mercoledì 23 novembre 2016

Trump, la Cina e una guerra commerciale che forse è alle porte


Trump accende la sfida: via i commerci con l’Asia 

Il presidente eletto annuncia le mosse dei primi cento giorni Subito abrogazione del Tpp e rilancio del carbone. Tace sul muro col Messico e l’Obamacare Nessuna inchiesta su Hillary 

Paolo Mastrolilli Busiarda 23 11 2016
Ormai è chiaro: Donald Trump sta puntando il successo della sua presidenza sull’economia e il lavoro. Tutto il resto viene in secondo piano, perché tutto verrà perdonato, o quasi, se funzionerà il progetto per stimolare crescita e occupazione. 
Se ci fossero stati ancora dubbi, dopo le dichiarazioni fatte dal suo consigliere Steve Bannon che si era definito un «nazionalista economico», la conferma è arrivata dal video con cui lunedì sera il presidente eletto ha spiegato direttamente agli americani la sua agenda per i primi cento giorni alla Casa Bianca. In cima alla lista ha messo la cancellazione della Trans Pacific Partnership, cioè l’accordo commerciale appena negoziato dall’amministrazione Obama con gli alleati asiatici, e poi l’eliminazione di tutte le regole che frenano l’estrazione di carbone e shale gas. 
Il resto sono provvedimenti quasi di facciata: l’obbligo di cancellare due regole dello stato per ogni nuova regola introdotta, un piano per difendere gli Usa dai cyber attacchi, un’inchiesta sugli abusi dei visti per l’immigrazione che penalizzano i lavoratori americani, il divieto per i funzionari del governo di lavorare con le lobby per cinque anni dopo aver lasciato la carica. Niente muro, niente cancellazione della riforma sanitaria di Obama, niente tagli alle tasse. Questi sono punti che potrebbero essere aggiunti in seguito, ma ora sappiamo che non rappresentano le priorità immediate e fondamentali di Trump.
I critici, incluso il sito Breitbart del suo consigliere Bannon, dicono che così il presidente sta già tradendo le promesse elettorali. Perché la sua portavoce Kellyanne Conway ha chiarito che non nominerà un procuratore speciale per continuare l’inchiesta contro Hillary Clinton per l’uso delle mail private, o quella sulla fondazione di famiglia, che pure avevano svolto un ruolo centrale nella fase conclusiva della campagna elettorale. Chi punta su queste incoerenze, però, dimostra di non aver capito la natura del successo di Trump. Lui ha conquistato la Casa Bianca perché ha convinto gli elettori di essere il cambiamento, però a modo suo. Non è un presidente ideologico, non ha una visione del mondo da affermare, e non deve nulla a nessuno. Niente al partito, perché ha corso contro l’establishment, e poco ai donatori, perché ha raccolto e speso meno della metà dei soldi di Hillary Clinton. Quindi è libero di fare quello che ritiene utile a garantire il successo della sua presidenza. 
Se decide che «crooked Hillary» (Hillary la corrotta) era uno slogan buono per la campagna, ma una perdita di tempo dopo l’elezione, rinuncia al procuratore speciale. Se pensa che preservare alcuni aspetti di Obamacare abbia senso, non li cancellerà. Lo stesso muro era servito ad attirare l’attenzione degli elettori, ma se lasciare le recinzioni già esistenti conviene, magari aggiungendo dei tratti o fortificandone alcuni con i mattoni, lo farà. In campagna elettorale aveva detto che se fosse sceso sulla Fifth Avenue e avesse sparato a qualcuno, non avrebbe perso un voto. Il risultato delle elezioni ha dimostrato che aveva ragione, e ora applicherà la stessa filosofia al governo. Solo una guerra, o l’incognita del terrorismo, potrebbero cambiare l’equazione.
La misura di questo successo sta nell’economia, e così si spiegano le priorità scelte. Ora si tratta di capire se sono giuste. La cancellazione del Tpp risponde alle posizioni prese contro la globalizzazione durante la campagna elettorale, per attirare i voti dei colletti blu che lo hanno fatto vincere negli stati decisivi della «Rust Belt». Ora punterà a fare accordi commerciali bilaterali, che favoriscano gli interessi americani. I problemi sono due. Il primo è economico: gli Usa hanno ricavato vantaggi dalla globalizzazione, nonostante il prezzo pagato da alcuni lavoratori, e frenare la libertà dei commerci potrebbe danneggiare l’economia americana, facendo perdere più posti di quanti possano essere salvati col protezionismo. Il secondo problema è politico: il Tpp serviva anche a cementare le alleanze asiatiche per contenere la Cina, che invece così avrà terreno libero.
La politica energetica, invece, è una scelta a favore dei produttori di carbone e gas, contro gli ambientalisti. Nell’immediato produrrà posti, perché le estrazioni aumenteranno. Nel lungo termine, però, potrebbe danneggiare l’economia, se gli effetti del riscaldamento globale saranno devastanti come prevedono gli scienziati, secondo cui circa 13 milioni di americani rischiano di dover lasciare le case per l’innalzamento delle acque. Trump però ha fatto la sua scommessa, e spera che i risultati positivi arrivino prima degli eventuali danni.
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“L’accordo è inutile ma così si scatena una guerra di dazi” 

Steve Hanke: con l’Europa farà lo stesso 

Francesco Semprini Busiarda 23 11 2016
«Non è detto che l’uscita dal Tpp penalizzi gli Stati Uniti, ma le scelte di Donald Trump in materia di commercio internazionale rischiano di trascinare l’America in una guerra commerciale». A dirlo è Steve Hanke superconsigliere economico di Ronald Reagan, professore alla Johns Hopkins University e guru del Cato Institute. 
Gli Usa potranno uscire dal Tpp con un semplice decreto?
«Parliamo di un accordo che si trova nel limbo, non c’è stato pronunciamento del Congresso, quindi non sarà affatto complicato». 
Quanto costerà all’America?
«E chi può dirlo. L’accordo è talmente nebuloso e complesso che è difficile capire cosa contiene, può darsi che il Paese alla fine ne beneficerà, ma questo è altrettanto difficile da capire perché non sappiamo quali alternative ha in mente Donald Trump».
Sembra di capire che non crede molto nel Tpp?
«Sono scettico su questi grandi accordi perché sono farraginosi, burocraticizzati, materia per avvocati. Personalmente sostengo l’“unilateral free trader”, ovvero commercio con chiunque ha voglia di commerciare con me, chiunque non abbia restrizioni».
Però in questo caso è d’accordo con Trump?
«No, Trump sostiene il contrario. Il presidente eletto non capisce nulla di commercio o economia internazionale e nemmeno i suoi consiglieri. L’America ha perso posti nel manifatturiero per ragioni che poco hanno a che fare col commercio: il cambiamento delle tecnologie o la modernizzazione dei sistemi produttivi».
Però la delocalizzazione ha sradicato imprese dal territorio Usa.
«Sì, ma avendo nuove opportunità di commercio si creano altri posti di lavoro. Il punto è un altro, dal 1975 abbiamo avuto un deficit commerciale per ogni singolo anno e la ragione è che gli americani spendono più di quanto risparmiano e questo disavanzo è finanziato senza soluzione di continuità dai nostri partner, in primis Cina e Giappone. Tutto questo non ha nulla a che vedere con i tassi di cambio, la concorrenza sleale o qualsiasi altra cosa di cui Trump parla. E di cui parla anche chi sta al suo estremo opposto come il senatore Chuck Schumer». 
Non si perde molto ma non si guadagna nulla?
«No, si rischia ma non per l’uscita dagli accordi ma per Trump. Con lui il deficit commerciale diventerà ancora più elevato, anziché politiche di bilancio che aumentino la capacità di risparmio si andrà dalla parte opposta, lui darà la colpa alla Cina creando terrore, e ci troveremo nel bel mezzo di una guerra commerciale contro Pechino».
Chi ne beneficerà?
«La Cina stessa. Pechino è aggressiva sul piano del commercio, basti vedere gli accordi che sta stringendo col Perù. Punterà al rilancio della Regional Comprehensive Economic Partnership partnership che, a questo punto, è la naturale alternativa al Tpp. Il Dragone sta andando nella direzione opposta a Washington, e Trump lo aiuterà a rafforzarsi».
Anche l’accordo con l’Europa è a rischio?
«Il Ttip ha natura diversa, ma l’impressione è che Trump vada nella stessa direzione del Tpp. Anche qui si tratta di un altro mostro giuridico, è difficile capire chi e quanto ne pagherà le conseguenze maggiori. Il mio punto è questo: abbiamo veramente bisogno di questi accordi per praticare commercio? O si tratta di creature che non fanno altro che giustificare certe derive come quella di Trump?».
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Pechino esulta e alza la posta: intesa regionale senza gli Usa 

Cecilia Attanasio Ghezzi Busiarda 23 11 2016
«Senza gli Stati Uniti il Tpp non ha alcun senso» ha dichiarato subito il premier giapponese Shinzo Abe. E ha ragione. Perché sia ratificato, bisogna che almeno sei dei Paesi partecipanti costituiscano l’85 per cento del pil combinato degli Stati membri. 
Campo libero alla Cina, dunque, che ha già rilanciato con una contromossa. Un’alternativa di cui fino ad oggi si è sentito parlare troppo poco: il Regional Comprehensive Economic Partnership (Rcep), un accordo commerciale che comprende Australia, Nuova Zelanda, Cina, Giappone e altre 12 nazioni asiatiche. E che esclude, non a caso, gli Stati Uniti. Un’iniziativa storicamente promossa da dieci Stati membri dell’Asean che il vice ministro degli Esteri cinesi Li Baodong ha subito riproposto sottolineando come ci sia bisogno di «mettere a punto un nuovo piano che sia pratico e che risponda positivamente alle aspettative delle industrie e stabilisca al più presto un’area di libero commercio nell’area Asia-Pacifico». Vietnam, Filippine e Malaysia hanno già comunicato che stanno guardando con interesse al gruppo pensato da Pechino perché, e qui il ministro del Commercio malesiano è quasi esplicito, «la situazione economica internazionale è incerta».
Secondo quanto dichiarato al «Wall Street Journal» da Zhou Zhengfang, economista dell’Università del popolo di Pechino, questa sarebbe «un’ottima occasione per la Cina per acquistare più potere e, partendo dall’economia, arrivare ad avere una voce più potente nel palcoscenico internazionale». In effetti non sono passati che pochi giorni da quando, all’Apec di Lima, il presidente cinese Xi Jinping ha chiamato gli Stati presenti a «rimanere fedeli e a continuare a perseguire la globalizzazione» proponendosi, di fatto, come leader garante del commercio internazionale, globalizzazione compresa. E il Rcep potrebbe proprio essere l’alternativa già esistente da implementare. Potenzialmente tiene insieme il 45 per cento della popolazione mondiale e il 40 per cento degli scambi commerciali. E il presidente vuole aprirlo anche ai Paesi dell’America Latina. Nel 2015 Pechino ha superato gli Usa come primo investitore straniero e principale destinazione dell’export sudamericano. 
Secondo il professore di Scienze politiche Jean-Pierre Cabestan, intervistato da Bloomberg, «la Cina si sta avvantaggiando ad ogni affermazione di Trump» diventando sempre più eticamente e politicamente appetibile agli occhi del mondo. Soprattutto in Asia. L’ipotesi che gli Stati Uniti facciano un passo indietro nel «pivot to Asia», ovvero la strategia obamiana di accerchiamento della Cina nel Pacifico, alimenta l’orgoglio della seconda economia mondiale e allo stesso tempo allontana dal suo competitor i suoi alleati che si vedono mettere in discussione anche lo storico supporto finanziario e militare americano. Un’ipotesi che permetterebbe alla Cina di espandersi senza tante polemiche in quello che ritiene a tutti gli effetti «il proprio cortile»: il Mar Cinese Meridionale. 
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Donald nel fortino del new york times 

Gianni Riotta  23 11 2016
Donald Trump si conferma maestro della comunicazione social, insulta il «New York Times» con un tweet, «state fallendo» e cancella il meeting con la redazione, poi all’ultimo momento lo convoca e, davanti ai giornalisti della «Signora in Grigio», soprannome dello storico giornale, e all’editore Arthur «Pinch» Sulzberger, appare da «soft Donald», diplomatico, senza insulti.
Niente processo a Hillary Clinton, «ha già sofferto troppo», riflettiamo sugli accordi del clima a Parigi, che aveva giurato di stracciare, e niente più «bancarotta» per il «Times», «ho moltissimo rispetto per voi tutti». Quanto al consigliere demagogo Bannon, Trump nega che sia un fascista, ribadisce di voler lasciare campo libero a Putin in Siria, in cambio di un fronte unito contro Isis, dicendo che non lascerà il suo business, «potrei governare Paese e azienda insieme», sicuro, come il presidente Nixon, «che le azioni del presidente sono legali in sé». Il genero Kushner? «Sarà lui a firmare la pace Israele-Palestina».
La saga frenetica di ieri spiega come Trump governi il dibattito sui nuovi media con più efficacia dei giornalisti tradizionali. Non c’è in lui un’oncia di ideologia, la coerenza gli sta antipatica come le cravatte non sgargianti, incarna il verso di Walt Whitman, «Mi contraddico? Ebbene sì, mi contraddico». Ad ogni audience dirà quel che conviene quel giorno, consapevole che la memoria, nell’epoca del web, è amnesia.
La stampa americana è ferma invece al «Watergate», si illude di essere «cane da guardia» di un sistema scomparso, e per mesi bravi reporter ed editorialisti si sono affannati a emulare Woodward e Bernstein, cronisti del Washington Post che nel 1974 costrinsero giusto Nixon alle dimissioni. Quell’anno segna lo zenit di vendite dei giornali Usa, massimo della diffusione e massimo del prestigio sociale coincidono, Hollywood fa interpretare Woodward e Bernstein da Robert Redford e Dustin Hoffman.
Trump coglie prima dei direttori come il risentimento del XXI secolo, poco lavoro e zero valori condivisi, travolga i media. Chi diffida dei politici, di Wall Street, degli intellettuali, a destra e sinistra, detesta anche l’informazione. Così Trump affida al canale video YouTube il programma per la transizione di governo, https://goo.gl/QMjCIO, con una lettura insolita per lui, ingessato, leggendo al «gobbo», non parlando a braccio. Il risultato è un Trump-Non-Trump, duro nei contenuti, ostile agli accordi commerciali con Asia ed Europa, ma che deve fare i conti con la realtà, niente Muro con il Messico, niente commissione di inchiesta contro la Clinton. Piacerà alla base militante, in coppia con il soft Trump del «Times»?
In un precedente incontro con manager e direttori di giornali e tv, Donald Trump non aveva mollato invece di un centimetro, accusando le reti Cnn e Nbc di «bugie e pregiudizi» e il «New York Times» di aver fatto campagna per Hillary. Uno dei presenti riassume la prima riunione per La Stampa: «Trump non ha avuto un sorriso. Non c’è in lui soddisfazione per la vittoria, sembra volersi vendicare, punta il dito, intima di smetterla con le menzogne, minaccia, si lamenta perfino per le foto non carine, “Sempre con il doppio mento, perché?”. È stato sgradevole ed aggressivo, molti colleghi hanno lasciato il salone furenti. I giornalisti sono umani, non credo che Trump ci guadagni ad umiliarli. Mettersi contro i media è una cattiva idea. Trump si accorgerà che giornali e tv non sono quelli di una volta, vero, ma scommettere la Casa Bianca su YouTube e Facebook è un azzardo».
Trump aveva deciso, finalmente, per l’incontro con il «New York Times», sua Nemesi, e cambiato rotta nel pomeriggio, Dottor Jekyll e Mister Hyde come sarà fino al 2020. La sua presidenza chiama la stampa Usa a una nuova cultura e strategia, dismettere pompa e snobismo, affidarsi alla critica politica, non di costume contro Trump, chiuderla subito con il lutto per la sconfitta dei democratici - il direttore del settimanale «New Yorker», David Remnick, ha pubblicato un malinconico colloquio con Obama dopo il voto, in cui è il povero presidente, in pratica, a dover consolare l’afflitto giornalista! 
Trump è oggi - lo scrivevamo già prima del voto - un colosso, in casa e nel mondo. Si accorgerà presto però che governare non è giocare con i media, al mattino faccia feroce, la sera cordialità, e la sua squadra, metà estremisti sanguigni, metà burocrati tradizionali, non basterà ad evitargli scelte dolorose. I media dovrebbero rispettare il voto popolare senza faziosità e attendere il focoso presidente alla prova della lunga lena, nel mestiere che ha logorato fuoriclasse della politica come Johnson e Nixon. «Governerò per 8 anni» dice al mattino Capitan Fracassa Trump prima che il Presidente Trump lo azzittisca affabile al «Times», ma a Washington anche solo quattro anni sono eterni.
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Trump contro la globalizzazione  Il neo-presidente cancella il trattato con il Pacifico
Lo stop al Tpp aprirà i suoi primi 100 giorni di governo. A rischio anche l’accordo di libero scambio con l’Ue

FEDERICO RAMPINI Rep
GLI anti-global hanno vinto, i protezionisti sono al governo. E ora? Con Donald Trump alla Casa Bianca dal 20 gennaio, Theresa May già a Downing Street, magari a maggio François Fillon all’Eliseo, alcune fra le maggiori potenze occidentali sono in mano a leader che hanno promesso una vigorosa marcia indietro rispetto alla globalizzazione, una ri-nazionalizzazione delle politiche economiche. Con quali conseguenze? Nel programma dei primi 100 giorni di Trump ci sono già alcune risposte.
Stop al Tpp, quel trattato con 11 nazioni dell’Asia- Pacifico che era arrivato a un passo dalla ratifica. Peraltro quell’accordo era moribondo: Barack Obama aveva rinunciato a chiederne l’approvazione al Congresso, perfino Hillary Clinton prese le distanze. Trump non parla dell’altro accordo di libero scambio, il Ttip con l’Europa. È realistico pensare che sia finito su un binario morto.
Già in Europa c’erano resistenze, se Trump volesse rinegoziarlo sarebbe per spuntare condizioni più favorevoli alle multinazionali americane, rendendolo ancor più inaccettabile per i partner Ue. Sull’altro fronte protezionista, quello dell’immigrazione, per adesso la montagna Trump ha partorito un topolino: dell’espulsione di milioni di stranieri non c’è traccia nel programma dei 100 giorni, vi appare solo un’offensiva contro “le frodi sui visti d’ingresso”, per adesso una misura minimalista. Sul piano dell’immagine però Trump incassa già un successo. La Ford annuncia che manterrà la produzione di un modello Suv a Louisville (Kentucky), rinunciando a delocalizzarlo in Messico. Sembra un’operazione di relazioni pubbliche, perché in realtà la produzione di quel Suv nei piani del colosso automobilistico doveva essere sostituita con altri modelli, sempre a Louisville. Ma il comunicato della Ford è una vistosa apertura di credito al presidente-eletto: “Siamo fiduciosi che il presidente e il Congresso aumenteranno la competitività americana”. Che cosa si attende esattamente una multinazionale come la Ford? Per appagarla basta che Trump mantenga due promesse elettorali: l’abbattimento della tassa sugli utili societari dal 35% al 15%. E l’abbandono delle regole ambientali di Obama, che costringevano le case automobilistiche a produrre modelli meno inquinanti.
È replicabile su vasta scala l’esempio Ford? Il protezionismo alla Trump può davvero invertire una tendenza trentennale e indurre le multinazionali a rimpatriare fabbriche, ri-localizzare sul territorio nazionale posti di lavoro che erano finiti in Cina o in Messico? Per altri settori industriali la sfida è più complessa. La regina dell’hi-tech, Apple, ha una catena produttiva e logistica basata su calcoli di costo e anche di qualità. Assembla in Cina, ma integra componenti sofisticati prodotti in Giappone, Taiwan, Germania. Riportare quella galassia di filiali e fornitori in un paese solo, gli Stati Uniti, sarebbe un’operazione lunga e costosa. Forse Trump si accontenterebbe che Apple, invogliata da un maxi-condono fiscale (aliquota secca promessa al 10%), riportasse in America una parte dei capitali parcheggiati in Irlanda, oltre 200 miliardi. Se Wall Street continua a macinare record storici è perché si concentra su questi benefici: regali fiscali alle aziende, deregulation ambientale in favore di Big Oil, più forse il maxi-piano da 1.000 miliardi di investimenti in infrastrutture.
Ma Trump non è solo al mondo, ci saranno contro-reazioni. Il vertice dei paesi Asia-Pacifico (Apec) che riuniscono il 60% del Pil mondiale, ha già dato un assaggio delle possibili risposte. Dalla Nuova Zelanda al Cile, è un coro: andremo avanti lo stesso con accordi commerciali, anche senza gli Usa. La Cina ha lanciato le grandi manovre per attirare i delusi da Trump: recluta alleati nel suo trattato alternativo, la Regional Comprehensive Economic Partnership. Anche se la Russia è un nano economico rispetto alla Cina, a sua volta Vladimir Putin può rilanciare il suo progetto di una grande area economica Eurasiatica, un’idea che fu accantonata dopo la crisi dell’Ucraina. Se Trump cancella le sanzioni, sarà più facile per la Russia tornare anche a giocare sullo scacchiere geoeconomico oltre che su quello militare. C’è infine il modello Theresa May: per evitare l’isolamento Londra sta già negoziando accordi bilaterali separati, per esempio con la Corea del Sud (in flagrante violazione delle regole europee: non potrebbe finché non ha “consumato” Brexit).
Ben presto Trump dovrà bilanciare il dosaggio fra i due protezionismi: commerciale e migratorio. Negli anni di Obama gli arrivi di immigrati dal Messico erano calati, perché l’economia messicana generava più posti di lavoro. Se si chiudono le frontiere alle merci, lo shock economico può ravvivare i flussi migratori.
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Il fascino del protezionismo “Ma crea solo più povertà” 
Dopo decenni di barriere più aperte, il tycoon sposta indietro l’orologio del mercato. Tra molte incognite

FERDINANDO GIUGLIANO Rep
ROMA. L’elezione di Donald Trump segna la fine del quarto di secolo, cominciato con il crollo dell’Unione Sovietica, in cui l’economia mondiale è stata dominata dalla globalizzazione. Il presidente eletto degli Stati Uniti si avvia a tornare indietro sui trattati di libero scambio siglati dai suoi predecessori come Barack Obama e a limitare l’immigrazione verso gli Usa.
Queste misure protezioniste mietono consensi nella coalizione tra destra nazionalista e classe operaia che ha proiettato il tycoon verso la Casa Bianca. Ma il revanchismo economico trumpista suscita qualche malcelata approvazione anche in porzioni delle classi intellettuali di sinistra, che sino dalla fine degli anni ‘90 hanno chiesto politiche economiche “no global”.
Il paradosso, però, è che i 25 anni che ci stiamo lasciando alle spalle sono stati segnati da un abbattimento della povertà e delle diseguaglianze mondiali senza precedenti. Il protezionismo trumpista rischia di provocare i maggiori danni proprio nei Paesi emergenti, le cui valute si sono deprezzate marcatamente dal giorno delle elezioni presidenziali Usa anche per le prospettive di crescita più incerte.
Il legame tra globalizzazione e miglioramenti delle condizioni di vita nei Paesi più poveri ha base teoriche solide: con l’apertura delle frontiere, le aziende possono delocalizzare parti della loro produzione nei Paesi dove la manodopera costa meno, creandovi occupazione. L’emigrazione permette ai cittadini delle economie emergenti di accedere a quella che l’economista Branko Milanovic della City University di New York ha chiamato la «rendita di cittadinanza», ovvero il diritto a guadagnare di più semplicemente grazie alla ricchezza dello Stato in cui si svolge una determinata professione, indipendentemente da quale essa sia.
I risultati sono stati impressionanti: secondo il rapporto “Taking On Inequality” pubblicato ad ottobre dalla Banca Mondiale, nel 2013 c’erano circa 1,1 miliardi di persone che vivevano in condizioni di estrema povertà in meno rispetto al 1990, nonostante la popolazione mondiale fosse aumentata allo stesso tempo di 1,9 miliardi di individui. Questa riduzione si è intensificata tra il 2002 e il 2013, quando una media di 75 milioni di persone all’anno sono uscite dalle condizioni di indigenza — più o meno la popolazione di Germania o Turchia. La percentuale di poveri nel mondo nel 2013 era al 10,7%, rispetto al 35% di 26 anni fa.
L’altro grande successo riguarda la disuguaglianza mondiale che, sempre secondo la Banca Mondiale, negli ultimi 25 anni è calata per la prima volta dalla rivoluzione industriale in poi. L’indice di Gini globale, un indicatore delle disparità, si è ridotto da 69,7 nel 1988 a 62,5 nel 2013. «Questo è coinciso con un periodo di rapida globalizzazione e di forte crescita dei Paesi poveri più popolosi come Cina e India », hanno scritto gli autori del rapporto.
Gran parte di questa riduzione è dovuta all’assottigliamento delle differenze fra Paesi, mentre le disparità all’interno dello stesso Stato sono, in media, cresciute. Tuttavia, negli anni della crisi, anche questo trend negativo si è fermato: in quegli anni 3,5 miliardi di persone, circa il 65% della popolazione mondiale, vivevano in Paesi in cui la crescita dei redditi per il 40% più povero è stata più rapida rispetto al 60% più ricco.
Oltre al miglioramento delle condizioni di vita per i più poveri, queste cifre mostrano il declino della classe media nei Paesi più ricchi. Milanovic l’ha rappresentata in maniera molto eloquente in un diagramma del 2012 che è stato ribattezzato, a causa della sua forma, “il grafico elefante”. Questa linea mostra come tra il 1988 e il 2008, i maggiori aumenti di reddito siano avvenuti per il 65% più povero della popolazione mondiale (ad eccezione dei poverissimi) e per i super-ricchi, mentre per gli altri i guadagni sono stati praticamente zero.
Possono le ricette di Trump aiutare la classe media americana? Ci sono ragioni per essere scettici. Il think tank Peterson Institute ha calcolato che le politiche commerciali di Trump potrebbero innescare una guerra commerciale che costerebbe agli Usa 4,8 milioni di posti di lavoro. Per un nazionalista economico, può comunque valere la pena prendersi il rischio ed appoggiare ricette come quelle di Trump. Per chi ha invece a cuore il welfare globale, le ragioni anche illusorie per confidare nel protezionismo sono invece molto più difficili da trovare.
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QUANTI ISCRITTI AL CLUB PUTIN 

ROBERTO TOSCANO Rep
VLADIMIR Putin sembra riscuotere ultimamente un plauso transnazionale: da Trump a Fillon, da Le Pen a Salvini, senza contare le simpatie espresse da esponenti politici in quello che una volta si chiamava Terzo Mondo.
Cosa sta succedendo? La spiegazione più semplice — non falsa, ma certamente incompleta — ha a che vedere con l’evidente crisi del sistema internazionale. Un sistema che, a lungo basato sulla tensione/competizione Est-Ovest, sembrava fosse stato sostituito, nella breve stagione terminata nelle sabbie del Medio Oriente, dall’unilateralismo americano.
Mai come oggi, dopo l’elezione alla presidenza degli Stati Uniti di un candidato che sarebbe eufemistico definire problematico e imprevedibile, risulta evidente che ormai nessuno crede più che l’America possa fornire un quadro di stabilità globale.
SEGUE A PAGINA 28
VI È anche, da parte di Paesi che vanno dalla Turchia all’Egitto per arrivare persino a Israele, una sorta di insofferenza verso un’America che ha cercato di imporre regole agli altri ma nello stesso tempo non ha protetto i propri alleati, mentre la Russia di Putin, nonostante i suoi evidenti limiti sia economici che militari, sembra in grado di offrire una sponda al perseguimento di interessi nazionali sulla base di una realpolitik che lascia a ciascun soggetto internazionale lo spazio per definirsi. E questo senza le limitazioni che la leadership americana ha a lungo cercato di imporre. Ad essere in crisi è anche l’opzione multilaterale — quella che avrebbe dovuto essere basata a livello globale su regole internazionali e sulle Nazioni Unite, e a livello europeo sulla spinta integrativa dell’Unione europea. Su questo sfondo, Putin si presenta come una sorta di richiamo alla realtà. Una realtà magari inquietante, ma con cui bisogna fare i conti, accantonando ideali considerati poco realisti (e comunque falliti) come diritti umani, interventi umanitari, giustizia globale, multiculturalismo.
La clamorosa sconfitta dell’internazionalismo liberale, di cui Hillary Clinton era esplicita incarnazione, riporta il discorso internazionale ai livelli più basici: la potenza, le sfere di influenza, i giochi-a-somma-zero. Livelli su cui Putin ha dimostrato di essere in grado di muoversi in modo spregiudicato ed efficace.
Non è la politica di Putin ad essere popolare, ma il suo metodo, il suo stile.
Emerge, non solo negli Stati Uniti, l’insofferenza nei confronti di una “correttezza politica” che appariva egemonica soltanto perché ad essa aderivano le élite liberali e cosmopolite: dall’accoglienza di rifugiati e migranti all’impegno per l’aiuto allo sviluppo al dialogo con l’islam.
Ma la radice più profonda dell’irresistibile attrattiva esercitata da Vladimir Putin a livello mondiale ha a che vedere con un’onda lunga politico-ideologica che sta producendo i suoi effetti un po’ dappertutto: la combinazione di nazionalismo, populismo e autoritarismo.
Un’inchiesta condotta in vari paesi della Ue da You-Gov, prestigiosa società Britannica di sondaggi di opinione, rivela che una combinazione di nazionalismo, populismo e autoritarismo (anti-diritti umani, anti-Ue, anti- immigrati, per una politica estera basata sulla forza) viene presa seriamente in considerazione da un consistente numero di cittadini: in Francia, il 63 per cento (il che solleva legittime preoccupazioni sull’esito delle prossime elezioni presidenziali), nel Regno Unito il 48 per cento, in Italia il 47, mentre il più basso è il 33 per cento della Spagna. Quelli che risultano meno sensibili al richiamo del nazionalismo populista sono i cittadini tedeschi. Un dato confortante, visto il peso della Germania in Europa, ma nello stesso tempo un dato atipico, che si spiega con la potente “vaccinazione” antiautoritaria prodotta a livello di coscienza nazionale dall’esperienza del nazismo. Gli orientamenti delle opinioni pubbliche dei Paesi dell’Europa orientale sono ancora meno incoraggianti per chi ha a cuore le sorti della democrazia, con un 82 per cento di “propensione autoritaria” in Romania e un 78 in Polonia. Certo, i Paesi dell’Est Europa non sono necessariamente ammiratori della politica estera di Putin, di cui anzi temono gli istinti neo-imperiali. Ma invece di contrapporgli un’opzione democratica, sembrano molto tentati dall’affidare le proprie sorti a un “putinismo” autoctono con forti componenti nazionaliste e autoritarie.
Il fascino esercitato da Putin è direttamente proporzionale alle frustrazioni suscitate da una globalizzazione denunciata come promessa fraudolenta, al rigetto di élite liberali considerate poco patriottiche e focalizzate sulla tutela dei propri privilegi mascherati dietro i più nobili principi morali, alla paura — oggi ben più forte della solidarietà — non solo nei confronti del terrorismo, ma anche di un diverso che sbarca sulle nostre coste e attraversa le nostre frontiere. Trump si troverà probabilmente a confrontarsi e magari a scontrarsi con Putin sulla base di interessi divergenti, ma non ne contesta il metodo e le priorità, anzi nutre nei suoi confronti una malcelata ammirazione.
La popolarità di Vladimir Putin è un sintomo della crisi della democrazia liberale, una crisi che è da temere sia soltanto all’inizio, e alla quale l’elezione di Donald Trump minaccia di imprimere una micidiale accelerazione.
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