie Sanders proponevano cose simili. Trump forse può riuscire a superare le resistenze dei repubblicani tradizionalisti, ostili ad aumenti di spesa e deficit pubblico, finanziando il New Deal delle infrastrutture soprattutto con capitali privati: project finance e formule analoghe. In base al piano Navarro, però, i privati vedrebbero coperti fino all’82% dei loro investimenti da generosi sgravi fiscali. E questo significa che l’onere per la finanza pubblica alla fine ci sarebbe lo stesso: sotto forma di mancato gettito fiscale anziché di maggiori spese. Alle obiezioni dei falchi repubblicani Trump risponde invocando la “teoria dell’offerta” che fu popolare con Ronald Reagan. Secondo l’affarista newyorchese, alla fine i conti pubblici non subirebbero alcun ammanco, anzi: la crescita ripartirebbe, facendo aumentare anche le entrate statali. È una teoria spesso smentita dai fatti. Ma il piano per le infrastrutture colloca Trump agli antipodi rispetto all’austerity europea; e più vicino alle idee dei neokeynesiani di sinistra come Paul Krugman, Joseph Stiglitz, Robert Reich.
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ALLACCIAMO LE CINTURE 

ROBERTO TOSCANO Rep
DOPO lo shock dell’elezione di Donald Trump, cominciano ad emergere voci che ci invitano a non lasciarci andare alle emozioni, a non esagerare, a sottoporre questo sorprendente evento a un’analisi realista e priva di emotività. ANZI, addirittura a vederne i possibili aspetti positivi.
Qualcuno mette l’accento sul fatto che chi è stato sconfitto se lo meritava: Hillary Clinton, incarnazione dell’establishment, è stata respinta da cittadini frustrati, indignati, assetati di cambiamento. E il cambiamento è sempre positivo, no?
Non manca chi sottolinea che Trump non è mosso dall’ideologia, ma da una miscela di interessi personali e opportunismo politico, e quindi non è detto che metterà in atto quello che aveva promesso/ minacciato durante la campagna elettorale. Il pregiudizio favorevole nei confronti dell’imprenditore in politica (qualcosa che in Italia conosciamo bene) è molto radicato. In campo progressista, poi, c’è chi dà il benvenuto al risultato delle elezioni americane definendolo un salutare scossone a una sinistra contraddittoria, autolesionista, priva di orientamenti chiari, incapace di parlare a quelli che dovrebbero costituire la sua base naturale: gli esclusi, quelli che sono svantaggiati da un sistema economico che promuove disuguaglianza e blocco di quella mobilità sociale che, soprattutto in America, era il vanto più essenziale del capitalismo.
Vi sono poi i sostenitori della continuità del sistema americano, che prevedono che Trump — che sarebbe in fin dei conti un conservatore, anche se un po’ sboccato e becero — finirà per essere riportato al mainstream repubblicano. È certo comprensibile che si voglia evitare di lasciarsi andare allo sconforto. Dopo tutto, il sole — come ha detto Obama nella sua prima dichiarazione post-elettorale — è sorto anche dopo l’elezione di Trump e nessuno è in grado di prevedere al cento per cento quali esattamente saranno le caratteristiche di un’amministrazione Trump. Ma troppi sono gli elementi che permettono di ritenere che si tratti di speranze piuttosto patetiche e poco fondate.
È vero che l’establishment democratico ha subito una sconfitta meritata non solo per i suoi errori di strategia, ma per avere rincorso un centrismo reso impossibile dalla mutazione, molto prima di Trump, del Partito Repubblicano dalla moderazione al radicalismo del Tea Party. La piattaforma elettorale di Trump non è certo di sua creazione, dall’intenzione di abolire la riforma sanitaria di Obama alla mano dura contro l’immigrazione (il muro con il Messico), dallo sviscerato amore per le armi anche da guerra nelle mani dei cittadini all’irrefrenabile passione per la diminuzione delle tasse (ai ricchi, si intende). Temi su cui sarebbe molto difficile per Trump deludere le aspettative dei suoi elettori. Senza parlare del fatto che la campagna di Trump ha mobilitato una più che inquietante componente politica: quella che in America si definisce eufemisticamente “destra alternativa — alt.right”, ma che sembra difficile non definire fascista, dal Ku Klux Klan ai suprematisti bianchi. L’elezione di quello che è stato il loro candidato li farà sentire autorizzati non solo a diffondere la loro ideologia, cosa che peraltro già fanno in modo capillare via internet e le numerose radio estremiste, ma anche ad affermare la loro presenza, spesso armata, sul territorio.
Chi vuole essere ottimista a tutti i costi fa poi riferimento al sistema costituzionale americano, a quei checks and balances che dovrebbero impedire una gestione accentrata e incontrollata del potere. Si dimentica che Donald Trump non controllerà solo l’esecutivo, ma anche il potere legislativo, con la maggioranza sia alla Camera sia al Senato, che il giudiziario, dove darà la propria impronta con la nomina di nuovi giudici della Corte Suprema.
Lo stesso patetico tentativo di sminuire il significato dell’elezione di Trump lo vediamo anche per quanto riguarda la politica estera, dove molti sono riluttanti a immaginare cambiamenti sostanziali e sottolineano che esistono interessi permanenti, sia in campo economico che in quello della sicurezza, che nemmeno il più scatenato demagogo può permettersi di ignorare una volta arrivato alla carica presidenziale.
E invece l’arrivo di Trump alla Casa Bianca avrà ripercussioni molto radicali e metterà in moto dinamiche potenzialmente destabilizzanti. La Nato: Trump non è certo un antimilitarista, ma ritiene che gli alleati siano “free riders” e non paghino le loro quote per la difesa comune. La polemica non è nuova, ma ora lo stile non sarà più quello che Washington ha usato finora: pressanti ma garbati inviti a fare di più. Putin: il leader russo non ha più simpatia per i Repubblicani che per i Democratici, ma ha visto nella possibile elezione di Trump un’occasione per guadagnare spazi di fronte a un’America ormai “curata” dall’internazionalismo liberale di cui Hillary era rappresentante, nella versione “falco”. Forse spera di poter raggiungere più facilmente accordi — che sanzionerebbero il riconoscimento della Russia come potenza con cui si deve trattare — con qualcuno che gli assomiglia sul terreno di una realpolitik che non ha paura del cinismo e della spregiudicatezza.
Tre temi internazionali su cui è sicuro che l’impatto della presidenza Trump si farà sentire sono: il riscaldamento globale, che Trump ha definito un falso problema basato su una pseudoscienza; l’accordo nucleare con l’Iran, su cui Trump ha espresso pareri violentemente negativi; gli accordi sul commercio internazionale, bestia nera del populismo protezionista cha ha svolto un ruolo centrale nella campagna di Trump. Infine, è difficile credere che esistano molti “minimizzatori” alle Nazioni Unite, dato che è prevedibile che la nuova amministrazione americana passerà dalla critica all’aperta ostilità. Soprattutto se, come possibile, dovesse diventare Segretario di Stato John Bolton, ex rappresentante americano all’Onu, di cui è coerente e appassionato nemico, famoso fra l’altro per avere dichiarato che il diritto internazionale non ha alcun valore legale. Non resta che dire: “Allacciate le cinture”. Saremo ben presto messi tutti alla prova — una prova non facile.
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PERCHÉ I RADAR DEI MEDIA SI SONO SPENTI 

NADIA URBINATI Rep
IRADAR dei media che fanno opinione — il New York Times in testa — sono stati spenti o mal posizionati, almeno nell’ultima parte della campagna elettorale che si è conclusa con la vittoria di Donald Trump. E il Times fa pubblica ammenda e parla di errore di “bersaglio” che “significa molto di più dell’aver sbagliato i sondaggi, perché si è trattato dell’incapacità di percepire la rabbia ribollente di una parte così vasta dell’elettorato americano, che si sente abbandonato con una ripresa economica che non coinvolge tutti e tradito da una serie di accordi commerciali che considera una minaccia al proprio posto di lavoro voluta dall’establishment di Washington, da Wall Street e dagli organi di informazione”.
I radar dei media liberal erano mal posizionati perché tirati dentro il gorgo della battaglia partigiana fino al punto di diventare essi stessi organi di propaganda — della parte buona, certo, moralmente buona. Ma la bontà dell’obiettivo non li assolve. Gli organi di informazione — quelli di larga diffusione nazionale in primo luogo — dovrebbero avere la funzione di comprendere (e far comprendere) quel che avviene nella società, studiarlo nei suoi fattori e nelle possibili manifestazioni e conseguenze, infine anche esprimere giudizi, certo, e, in questo senso, orientare. Il giudizio non può essere taciuto né soppresso perché il “fatto” non è un dato oggettivo che si trova per strada (diceva Antonio Labriola che i fatti non sono «come caciocavalli appesi» che si trovano già fatti). Ed è proprio perché fatti e giudizio politico sono così strettamente legati che il lavoro dei media è di grande responsabilità e di delicata combinazione di analisi e comprensione critica.
Il New York Times ha chiesto scusa ai lettori per il cattivo servizio. Tradendo addirittura la sua consuetudine, che consiste nel tenere solo l’ultima pagina per i commenti di giudizio, dedicando tutto il resto a dare conto di umori e fatti facendo parlare direttamente i protagonisti, ai problemi e a chi li avverte e soffre. Ad un certo punto della campagna elettorale, specialmente dopo che Trump ha cominciato a parlare delle donne come “gli uomini quando sono nello spogliatoio”, i media come il Times hanno chiuso l’auricolare su tutto il resto e si sono concentrati solo sul carattere e sui pregiudizi di Trump. E hanno iniziato a gettare discredito su quella parte di America che più facilmente poteva rientrare nella logica di Trump (la stessa Hillary Clinton, che ha definito lui e quelli come lui «disprezzabili», è caduta nella trappola).
L’America non amata, luogo inospitale per chi è incivilito dalla cultura urbana — quei milioni di cittadini lavoratori che in passato hanno votato Obama — non è stata considerata né studiata, non dal punto di vista dei problemi economici e sociali che l’angustiano, semmai solo per i pregiudizi che Trump diceva di rappresentare. Del resto, la rabbia del Midwest era poco comprensibile per gli opinionisti liberal, per i quali la crisi è stata superata e l’economia è tornata a marciare. Aveva senso andare alla ricerca della scontentezza di chi, negli Stati una volta industriali, assiste impotente alla scomparsa del lavoro o alla sua progressiva delocalizzazione dove costa ancora meno di dieci dollari l’ora? L’altra America, di cui si ha quasi paura nell’America liberal delle due coste, è fatta di una popolazione che sta fuori da ogni comprensione; ad essa non è stata data la stessa attenzione dedicata ai racconti del truce Trump, alle sue bugie e volgarità. E la trappola del rozzo Trump ha funzionato perché ha contato sul fatto, provato, che l’élite non ama il popolo (e viceversa).
L’élite non ama il popolo, come si è visto anche con la Brexit. Il divorzio tra élite e popolo è il pericolo che le democrazie devono temere di più — perché questi due fattori del potere danno il peggio di sé se marciano separati. Il compito dei media è appunto quello di unire élite e popolo nella comune opinione pubblica, che non deve per questo coincidere mai con l’opinione di partito. Non deve legittimare quel divorzio. Far conoscere e analizzare i problemi della società larga è il lavoro dei media.
La rivolta dell’élite contro i molti nasce anche da un modo di considerare la democrazia che è a dir poco problematico: come un sistema di procedure fatte al fine di giungere a decisioni “buone” o “giuste”. Come se solo a questa condizione la conta dei voti dei molti sia legittima. Ma le decisioni sono buone perché prese secondo le procedure condivise non necessariamente per i loro contenuti, che possono anche essere non buoni: sono buone perché ci garantiscono la libertà di cambiare le decisioni prese e chi le prende (governi e maggioranze). Condizionare l’apprezzamento delle regole democratiche alla bontà del loro esito è l’anticamera del divorzio delle élite dal popolo e, infine, di governi non democratici.
La pre-determinazione della scelta buona ha accecato i radar dei media come il Times. Certo, la decisione buona era votare Hillary. E non vi è nulla di male nel fatto che un giornale mostri questa preferenza. Ma poi, il modo migliore per farla capire a tutti (anche ai non-liberal) non è imporla come verità auto-evidente (come i caciocavalli di Labriola), ma portarla alla comprensione a partire proprio dall’analisi dei problemi della vita ordinaria, la quale è fatta anche di luoghi comuni e pregiudizi.
Sapere già tutto in anticipo fa spegnere i radar. Ora, se l’arroganza è dei politici, essa non fa notizia, poiché parte dei loro “vizi”. Ma se sono gli operatori dell’opinione pubblica ad indossare quella casacca, allora si fanno evangelisti e perdono la loro funzione, che è appunto quella di seguire umilmente e comprendere quel che avviene nel mondo largo della società. Dare voce, invece che coprire con la propria voce. Per scongiurare, tra l’altro, che sia un Trump qualunque a dar voce.
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