mercoledì 16 novembre 2016

"Totalitarismo" e "populismo": anche la sinistra più riflessiva è subalterna sul piano culturale come su quello politico

Totalitarismi e populismiRino Genovese: Totalitarismi e populismi, manifestolibri

Risvolto

In una prospettiva insieme storica e teorico-politica, il saggio si occupa dei nessi e delle differenze tra i totalitarismi novecenteschi e i populismi. Prende le mosse dall'idea che i concetti di totalitarismi (al plurale) e populismi (ancora al plurale), nonostante il loro uso debba essere sottoposto a un attento controllo critico, siano comunque indispensabili per cogliere le sfasature della storia contemporanea, composta da un agglomerato di tempi storici diversi - com'è dimostrato tra l'altro dal recente neotradizionalismo islamista. Il saggio prende inoltre in esame l'Europa attuale mostrando come, con la sua costruzione imperfetta e il suo blocco conservatore dominante, essa costituisca la condizione obiettiva e un incentivo alla diffusione dei populismi, che potrebbero essere invece politicamente ridimensionati dall'alternativa utopica di un'Europa sociale.

Ibridazioni, quando i tempi storici si compromettono
SCAFFALE. «Totalitarismi e populismi» di Rino Genovese, per manifestolibri. La presentazione oggi a Roma, libreria Odradek, Via dei Banchi Vecchi 57, ore 18 
Marco Gatto Manifesto 17.11.2016, 20:13 
Con Totalitarismi e populismi (manifestolibri, pp. 96, euro 8) il filosofo Rino Genovese ripropone una visione della storia come compresenza e ibridazione di tempi storici differenti, legandola all’analisi specifica dei due fenomeni menzionati nel titolo. Nel caso dei totalitarismi novecenteschi e delle loro conseguenze, si tratta dunque di capire come essi siano la manifestazione di una modernità che non riesce mai perfettamente a compiersi, di un passato che non riesce mai a passare, così generando a una coalescenza di tempi storici diversi che si traduce in un’impossibile realizzazione del moderno.
Ciò che appare pertanto imprevedibile, di contro all’apparente stasi cui la modernità si condannerebbe, è proprio il modo in cui il passato si miscela al presente, la combinazione in cui vecchio e nuovo si danno. La cultura moderna occidentale, sottolinea Genovese, vive alla luce di questo continuo confronto con l’alterità, che, per essere acquisita o superata, deve potersi sottoporre a un processo di «ibridazione»: l’Occidente da sempre si costituisce a partire dal suo altro, ma questo tentativo di assorbimento dell’alterità sembra essere condannato alla parzialità, secondo i termini di uno «sradicamento mai completamente portato a termine», che lo condanna alla presenza ossessiva, nella sua contingenza, di una non-contemporaneità. Torniamo così a Bloch, che non a caso, parlava di «contemporaneità del non contemporaneo» proprio per spiegare il sorgivo nazismo e della guerra che di lì a poco si sarebbe scatenata. 
La visione storica secondo cui il totalitarismo è una momentanea involuzione non dà conto di questa particolare compromissione tra tempi storici: piuttosto, la storiografia ha il compito di vedere «il nuovo profilarsi sotto le vesti del vecchio, e quest’ultimo riapparire come nuovo», studiando dei totalitarismi la «loro caratteristica impossibilità di superare il passato e aprirsi al futuro, quindi del loro ritornare, anche dopo la scomparsa, come tratti o elementi in sospensione in una storia pur tutta diversa, come quella iniziata in Italia dopo la seconda guerra mondiale, che fu a lungo funestata dalla minaccia del colpo di Stato autoritario».
E si comprende per quale motivo Genovese abbia voluto legare alle conseguenze dei totalitarismi le premesse per i populismi oggi in ascesa. In termini generali, si può dire che «ciò che è populistico è virtualmente totalitario, e ciò che è totalitario è virtualmente populistico». Del populismo Genovese chiarisce due prerogative indispensabili: da un lato, la presenza di un capo carismatico-plebiscitario, che assume tratti molteplici, e la tendenza a confondere destra e sinistra. Perché oggi il fenomeno sembra essere così diffuso, tanto da sedurre anche alcuni teorici della sinistra (Laclau, per esempio)? 
Genovese offre una risposta netta: «Essi sono la formula politica adeguata al caos dell’ibridazione contemporanea», si incardinano in una visione della storia che risponde al presente di una modernità che vede incancrenirsi la sua fisiologica impossibilità a rendersi pienamente realizzata. I populismi dunque radicalizzano l’impasse del moderno che stiamo vivendo. E sembra che non possa essere altrimenti, perché dal gioco di una modernità che gira su stessa come una bussola impazzita si esce riattivando solo un momento di rottura utopica (ma anche l’utopia è oggetto di gestione culturale). Convincono molto le pagine di Genovese dedicate al saldarsi del populismo sui processi di disintegrazione della collettività: se l’individuo è sempre più isolato e intrappolato nelle maglie dell’estetizzazione di massa, i processi populistici escono favoriti da tale situazione e penetrano sin nel fondo dei comportamenti, dando vita a fenomeni di involontaria compromissione. Aggiungerei: dissimulando la loro presunta portata democraticizzante. Il leaderismo attuale è una versione rinnovata del carisma; la supposta partecipazione dal basso (o dalla rete) è una nuova forma di «direttismo» o di autoritarismo. Come se ne esce? Per Genovese, «i paesi di democrazia occidentale dovrebbero riscoprire quel correttivo interno faticosamente elaborato nel corso della storia che si chiama socialismo», ossia, per dirla con un altro titolo genovesiano, riattivando un «illuminismo autocritico».

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