giovedì 3 novembre 2016

Tutti atterriti per la rimonta di Trump


 La vittoria di Hillary Clinton favorirà un ulteriore slittamento a destra del quadro politico e della sinistra liberale in tutte le sue espressioni, dal dirittumanismo al postmodernismo. Al tempo stesso, renderà ancora più stridenti le conflittualità internazionali accrescendo il rischio di un conflitto globale.
Con la vittoria di Donald Trump il quadro politico slitterà comunque a destra e i pericoli di guerra non diminuiranno affatto, ma a seguirne la deriva sarà anche il pezzo più rozzo e confuso della sinistra radicale, quello tutto Stato & Potenza, che di Trump e degli USA capisce poco ma pensa in tal modo di fare un favore a un Putin di cui capisce ancora meno.
Da qualunque parte si prenda, il problema rimane senza soluzione, quindi è inutile fare il tifo. Ricordo a tutti che se mai fosse possibile identificare un male minore, la teoria del male minore non vale quando non sei in grado di influenzare minimamente i processi in corso ed è solo la consolazione dei fessi ormai non più in grado di agire.
Se Clinton rappresenta gli interessi della grande borghesia egemone che ha perduto il mandato di quella piccola, Trump interpreta le paure di questi ceti pauperizzati e cerca di ricostruire una forma di ordine ricucendole con i destini di una cordata che è essa stessa un pezzo dell'establishment [SGA].


Fukuyama sceglie Hillary “Con Donald rischio autoritario ma i ceti bassi si sono fatti sentire” 

È stato il principale teorico dei neo-conservatori: ora voterà democratico. “Il successo di Trump e Sanders segna una svolta”

FEDERICO RAMPINI Rep 3 11 2016
«Sono ossessionato dalla minaccia Donald Trump, dal rischio che possa vincere». A dirlo è colui che fu considerato a lungo come un padre nobile dei neoconservatori. Francis Fukuyama, che coniò la tesi sulla “fine della storia” dopo la caduta del Muro di Berlino, è uno dei massimi studiosi della democrazia liberale. Nel 1989 la considerava trionfante, quasi un “modello unico”. Da allora in una serie di saggi autorevoli (e autocritici) ha rivisto le sue tesi, perché molta acqua è passata sotto i ponti: fino a Trump. Fukuyama mi parla al telefono dalla Stanford University in California, affronta il futuro dell’America e della destra, le radici dei populismi, gli errori dei democratici.
Dunque lei ha fatto una scelta di campo?
«Voterò Hillary senza esitazioni. Mi ossessiona l’idea che possa vincere l’altro. Consulto i sondaggi con una frequenza esagerata. Questa è forse l’elezione più importante che ricordi nella mia vita, per le conseguenze potenziali ».
Lei non è un elettore qualunque, è uno scienziato della politica. Le sue analisi, e il suo istinto, cosa le suggeriscono?
«Ho la sensazione che vincerà lei ma di stretta misura. E i problemi non fanno che cominciare. La polarizzazione del sistema politico e dell’elettorato, già aggravata da questa campagna, ci perseguiterà anche dopo».
Però sull’ultimo numero di Foreign Affairs lei suggerisce una lettura in parte positiva: in questa campagna i cittadini sono tornati protagonisti?
«Venivamo da un periodo in cui la politica sembrava dominata dall’establishment, dalle lobby, dai grandi finanziatori. Il fenomeno Trump, ed anche il successo di Bernie Sanders, hanno segnato una svolta. In questo senso la democrazia americana ha funzionato meglio del previsto, perché gli elettori hanno ripreso il controllo sulla narrazione dominante, togliendolo alle oligarchie. Per troppo tempo la classe operaia bianca non era stata rappresentata e questo era un fallimento della democrazia. Ora chi la rappresenta – Trump – non fa necessariamente i suoi interessi, però i colletti blu si appassionano per lui perché sentono di avere ritrovato una voce».
L’effetto-Trump trasforma la destra? I repubblicani sono il vero partito della classe operaia bianca?
«Non è accaduto tutto di colpo né è tutto risultato di Trump. Certo è una trasformazione profonda: ai tempi di Franklin Roosevelt il 90% dei lavoratori bianchi votava democratico. Qualche spostamento cominciò negli anni ‘60 durante le battaglie dei diritti civili, si accelerò negli anni ‘80 con Ronald Reagan: pezzi di classe operaia bianca cominciarono a votare a destra su temi valoriali, patriottismo, diritto alle armi, opposizione all’aborto. Bill Clinton li recuperò in parte negli anni ‘90 ma dopo sono andati sempre più a destra. Il problema è che l’establishment repubblicano tradizionale non faceva i loro interessi: su libero scambio, tasse e servizi pubblici, faceva l’interesse dei ricchi e delle grandi imprese. Almeno Trump ha spezzato quella contraddizione ».
Mentre i democratici erano diventati il partito pro-globalizzazione.
«Da Bill Clinton in poi, col Nafta e altri trattati di libero scambio, i democratici si sono spostati al centro. C’è stata una convergenza verso l’establishment a favore di un’apertura delle frontiere. C’è voluto lo shock di Sanders per invertire tendenza. Populismo, è l’etichetta che le élite mettono alle politiche che a loro non piacciono ma che hanno il sostegno dei cittadini…».
Lei contrappone al capitalismo americano il modello tedesco, dove i chief executive non hanno cercato la distruzione sistematica del sindacato.
«La Germania compete sui mercati aperti, ma ha diseguaglianze meno estreme di quelle americane. Ha riformato il Welfare per sottrarsi alle rigidità di tipo italiano o francese. Investe nella formazione professionale. Ha salari più alti del 25% di quelli americani e tuttavia è il terzo esportatore del mondo. L’America dovrebbe darsi due priorità: un massiccio piano d’investimenti nelle infrastrutture pubbliche; e una riforma fiscale per recuperare 2.000 miliardi che le multinazionali Usa hanno parcheggiato all’estero».
Due obiettivi ambiziosi, ma che si ritrovano in parte nelle proposte elettorali dei due candidati. Nel dopo-elezioni, chi vince riuscirà a dare una risposta costruttiva alla sfida dei populismi?
«Qui sono pessimista. La democrazia americana è diventata una “veto-crazia”, dominata dai veti incrociati e dagli ostruzionismi. Torneranno in forze le lobby: chiunque tocca la normativa fiscale si scontra con interessi potenti che hanno conquistato privilegi, esenzioni. Sul rinnovamento delle infrastrutture: i repubblicani bloccano tutto ciò che comporterebbe nuove tasse, i democratici hanno voluto regole ambientaliste che rallentano ogni sorta di cantiere».
Se la più antica democrazia liberale è ormai veto-crazia, e dopo lo spettacolo indegno di questa campagna elettorale, i vincitori sono Putin e Xi Jinping?
«E’ indubbio il fascino di un modello autoritario di tipo cinese: fa le cose. Questa è la sfida per le democrazie. Quella americana certo, ma anche il Giappone o l’Italia o l’India. Altrimenti la tentazione è l’Uomo Forte anche da noi: Trump, appunto. E’ l’idea semplice e seducente che non occorre riformare le istituzioni, bensì affidarsi a uno che le aggira».
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Scandali e voto nero in forse i repubblicani si ricompattano Ecco cosa pesa sulle Borse 

Il candidato di destra è in recupero e le nuove indagini dell’Fbi lo aiutano. Cresce il numero degli Stati incerti

Devotini rep 3 11 2016
NEW YORK.
Se Barack Obama critica l’Fbi, accentuando l’atmosfera da crisi istituzionale, ha le sue ragioni. Nel merito: l’Fbi sembra impegnata in fughe di notizie a senso unico, solo contro i democratici, avendo riesumato perfino una vecchia inchiesta su Bill Clinton di 15 anni fa. Ma per spiegare il gesto di Obama c’è un altro fattore: la paura. Come per Wall Street in calo. L’avvicinarsi del voto coincide con un aumento dell’incertezza. Ecco le cause.
SONDAGGI
«Sì, Donald Trump ha un percorso verso la vittoria». Il verdetto è autorevole, porta la firma di Nate Silver (sito FiveThirtyEight), il massimo esperto di sondaggi. Il vantaggio di Hillary nella media nazionale è sceso ai minimi termini, ormai tre o quattro punti: dentro la forchetta di errore statistico. Anche l’analisi che conta di più, quella compiuta Stato per Stato che sfocia sul conteggio dei “grandi elettori”, dà lo stesso risultato: da due settimane la rimonta di Trump è netta. Tornano ad essere contendibili, alla sua portata, molti Stati in bilico che erano finiti nella casella di Hillary. Obama non si limita a polemizzare: moltiplica i suoi comizi pro-Hillary; è allarme alla Casa Bianca.
SCANDALI VS. OBAMACARE
Perché questa frana, lenta ma inesorabile, nei consensi verso la candidata democratica? Il trend dei sondaggi era cominciato prima che l’Fbi rilanciasse lo scandalo delle email segrete, quindi non è detto che questo strappo abbia influito, anche se di certo è negativo per Hillary finire la campagna sulla difensiva, circondata da un’atmosfera di sospetti. I media di sinistra rilanciano gli scandali di Trump, compresa una denuncia per stupro su una minorenne. Ma l’elettore forse si fa influenzare più da questioni che lo toccano personalmente: come l’aumento del 25% nelle tariffe dell’assicurazione medica, che dà ragione alle accuse di Trump sulla riforma sanitaria di Obama.
DISCIPLINA DI PARTITO
Determinante è anche il ri-compatta- mento delle due famiglie politiche. Più si avvicina la scadenza elettorale più si rafforza il riflesso di appartenenza in un paese fondamentalmente bi-partitico. Anche i repubblicani che lo attaccarono pubblicamente (vedi Paul Ryan, presidente della Camera) hanno finito per schierarsi con Trump. Quando lui toccò i minimi nei sondaggi una parte dei repubblicani erano in libera uscita o accarezzavano l’idea di un voto di protesta per il libertario Gary Johnson, ora “tornano a casa” pur di non rivedere una presidenza Clinton.
VOTO AFROAMERICANO
Con gli elettori indecisi che ormai sono ridotti ai minimi, ora quel che conta è fare il pieno di consensi in casa propria. Il pericolo è l’assenteismo. Perciò spaventa i democratici il dato dalla Florida: nelle votazioni anticipate l’affluenza dei neri è stata inferiore al
previsto, inferiore alle elezioni di Barack Obama. Pessimo. Hillary ha bisogno di fare il pieno di voti afroamericani per compensare il vantaggio di Trump fra i bianchi maschi. Altro segnale in Florida, un sondaggio
Cnn rivela maggiore “entusiasmo” tra gli elettori di destra.
MERCATI
Gli investitori preferiscono la continuità (Hillary) al salto nel buio (Trump). Non amano le proposte fiscali dei democratici (più tasse sui ricchi) ma detestano la retorica contro il libero scambio del repubblicano. Oltre a divorare sondaggi pubblici, le banche di Wall Street usano fonti private. Il calo della Borsa sembra “prevedere” una vittoria di Trump. Ma non è infallibile: a Londra la Borsa si era convinta che avrebbe vinto Remain. ( f. ramp.)


La rimonta di Trump spaventa Wall Street Obama contro l’Fbi 
Il presidente: i destini del mondo nelle mani degli elettori Si riduce il vantaggio di Clinton negli Stati bianchi operai

ALBERTO FLORES D’ARCAIS Rep 3 11 2016
NEW YORK. A sei giorni dal voto le brutte notizie per Hillary Clinton arrivano da Wall Street, una sorta di contrappasso per chi viene additata (ora da Trump, durante le primarie da Bernie Sanders) come l’emanazione diretta dei poteri forti e della grande finanza (da Wall Street arrivano del resto i maggiori finanziamenti alla sua campagna). Dal 1984 a oggi S&P500, l’indice delle società più ricche quotate in Borsa, ha azzeccato tutti i risultati e quest’anno i numeri darebbero la vittoria a The Donald. Perché quando sale nei tre mesi precedenti il voto, il partito in carica vince quasi sempre (86 per cento dei casi dal 1928) mentre dall’8 agosto 2016 a oggi è in calo del 3,6 per cento. Ieri la Federal Reserve ha lasciato i tassi d’interesse invariati e gli indici di Wall Street sono calati.
La buona notizia per lei è che Barack Obama è sceso al suo fianco contro il direttore del Fbi Comey. «Quando è in corso un’indagine non dobbiamo basarci su illazioni, informazioni incomplete, fughe di notizie. Occorre sempre operare sulla base di decisioni concrete». E ha lanciato l’allarme: «Il destino del mondo è nelle mani degli elettori Usa. Con Trump la repubblica è a rischio». Nei sondaggi la tendenza è chiara. Per Nate Silver, il “mago” delle statistiche, scendono (ma restano comunque sopra il 70 per cento) le probabilità di vittoria della Clinton nei tre Stati dove è maggiore la presenza di classe operaia bianca: Pennsylvania, Michigan, Wisconsin. Trump recupera soprattutto negli Stati “in bilico”. Stando all’ultimo poll
Cnn/ Orc, avrebbe ribaltato la situazione in Nevada, Stato che ha solo sei “voti elettorali” ma è indicativo per l’alta presenza di latinos, bacino elettorale dell’ex First Lady.
Per la “Clinton Machine” le uniche buone notizie arrivano dalla Florida, dove l’ultimo sondaggio (sempre
Cnn/ Orc) vede l’ex Segretario di Stato in vantaggio di due punti, 49 a 47. Non è un caso che i due contendenti abbiano moltiplicato la loro presenza tra Miami, Orlando e Fort Lauderdale. Anche quest’anno il Sunshine State potrebbe alla fine essere tra quelli più pesanti nella bilancia per conquistare la Casa Bianca. Con un rischio: poche migliaia di voti di differenza e un nuovo possibile caso di vittoria/non vittoria come quella del 2000 tra George W. Bush e Al Gore. Una situazione che sarebbe perfetta per Donald Trump e per le sue accuse al sistema.
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Trump cresce ancora E Obama attacca l’Fbi per sostenere Hillary 
L’affondo del presidente sull’emailgate: inchiesta politica Decide di intervenire dopo l’ultimo crollo nei sondaggi 

Francesco Semprini Busiarda 3 11 2016
Barack Obama entra a gamba tesa nella controversa inchiesta sulle mail di Hillary Clinton. Si schiera in difesa della candidata democratica e attacca il direttore del Federal Bureau of Investigation, James Comey. «Ritengo - avverte il presidente - che ci sia una regola secondo cui quando sono in corso indagini, non si agisce sulla base di insinuazioni, informazioni incomplete e fughe di notizie». 
Scontro istituzionale
L’intervento nell’indagine costituisce una chiara interferenza politica da parte di Obama, una violazione del principio di indipendenza tra poteri giudiziari, esecutivo e legislativo. Un fatto più unico che raro per gli Usa, che rischia di innescare uno scontro istituzionale senza precedenti. E al contempo riflette il clima di paura che anima la campagna di Clinton in queste ultime battute della corsa alla Casa Bianca. 
Il crollo 
I sondaggi sono spietati: Trump nelle ultime 24 ore ha guadagnato terreno in quasi tutti i «battle ground», gli stati contesi la cui conquista potrebbe essere decisiva per ipotecare l’ingresso al 1600 di Pennsylvania Avenue. Il susseguirsi di sondaggi tra martedì e mercoledì scandiscono attimi drammatici per la squadra della candidata democratica. A remare contro Clinton sono anche gli afro-americani, rispetto ad Obama l’affluenza nel voto anticipato è scesa del 16% in Carolina del Nord e 10% in Florida, e sono giù anche in Ohio. Dinanzi al precipitare degli eventi, gli strateghi della Clinton optano per la mossa disperata, quella estrema e senza dubbio la più potente, la mobilitazione del presidente. Anche a costo di scatenare uno scontro tra poteri. 
L’«incursione»
Obama non si tira indietro. L’occasione è una serie di interviste. L’affondo nei confronti dell’Fbi è diretto, pesante, drammatico. Il presidente accusa Comey per aver reso pubblica la nuova inchiesta sull’uso delle email da parte della candidata democratica nell’esercizio delle sue funzioni di segretario di Stato. Un fatto che - fa intendere Obama - ha destabilizzato il processo elettorale per il rinnovo della Casa Bianca. «Non faccio riferimento a un caso in particolare», tiene a precisare il presidente, ma è lampante il fatto che parli proprio dell’indagine aperta dal direttore del Bureau sui 600 mila messaggi relativi alla storica consigliera della Clinton, Hauma Abedin. Colpire l’Fbi per arginare l’emorragia di consensi di Clinton e fermare l’ascesa trumpiana: Obama tenta il tutto per tutto: «Le email di Clinton sono diventate una controversia politica. Io la conosco e credo in lei, l’Fbi ha già detto che ha commesso degli errori, ma anche che non c’è niente di perseguibile». 
Le ombre su Comey
Il messaggio di Obama è chiaro: l’interferenza della politica nel potere giudiziario è la risposta dell’interferenza della giustizia nella politica. Lo sostiene anche il «New York Times» (il cui sostegno a Hillary è noto), secondo cui la decisione di Comey è in contrasto con la linea della riservatezza osservata questa estate su due inchieste, una sulla fondazione Clinton e un’altra sull’allora presidente della campagna di Donald Trump. A nutrire i sospetti di «invasione» del Bureau è infine la pubblicazione di altri documenti relativi a Marc Rich, trader incriminato di evasione e traffici illeciti con l’Iran graziato dall’ex presidente Bill Clinton nell’ultimo giorno del suo secondo mandato. 
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Clinton sfida il tycoon in Arizona È battaglia per gli stati in bilico 
Comizio a Phoenix dove a sorpresa il voto anticipato ha premiato i democratici Ma tra i sostenitori ora cresce la paura: “Meglio concentrarsi sulla Florida” 

Paolo Mastrolilli Busiarda 3 11 2016
All’inizio sembrava una sbruffonata, poi una sfida, e ora quasi un atto di disperazione. È la sequenza nella percezione della scelta di Clinton di venire a sfidare Trump proprio qui, in Arizona, a meno di una settimana dalle presidenziali. 
Il comizio di ieri sera al Sun Devil Fitness Complex di Apache Boulevard era stato organizzato prima dell’annuncio dell’Fbi sulla nuova inchiesta per le mail, e si basava su una strategia di attacco. Trump all’epoca era in affanno in tutto il Paese, e i dati sul voto anticipato in Arizona erano sorprendentemente incoraggianti per i democratici: quattro anni fa, nella stessa fase elettorale di oggi, Mitt Romeny aveva 21.000 voti di vantaggio su Barack Obama, mentre ora è Hillary ad avere 4000 preferenze più di Donald. 
L’aumento della popolazione ispanica, sommato all’immigrazione di parecchi liberal bianchi dalla California, hanno cambiato la faccia dello stato al punto di farlo diventare terreno di conquista, come all’epoca del West selvaggio. Basti pensare che il senatore John McCain ha temuto di non essere rieletto, mentre lo sceriffo della Maricopa County Joe Arpaio, appena incriminato per discriminazione dei latini, è indietro di oltre dieci punti nella sua corsa per essere confermato la settima volta. «I sondaggi - dice Arpaio - sono truccati a favore dei democratici. Però è vero che la popolazione dello stato è cambiata, e noi repubblicani siamo in difficoltà. Trump ha ragione a voler costruire il muro, perché è l’unica maniera per fermare i criminali, e io l’ho appoggiato. Noi ce l’abbiamo solo con i delinquenti, non con gli ispanici onesti e lavoratori. Molti però non l’hanno capito, si sono offesi, e quindi c’è stata una reazione politica». Lo stesso McCain è rimasto sempre tiepido con Donald, temendo che lo facesse perdere, e appena il suo vantaggio sulla sfidante Ann Kirkpatrick si è fatto più sicuro, lo ha scaricato negandogli il proprio appoggio.
Per tutte queste ragioni, con sorpresa degli stessi democratici, l’Arizona si è ritrovata di colpo nella categoria di North Carolina, Colorado, Virginia, cioè stati repubblicani diventati incerti o passati dall’altra parte. «Battleground state», come Ohio o Florida. Quindi la campagna di Clinton ha deciso di scommetterci su, un po’ perché spera di vincere, e un po’ perché pensa così di distrarre Trump, obbligandolo a dedicare tempo e risorse ad una regione che avrebbe dovuto dare per scontata. 
È il motivo per cui diversi operativi del partito sono stati trasferiti qui da altre regioni vicine, come il New Mexico sicuramente democratico, o il Texas, non abbastanza incerto da continuare la lotta con i repubblicani. Ogni giorno dagli uffici della California partono centomila telefonate per l’Arizona, verso le case dei possibili elettori di Hillary da convincere, o da consolidare nella scelta di andare alle urne per lei. La macchina del partito si è messa in moto, con le sue banche dati che individuano i probabili sostenitori, e i trasporti per andarli a prendere e condurli ai seggi. I repubblicani non avevano mai sviluppato un simile «ground game» qui, perché davano per scontata la vittoria, e ora si trovano a rincorrere. Un discorso che vale un po’ per tutto il Paese, perché la campagna di Trump non ha mai dedicato molte energie a questo aspetto, sempre fondamentale nelle elezioni americane. Anche in Arizona, poi, si sta ripetendo lo schema collaudato nel resto degli Stati Uniti, con le città tipo Phoenix e Tucson che crescono e diventano liberal, e le zone rurali che invece si chiudono sempre più nel conservatorismo.
Questi ragionamenti, però, filavano fino al giorno prima dell’annuncio del capo dell’Fbi Comey, che ha stravolto la corsa alla Casa Bianca e invertito l’abbrivio favorevole a Clinton. «Quando il quartier generale di Brooklyn ci ha mandati qui - dice un operativo democratico del New Mexico - avevano sondaggi interni che giustificavano l’investimento. Non so però se avrebbero preso la stessa decisione, dopo l’apertura della nuova inchiesta sulle mail».
Quella «sorpresa di ottobre» ha costretto Hillary a passare dall’attacco alla difesa, e quindi a mutare strategia: «Era bello - aggiunge l’operativo - sognare l’Arizona e sperare di cambiare in maniera permanente la mappa elettorale del Paese. Ora forse faremmo meglio a concentrarci su altri stati, come la Florida, che è il nostro “firewall”. Se Hillary vince là è fatta. Al Far West ci penseremo tra quattro anni, tanto l’arco storico della demografia pende dalla nostra parte».
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Il Ku Klux Klan si schiera con Donald 
Questa volta l’«endorsement» è imbarazzante persino per un anticonformista e anti-sistema come Donald Trump. Perché a esprimergli sostegno è stato «The Crusader», la rivista che si definisce «la prima voce della resistenza bianca», ed è considerata tra le pubblicazioni di riferimento del Ku Klux Klan, lo storico gruppo razzista Usa. Il periodico ha dedicato una pagina intera al candidato repubblicano esaltandone lo slogan «Fare l’America grande di nuovo». Un netta dichiarazione di sostegno che ha imbarazzato la squadra elettorale del tycoon da cui ha preso immediatamente le distanze: «Trump e la sua campagna denunciano qualsiasi forma di odio - recita una nota -. Questa pubblicazione è ripugnante e il loro parere non rappresenta le decine di milioni di americani che si stanno unendo dietro di noi». Non è la prima volta che il team del miliardario newyorchese è costretto a prendere le distanze dai suprematisti bianchi. Trump è stato criticato per non aver respinto con prontezza il sostegno espresso nei mesi scorsi dall’ex leader del Kkk, David Duke. «Trump è l’unico che si oppone a certe logiche di potere gestite dalle banche d’affari, da spregiudicati speculatori come Soros e dall’establishment di Washington, ovvero coloro che hanno devastato finanziariamente gli Stati Uniti prima e l’Europa dopo - ci spiega Duke -. Per questo è oggetto di attacchi e critiche ignobili». Secondo Duke è Hillary il vero pericolo per il Paese: «Con la Clinton presidente ci sarà una terza guerra mondiale contro la Russia, l’Europa ne uscirebbe distrutta, l’America devastata». Duke, decente universitario, si definisce un conservatore nazionale e attivista per i diritti umani, quegli «stessi diritti che vengono violati con le migrazioni forzate e le guerre scatenate dai palazzi del potere nelle mani di gente come Clinton, Obama e Bush». Per questo sostiene che Hillary debba essere incriminata: «L’America sapeva, Obama e la Clinton sapevano che i sauditi finanziavano e armavano l’Isis in Siria e in Iraq, ma il nostro governo si è schierato dalla parte del regime radicale, settario e corrotto di Riad». 
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L’effetto Donald affonda le Borse Sale lo spread e Milano perde il 2,5%

La Fed non tocca i tassi, petrolio sotto i 46 dollari al barile. Male le banche italiane 

Gianluca Paolucci Busiarda 3 11 2016
La rimonta di Donald Trump nella corsa alla Casa Bianca diventa una pioggia di vendite sulle piazze finanziarie globali, che avevano scommesso forse troppo prematuramente su una vittoria di Hillary Clinton. A Wall Street, in calo da venerdì dopo la notizia di una nuova indagine Fbi sulle email della Clinton, l’incertezza sull’esito delle elezioni presidenziali sembra pesare più dell’ormai certo rialzo dei tassi in dicembre, dopo che la Federal Reserve, lasciandoli invariati nella riunione di ieri, ha parlato dei segnali di un’accelerazione dell’inflazione. La possibilità di una mini-stretta monetaria in Usa è stata però praticamente ignorata dai mercati, che hanno registrato senza reagire anche i commenti della Fed sul positivo andamento dell’economia americana. Una misura dell’ansia di Wall Street per una vittoria di Trump è diventata la quotazione del peso messicano, in forte calo ieri negli scambi contro il dollaro.
Ad accrescere il nervosismo dei mercati c’è anche il prezzo del petrolio, scivolato di nuovo a 46 dollari al barile dopo il dato sulle scorte Usa superiori alle attese.
L’incertezza elettorale americana si fa sentire anche in Europa, con Milano che ancora una volta appesantita dai titoli bancari mette a segno la peggiore performance continentale. Il Ftse Mib chiude in calo del 2,51%, con Bpm (-7,69%), Banco Popolare (-7,05%), Bper (-5,62%) e Unicredit (-4,95%) a guidare i ribassi. Le vendite hanno colpito i bancari anche nelle altre piazze europee, con Bnp Paribas e Bbva in calo entrambe di poco meno del 4%. A mandare segnali negativi per l’Italia è stato anche il rialzo dello spread, «termometro» principale del rischio percepito per il Paese. Il differenziale tra il rendimento del Btp italiano e quello del Bund tedesco è risalito a 160 punti base, un livello elevato tenuto conto del massiccio programma di acquisti della Bce. Una misura del rischio percepito dai mercati per l’Italia si ha anche dal distacco tra lo spread italiano e quello dei Bonos spagnoli, il cui distacco dal rendimento del Bund tedesco è oltre 50 punti più in basso, a quota 107. 
A pesare sullo spread italiano non è tanto la debolezza ormai endemica del sistema bancario, spiegano dalle sale operative, quanto l’incertezza dello scenario politico che potrebbe aprirsi in caso di una vittoria del «no» al referendum del prossimo 4 dicembre. Il tema referendario s’intreccia peraltro con quello bancario almeno per quanto riguarda la grande malata del sistema, Monte dei Paschi. L’ad Marco Morelli è in questi giorni in Usa per il road show sul piano di messa in sicurezza dell’istituto. Gli incontri si sono susseguiti per tutta la giornata di ieri, mentre dall’Italia rimbalzavano le voci di un possibile rinvio del referendum creando, si spiega, più di una fibrillazione nei banker impegnati a presentare l’operazione agli investitori americani. Fibrillazione rientrata solo dopo l’arrivo della smentita formale di Palazzo Chigi. I tempi dell’operazione sono infatti strettamente collegati con la data del referendum: l’assemblea che dovrà dare il via libera alla complessa operazione è prevista per il prossimo 24 novembre, mentre la ricapitalizzazione partirà dopo il 4 dicembre, nella stretta finestra di mercato tra il ponte dell’Immacolata e le festività natalizie. 
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“I mercati temono il protezionismo e lo stop alla globalizzazione” 

Il Nobel Fama: il candidato repubblicano crea incertezza 

Paolo Mastrolilli Busiarda 3 11 2016
«Sto pensando seriamente di votare per il candidato libertario». Cominciando così la nostra conversazione riguardo gli effetti delle elezioni presidenziali sui mercati, il premio Nobel per l’economia Eugene Fama lascia pochi dubbi sulla sua posizione. Fama insegna alla University of Chicago, dove era stato allievo di Milton Friedman, ma il candidato repubblicano Donald Trump lo preoccupa quanto la democratica Hillary Clinton: «Non so se è possibile individuare una correlazione scientifica fra il comportamento delle Borse negli ultimi giorni e il voto di martedì, però credo che i mercati abbiano motivi per temere entrambi».
Di cosa hanno paura?
«L’unico punto su cui Trump e Clinton sono d’accordo è il protezionismo e l’avversione per i commerci globali, cioè una posizione disastrosa per tutti».
Non è vero che gli americani hanno perso soldi e lavoro, a causa della globalizzazione?
«Un sistema di scambi commerciali che funziona per tutti alla stessa maniera non esiste, ma la risposta non è bloccarli, perché così si ottiene solo il risultato di aumentare il numero delle persone che perdono soldi e lavoro».
Quindi cosa dovrebbero dire i due candidati?
«Lasciare in pace la globalizzazione, e cercare invece le soluzioni per fare in modo che tutti ne traggano beneficio. E’ più difficile, e su questo obiettivo ci sono divergenze concrete di approccio, ma è l’unica proposta sensata».
Cosa frena l’economia occidentale, che fatica ancora a riprendersi dalla crisi del 2008?
«Le regole. Abbiamo troppe regole, poco sensate, che paralizzano la ripresa».
Ma allora Trump dovrebbe piacere ai mercati, perché dice di volerle ridurre.
«Sì, ma quali? E come? Trump è troppo superficiale nelle sue proposte, e quando parla non sai mai se fa sul serio, oppure se sta solo lanciando slogan. L’incertezza provocata dal suo atteggiamento è devastante».
Promette di fare il taglio alle tasse più grande nella storia degli Stati Uniti: questa non è una proposta che dovrebbe piacere a lei, e ai mercati?
«Anche in questo caso le sue idee sono superficiali e generiche, e poi non risponde alla domanda cruciale sull’effetto che avrebbero sul deficit. Se tagli le tasse così tanto, e in via di principio io sarei d’accordo, come fai tornare poi i conti? Questo aspetto fondamentale è completamente assente dal suo programma, a parte vaghe supposizioni di incrementare il gettito fiscale grazie alla crescita».
Perché Donald e Hillary sono d’accordo sul protezionismo?
«Pensano che questa posizione porti voti. Trump risponde all’insoddisfazione della classe media bianca, mentre Clinton è stata costretta a spostarsi a sinistra per battere Sanders. E’ assurdo che un numero così ridotto di elettori come quelli che partecipano alle primarie possa determinare il futuro degli Stati Uniti, attraverso la scelta di due candidati tanto limitati».
I mercati forse temono che Trump scuoterebbe troppo la barca, mentre Clinton alla fine seguirebbe la rotta già tracciata.
«Può darsi, ma non ne sarei così sicuro. Hillary viene da una tradizione di sinistra, e quando il marito Bill la incaricò di gestire la riforma sanitaria fece una proposta simile ai sistemi statalisti europei. Una volta eletta presidente, con il potere tra le mani, potrebbe tornare a queste sue radici».
Perciò lei sta pensando di votare libertario?
«Sì. L’unico problema è che il candidato libertario non ha alcuna speranza di vincere».
E allora?
«Per attuare queste proposte bisogna approvare le leggi. Speriamo che il Congresso blocchi le idee più folli del prossimo presidente, chiunque esso sia».
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Il fattore Donald sui listini 
Marco Zatterin  Busiarda 3 11 2016
Alla fine della scorsa settimana la vittoria dell’Imprevedibile Trump non era più prevista. I mercati erano confortati dall’ampio margine che la Prevedibile Clinton pareva avere sul rissoso rivale. «Nonostante le debolezze è la migliore speranza», scriveva il «Financial Times», voce delle Borse globali, schierandosi con la democratica. Le indagini della Fbi sulle email segrete hanno mutato il clima.
A pochi giorni dal voto americano, il minimo che si può dire è che l’esito è indeterminato e impossibile da leggere e, a sentire chi ne ha vissute tante, anche uno dei meno facilmente analizzabili della storia recente. Per chi compra e vende titoli questo equivale a pura incertezza. L’ultima delle notizie che vorrebbe leggere.
E pensare che Donald Trump sulla carta dovrebbe essere il sogno dell’intero popolo che fa correre i listini, di chi ha trasformato la scienza inesatta degli affari in una religione. E’ un magnate ricchissimo che ha costruito un impero di finanza, immobili e media vari il cui valore è stimato - anche da lui stesso - in 9 miliardi di dollari. Coi successi e i fallimenti ha distribuito ricavi generosi per decine di banchieri e società di investimento. Non è un problema che abbia fatto l’attore e che il suo nome sia scolpito sull’Hollywood Boulevard: alla Casa Bianca ne è già arrivato uno da Tinseltown, Ronald Reagan, presidente per due mandati negli Anni Ottanta. Ciò che angustia i mercati sono i proclami protezionisti e la difficoltà di immaginare, ora, quello che Trump potrebbe fare una volta nella Stanza Ovale. 
Non è nemmeno una incertezza solitaria. Il democratico Obama esce di scena nel momento in cui gli assetti politici ed economici del pianeta stanno ribollendo. Un’Europa già fragile s’è indebolita col divorzio britannico. L’agitarsi offensivo della Russia destabilizza il vecchio continente e traccia ombre su un Medio Oriente profondamente instabile. La Cina cerca a ogni costo spazi di potere maggiori, mentre l’Asia che cresce non appare più convinta come un tempo delle sue potenzialità. Il ruolo che l’America svolgerà nei prossimi quattro anni sarà nuovamente cruciale. Aggregante o no? Motore di progresso o arretramento? Se lavori in Borsa e non sai immaginare cosa accadrà in primavera, o giochi su un rischioso rialzo sempre possibile, oppure vendi tutto ciò che non ti convince per scacciare la paura. 
Sì, la paura. Ieri il nervosismo ha colpito le piazze planetarie e rischia di non finire qui. Trump ha detto che, una volta presidente, rivedrà gli accordi commerciali con Cina e Nafta (l’intesa di libero scambio con Canada e i vicini continentali del Sud), come quelli che (non) avanzano con l’Europa. Il repubblicano promette meno investimenti esteri e più attenzione al «made in the Usa», scelta da accompagnarsi con una revisione della spesa sociale da bilanciare con un taglio delle tasse. E’ andato a muso duro contro il mondo islamico, i neri, gli ispanici. Per il «Ft» che lo osteggia è «divisivo e spaccone», più Putin che Obama. Nell’insieme, se ne desume, per i mercati questo è indice di ridotta stabilità e maggiore protezionismo. Pertanto di meno affari e profitti compressi. 
La Signora Clinton ha un programma più chiaro, si capisce come sarà la squadra, si percepisce uno spirito aperto e globale, la faccia negoziale di un’America che non esclude il pugno duro. Trump non ha badato alla paura dei mercati, ma a quelle dei cittadini. Bisognerà vedere se, una volta eletto, farà davvero quello che promette. Il Tycoon del Queens ha un curriculum di idee mutate, potrebbe riscriversi o essere imbragato dall’amministrazione come dai sodali repubblicani. Il partito potrebbe cambiarlo? In assenza di altri spunti, soprattutto della Fed che al momento non tocca i tassi, i mercati non riescono a vedere così lontano e cedono alla volatilità. Per loro l’imprevedibile Donald ora può vincere e fare esplodere l’incertezza, lasciando comunque un Paese diviso. «Vendere! Vendere!», è la tentazione del giorno. Tanto manca ancora una settimana e molto, se non tutto, può ancora accadere.

Hillary e l’incubo dell’inchiesta penale Trump: “Se vince lei crisi costituzionale” 
Lo scenario. L’indagine dell’Fbi sulle email di Clinton potrebbe favorire i repubblicani al Congresso
FEDERICO RAMPINI Rep 2 11 2016
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE NEW YORK
SE VINCE Hillary avremo un presidente sotto procedimento penale. E Putin si farà delle grasse risate ». Donald Trump nei suoi ultimi comizi comincia a ragionare sul dopo-elezioni. A modo suo. Descrive lo scenario nel caso in cui non vincerà lui, l’8 novembre. E non è un bello spettacolo. «Ogni attività di governo si fermerà — dice il candidato repubblicano — sarà la paralisi. Il paese si troverà in una crisi costituzionale ». Trump è galvanizzato dalla rimonta nei sondaggi, ma sa che la sua vittoria continua ad avere una bassa probabilità.
IL LINGUAGGIO che usa è condiviso da molti altri repubblicani, perfino quelli che detestano Trump. La paralisi la prevedono, o la preparano, anche loro.
Molto prima che l’Fbi rilanciasse lo scandalo delle email — il cui impatto sugli elettori è difficile da misurare — da oltre due settimane i sondaggi avevano cominciato a muoversi all’unisono: quasi tutti in direzione favorevole a Trump, nel senso di ridurre il margine di vantaggio di Hillary. Che resta favorita, ma nella media delle rilevazioni è scesa a tre o quattro punti di scarto sull’avversario. Questa rimonta può essere iniziata troppo tardi per le chance di Trump; in compenso può avere un impatto significativo su tutte le altre elezioni dell’8 novembre. Quel giorno gli americani rinnovano la Camera, e un terzo del Senato. All’epoca — appena un mese fa — in cui Hillary aveva conquistato il massimo vantaggio nei sondaggi, i democratici accarezzarono un sogno: riconquistare la maggioranza nei due rami del Congresso. Ora, con Hillary in perdita di velocità e qualche segnale inquietante sull’affluenza alle urne (come la bassa partecipazione dei neri nelle votazioni anticipate della Florida), quella speranza di fare un en plein di maggioranze legislative sembra tramontata.
Per una parte della destra repubblicana l’obiettivo numero uno è aggrapparsi al controllo della Camera. Sarebbe più che sufficiente (anche nel caso che il Senato torni ai democratici) per trasformare quel ramo del Congresso in un tribunale permanente contro Hillary. Un incubo, tutt’altro che remoto. Obama potrebbe risolvere la parte strettamente penale, con un perdono presidenziale al suo successore eletto, gesto che lui può fare nell’interregno fra l’8 novembre e l’Inauguration Day del 20 gennaio. E già questo comunque non sarebbe un bello spettacolo: una presidenza Hillary inaugurata dall’amnistia della medesima. Anche in seguito al perdono la Camera potrebbe continuare a promuovere inchieste per conto suo, e se non proprio in uno scenario da “impeachment”, quanto meno per chiamare continuamente a testimoniare sotto giuramento i principali collaboratori della neo-presidente. È questa una possibile versione della «crisi costituzionale» di cui parla Trump.
Un altro scenario, ancora più favorevole alla destra, si sta materializzando nelle ultime ore via via che il vantaggio di Hillary si assottiglia nei sondaggi. La destra comincia a sperare di poter mantenere perfino una maggioranza al Senato, sia pure esile. Le basterebbe un solo seggio per dare alla «crisi costituzionale » un’ampiezza e una gravità ancora superiori. Il potere più importante che ha il Senato è di approvare o bocciare le principali nomine presidenziali. A cominciare dalla Corte suprema. Quest’ultima è il terzo pilastro della democrazia americana il cui futuro è indirettamente in ballo nel voto di martedì. In seguito alla morte del giudice Antonin Scalia, l’attuale maggioranza repubblicana al Senato ha rifiutato perfino di esaminare il candidato di Barack Obama per quel posto. La Corte suprema è già in una semi-paralisi perché c’è parità assoluta fra membri repubblicani e democratici. Questo stallo potrebbe prolungarsi all’infinito. Lo ha minacciato perfino un repubblicano anti-Trump, il senatore dell’Arizona John McCain: «Faremo di tutto per impedire che una presidente Hillary nomini un giudice».
L’impossibilità di raggiungere intese bipartisan, e l’ostruzionismo, sono da anni malattie endemiche della democrazia Usa. I postumi di questa campagna elettorale, anche in caso di vittoria di Hillary, potrebbero non sfociare affatto su un ravvedimento dei repubblicani. La dinamica elettorale è perversa: quei repubblicani che possono perdere il loro seggio parlamentare di solito sono proprio i più moderati, eletti in collegi dove c’è un’opinione pubblica centrista e indipendente. Inoltre il calendario elettorale è perverso: la Camera viene rinnovata ogni due anni, come pure un terzo del Senato. Se mai sarà Hillary a fare il giuramento nell’Inauguration Day del 20 gennaio, quel giorno scatterà il conto alla rovescia verso l’elezione di mid-term: novembre 2018. E avrà inizio la gara a paralizzare la Clinton, se non addirittura a processarla in permanenza davanti alla nazione.
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Trump sale ancora e spaventa Hillary 
A una settimana dal voto i sondaggi danno il repubblicano in vantaggio di un punto L’Fbi: nessun legame con la Russia. E Clinton prova a difendere gli Stati in bilico 

Francesco Semprini  Busiarda 2 11 2016
A una settimana dal voto generale per il rinnovo della Casa Bianca, Donald Trump rimette in discussione i giochi con un sorpasso da brivido nei confronti di Hillary Clinton. L’«effetto Fbi», ovvero l’avvio di una nuova indagine sull’utilizzo delle mail da parte dell’ex segretario di Stato, è un vento in poppa che conferisce alla corazzata del candidato repubblicano la forza per uno sprint finale al cardiopalma. 
Battaglia di numeri
La prima «bomba» viene lanciata dal Washington Post con il sondaggio realizzato assieme ad Abc secondo cui nella gara a quattro, «The Donald» è in vantaggio 46% a 45%, su Hillary. Nel confronto a due il distacco è sempre di un punto ma a favore della democratica. La stessa rilevazione suggerisce che la quota di Dem «realmente entusiasti» di Hillary è scesa al 43% dal 51%, mentre gli entusiasti di Trump resistono al 53%. La fotografia che ne emerge è la seguente: Trump mostra tenuta mentre Hillary registra un’emorragia di voti riposizionati tra il libertario Gary Johnson, la «verde» di Jill Stein, e gli astenuti. Altri sondaggi descrivono situazioni di pareggio o di vantaggio di Hillary, ma il denominatore comune è l’assottigliamento del divario tra i due candidati.
Repubblicani compatti
L’altra «bomba» la lancia Paul Ryan. Lo «speaker» della Camera, punto di riferimento del Grand Old Party, afferma di aver già votato e di averlo fatto per Trump. L’annuncio fuga ogni dubbio sulle titubanze circa il tycoon sdoganato involontariamente da Hillary e dai suoi guai. «Questa è la vita con i Clinton, - dice Ryan - uno scandalo dopo l’altro, un’indagine dopo l’altra. Lei non può vincere, i democratici non possono avere il Congresso». È forse questo il principale timore per lo «speaker» che archivia le scaramucce con Trump sui video sessisti e chiama a raccolta il Gop al completo. 
Doppio «effetto Fbi»
Trump incassa un secondo importante risultato grazie a un’altra inchiesta del Fbi, quella sui suoi presunti legami col Cremlino. Inchiesta per la quale non sarebbe sino ad ora emerso nulla a suo carico. Gli inquirenti sono convinti che anche gli hackeraggi contro i democratici siano volti a minare le elezioni più che a far eleggere il tycoon. Ciò prenderebbe in contropiede i rivali di Trump convinti di trovare nei suoi legami con Putin la «smoking gun» con cui metterlo fuori gioco.
A caccia di «swing»
Il tycoon punta a conquistare alcuni Stati che, sebbene tendenzialmente blu, potrebbero diventare rossi grazie all’«effetto Fbi». Il Michigan, realtà della «Rust Belt» depressa dalla grande crisi del manifatturiero, conta un crescente numero di operai pronti a compiere il salto verso Trump. Il Colorado, dove la classe media è «nauseata» dalle politiche in favore dell’1% dei democratici, è terreno fertile per il tycoon. Così come il New Mexico che soffre la piaga dell’immigrazione clandestina a cui si oppone col pugno di ferro il governatore Susan Martinez, ispanica ex democratica che il salto in «rosso» lo ha fatto, non a caso, durante la presidenza di Bill Clinton. È in questi Stati - secondo «RealClearPolitics» - che si concentra congrua parte dei 111 grandi elettori che separano i due candidati.
Corsa contro il tempo 
Clinton reagisce con un comizio ad Upstate New York, feudo Dem, mentre tiene sotto controllo la Pennsylvania - recente meta di Trump -, Stato potenzialmente «swing», in biblico, dove deve consolidare il vantaggio, o rischia di vedersi sfuggire altri 20 grandi elettori. Tenta al contempo di arginare l’emorragia di consensi pretendendo dall’Fbi responsi in tempi brevi: arrivare al voto nell’incertezza darebbe a Trump un vantaggio: La campagna incalza: «L’Fbi usa in modo sfacciato due pesi e due misure». E dei tempi dell’indagine hanno discusso ieri il capo dell’Fbi, James Comey, e il ministro della Giustizia Loretta Lynch. Quest’ultima avrebbe rinnovato la fiducia al direttore: «Ma a quale prezzo?», si chiede la squadra del tycoon ricordando il controverso incontro tra Bill Clinton e la stessa Lynch sulle piste dello Sky Harbor Airport di Phoenix, in occasione della prima inchiesta sul emailgate.  BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

Tra i cacciatori di migranti lungo il muro con il Messico 

In Arizona gruppi paramilitari armati pattugliano il confine Negli ultimi mesi arrivati i primi somali e siriani: “Sono terroristi” 
Paolo Mastrolilli Busiarda 2 11 2016
Visti da qui, i cespugli di mesquite e i cactus che punteggiano il confine tra l’Arizona e il Messico sono tutti uguali. Gli occhi allenati di Tim Foley, però, scoprono subito un’altra storia. Ferma il fuoristrada, abbassa il finestrino, e dice in spagnolo: «Ehi, serve aiuto?». Quelle che sembravano foglie ora si muovono, e dal cespuglio emergono due uomini vestiti con la mimetica militare: «Siamo messicani, abbiamo perso la strada. Stiamo qui nascosti da due giorni, muoriamo di sete e di fame, non sappiamo più dove andare». Tim sorride, e con un gesto amichevole indica il cassone del suo fuoristrada: «Salite. Dentro ci sono bottiglie di acqua. Vi do un passaggio».
I due messicani si sistemano sul fondo del cassone, e Tim parte. Intanto Catrina, la sua assistente, chiama gli agenti del Border Patrol: «Vi portiamo un carico». I due illegali pensano di correre verso la libertà, e si sdraiano per nascondersi, quando vedono in lontananza l’auto delle guardie federali. Non sanno che Foley sta andando proprio verso gli agenti, per denunciarli. Frena, li aiuta a scendere, e li consegna ai doganieri: «Scusate ragazzi, prendervi è il mio mestiere. Però vi ho salvato la pelle».
È un giorno come un altro nella vita di Foley, 57 anni, ex paracadutista della 82nd Airborne Division. Tim è originario della California e ha il corpo coperto di tatuaggi: «Questo - mostra orgoglioso - è il simbolo del mio reparto, queste le mie figlie, questi gli dei celtici che mi proteggono. Sulla schiena c’è la mia visione di dove va il mondo», cioè una morte con la falce che corre a cavallo. Sei anni fa Tim si è trasferito in questo buco abitato da 2500 persone, per pattugliare il confine col Messico. Ha fondato il gruppo paramilitare Arizona Border Recon ed è diventato così famoso che Kathryn Bigelow, regista premio Oscar di «Hurt Locker» e «Zero Dark Thirty» gli ha dedicato il documentario «Cartel Land». In altre parole, Foley era trumpista prima ancora che lo fosse Trump. Anzi, oltre: «Voterò alle presidenziali, perché Hillary è una criminale. Però il muro di Donald non basta. Lungo il confine abbiamo già una recinzione alta quattro metri, ma vendono pure le scale alte quattro metri e mezzo. Per fermare davvero il traffico ci vogliono gli scarponi sulla terra».
Tim si sveglia ogni mattina alle 5, indossa la mimetica e la pistola Glock 42, e parte col suo cane Rocko per il confine. «Abr ha sei membri attivi e circa 200 volontari. Ogni mese organizziamo operazioni in cui dormiamo una settimana lungo la frontiera. Non siamo una milizia, perché appena dico che voglio rovesciare il governo, i federali vengono ad arrestarmi. Operiamo nella piena legalità, collaborando con la Us Border Patrol». Foley e i suoi uomini pattugliano il confine, e quando vedono migranti o trafficanti di droga chiamano gli agenti. Poi piazzano telecamere nascoste lungo i passaggi usati dagli illegali, per riprenderli. «Tutti, narcotrafficanti e migranti, usano le mimetiche per non farsi vedere e indossano sovrascarpe per non lasciare tracce. Poi portano borracce nere, perché non riflettono i raggi del sole». 
Ci avviamo lungo un sentiero usato dai narcos: «Questa zona è controllata dal cartello di Sinaloa, quello di El Chapo. Ora è in corso la lotta per la successione, e quindi stanno diventando molto violenti. Il 75% del traffico a Sasabe riguarda la droga: marijuana, metamfetamine, cocaina, eroina. Intercettiamo carichi con centinaia di chili, portati negli zaini. Il 25% poi sono migranti illegali. Però non bevetevi la storia dei bambini, perché secondo il governo lo sono tutti i minorenni: qui un ragazzino di 16 anni è già avviato alla carriera dei narcos».
Foley pensa che sia in corso un’invasione: «Secondo i dati ufficiali, lungo il confine sono passati illegali di 78 Paesi diversi, inclusi mediorientali, somali, sudanesi. Dall’inizio dell’anno hanno fermato 5 siriani, e due di loro avevano cilindri metallici nello zaino. L’Fbi li ha portati via e non abbiamo più saputo nulla, perché il governo non vuole ammettere che da questa frontiera si infiltrano anche i terroristi».
Il confine è punteggiato dalle torri con i radar e le telecamere, sorvegliato dai droni e dagli elicotteri, ma secondo Tim non basta: «Abbiamo speso 6,5 milioni di dollari per ogni miglio di recinzione, ma ad un certo punto si ferma e l’accesso è completamente aperto. Neppure il muro di Trump basterà, perché tanto lo scavalcano o scavano i tunnel. Usano pure i droni, per consegnare la droga. La Border Patrol qui ha circa 300 agenti, ma stanno in caserma: bisogna che vengano a fare la guardia sul terreno, come noi». Perché «è una guerra quotidiana. I narcos cambiano tattica ogni giorno, e noi dobbiamo adeguarci. Sarà una lotta infinita». Molta gente non lo capisce: «I liberal vengono qui a lasciare acqua per i migranti, e ci accusano di tagliare le taniche coi coltelli. Non è vero, perché io non voglio far morire la gente di sete nel deserto, ma sulle bottiglie ci sono scritte le coordinate geografiche del luogo, per far capire a chi le trova dove sta: forse questi liberal lavorano in combutta coi narcos?».
Trump ha trasformato la storia di Tim in un programma politico, e lui lo voterà. Però la politica resta nemica: «Crederò a quello che dicono solo quando lo vedrò. Mi hanno pure proposto di candidarmi al Congresso, ma ho rifiutato: il primo giorno a Washington prenderei qualcuno a pugni, e finirei in galera».
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Ma la vittoria si gioca nei sei Stati ancora indecisi
di Mario Platero  Il Sole 2.11.16
Sei giorni per cambiare il mondo e sei stati per cambiare l’America: se Donald Trump riesce a vincere Florida, Nord Carolina, Ohio, Iowa, Nevada e Arizona avrà vinto la Presidenza degli Stati Uniti. Da oggi, dopo il sondaggio Washington Post Abc che riflette l’intervento dell’Fbi e che dà la maggioranza del voto popolare a Trump con il 46% contro il 45% l’impresa è possibile. E il mondo dal giorno dopo sarà davvero cambiato, per le mille incertezze che riguardano una presidenza Trump, foriera di rottura con la tradizione con cui è stata gestita la Repubblica degli Stati Uniti d’America.
La partita si deciderà dunque sul filo di lana. Ricordiamo che la Casa Bianca non si vince in base al voto popolare ma a quello elettorale, rappresentativo dei singoli stati. E in questi ultimissimi giorni Trump ha sfruttato benissimo a suo vantaggio notizie contro Hillary in arrivo da wikileaks e soprattutto dall’Fbi ed è avanzato rapidamente anche lungo il fronte dei singoli stati: Hillary fino a ieri era ancora in vantaggio su base “statale”, con probabilità del 71,8% di vincere contro il 28,2% di Trump,ma il gap si sta chiudendo rapidamente, una settimana fa Hillary era all’86% e Trump al 13.
Facciamo qui un piccolo riassunto del meccanismo elettorale americano. La maggioranza del voto popolare ha un effetto traino, ma non è decisiva. Quel che conta è la vittoria nei singoli stati, per dare rappresentatività federale anche ai più piccoli. Complessivamente i 50 stati americani esprimono 538 voti elettorali. Per vincere occorrono 270 voti e i voti elettorali dipendono dalla popolazione. La California ad esempio ha il numero più alto di voti elettorali, 55. Il Delaware e il Maine il più basso, 3. Ciascuno dei candidati ha degli stati “sicuri” in cui vince per tradizione ora repubblicana ora democratica con probabilità spesso vicine o superiori al 90%. New York ad esempio, 29 voti elettorali, voterà con il 99% delle probabilità per Hillary. Il Texas, 38 voti elettorali, voterà con il 99% delle probabilità per Trump. I più importanti aggregatori di sondaggi americani, RealClear Politics (Rcp) e Fivethirtyeight hanno fatto una conta molto accurata delle singole contee per ciascuno dei 50 stati e secondo Rcp 40 stati sono di fatto assegnati, con 10 stati incerti, Ohio, Florida, Carolina del Nord, Nevada, Iowa, Arizona, Georgia, Colorado, Maine e New Hampshire. Secondo questo conteggio fino a ieri Hillary avrebbe già in tasca 259 voti elettorali contro i 164 di Trump. Per vincere la Casa Bianca dunque, l’8 novembre Trump dovrebbe conquistare almeno 9 dei 10 stati incerti che insieme esprimono 115 voti elettorali, cosa difficile in circostanze normali, ma non impossibile nella situazione di “momentum” in cui si trova e nell’altissima volatilità e tensione emotiva di queste elezioni. Con la vittoria in tutti gli stati incerti Trump arriverebbe al di sopra di quota 270 voti elettorali. A Hillary, se le elezioni fossero oggi, basterebbero solo 11 voti elettorali. Per lei sarà sufficiente vincere il Colorado, 9 voti elettorali, dove ha già il 44% del voto contro il 40% di Trump o la Carolina del Nord, 15 voti elettorali dove ha il 47,3% del voto contro il 44,7 di Trump. Una vittoria in Florida che ha 29 voti elettorali e dove ha il 44,5% del voto contro il 45,5 di Trump per lei sarebbe determinante. Fivethirtyeigth è più aggressivo, attribuisce tutti gli stati indipendentemente dai margini di incertezza e ieri vedeva Hillary in testa con 306,4 voti elettorali contro i 230,4 di Trump, ma una settimana fa il conteggio dava a Hillary 333 voti elettorali contro 201 per Trump. Per questo la nostra scelta è stata di mediare fra i due lasciando fuori degli stati come fa Rcp ma non tutti e dieci. Abbiamo così scelto Florida, Nord Carolina, Nevada, Arizona, Iowa e Ohio. Insieme porterebbero a Trump 84 voti a lo farebbero salire (al netto di depurazioni fra le due medie) a quota 278 voti elettorali. Più che “abbondante” per vincere la Casa Bianca. E per cambiare il mondo. © RIPRODUZIONE RISERVAT A

Trump sorpassa Clinton ma per il New York Times evase il Fisco
di Marco Valsania  Il Sole 2.11.16
I suoi contabili e avvocati l’avevano avvertito che il fisco non l’avrebbe fatta passare liscia. Ricevere crediti e sconti per aver perso soldi, tanti soldi, di altri era discutibile eticamente e soprattutto di dubbia regolarità. Eppure questo ha fatto Donald Trump, aggiungendo oggi un nuovo, potenziale scandalo al susseguirsi di shock nella campagna elettorale americana.
Le rivelazioni, frutto di un’inchiesta del New York Times, mettono in dubbio l’asserzione del candidato repubblicano di aver semplicemente usato comuni e legittime scappatoie per non pagare imposte per anni. In realtà avrebbe invece nascosto centinaia di milioni di dollari di reddito. Una manovra ultra-aggressiva eseguita nel periodo nero del magnate, quando negli anni Novanta il suo impero immobiliare e di casinò era sull’orlo della bancarotta.
Trump, si sapeva, ha dichiarato perdite per 916 milioni che gli sono servite per evitare altrettante tasse federali durante forse 18 anni. Quel che non era finora noto è che il magnate aveva contemporaneamente ottenuto dai creditori, banche e investitori, la cancellazione di debiti per svariate centinaia di milioni, un maxi-sconto che sarebbe stato tenuto a riportare - e non lo ha fatto - come reddito. Il perdono avrebbe cancellato le deduzioni legate alle perdite.
La legislazione di allora, ammettono gli esperti interpellati dal Times, era ambigua e sarebbe stata chiarita solo successivamente per rendere illegali simili manovre. Trump, stando alla corrispondenza venuta ora alla luce, avrebeb tuttavia più che interpretato liberamente, coscientemente stravolto le norme. Le accuse lo raggiungono in un momento cruciale: sta tentando un sorpasso in extremis sulla favorita Hillary Clinton, approfittando del nuovo scivolone della rivale democratica per la Casa Bianca su un altro scandalo, quello delle e-mail. L’Fbi sta passando al setaccio con speciali software ben 650mila nuovi messaggi di posta elettronica rinvenuti in un computer condiviso dalla collaboratrice di Clinton, Huma Abedin, con il marito, l’ex deputato Anthony Weiner travolto da un caso di “sexting”. Abbastanza da tenere alto lo spettro di irregolarità se non di reati nella gestione di corrispondenza segreta o comunque delicata, che risale a quando era Segretario di Stato, alla vigilia del voto dell’8 novembre.
Perché la notte del voto aspettiamo la Florida
Un sondaggio quotidiano di Abc-Washington Post ha visto ieri Trump avanti di un punto su Clinton, 46% a 45%, per la prima volta da maggio, nonostante la media delle poll più recenti dia ancora a Clinton in vantaggio di quattro punti. Il nuovo caso delle e-mail l’ha messa sulla difensiva, erodendo l’entusiasmo dei suoi sostenitori e mettendo in dubbio speranze democratiche di conquistare Stati incerti quali Ohio e Iowa come maggioranze al Congresso. Segno della mappa elettorale tuttora aperta, nelle ultime ore Trump si è spinto in Wisconsin, Clinton in Florida.
Le polemiche hanno anche sollevato l’incubo, qualora Hillary vincesse, di anni di inchieste parlamentari sul suo operato, una riedizione delle battaglie legali che azzopparono la presidenza del marito Bill Clinton. L’intervento dell’Fbi ha reso di sicuro incandescente il clima all’interno delle istituzioni americane, con il direttore James Comey accusato di imitare il più noto e discusso leader dell’agenzia, Edgar J. Hoover, l’ultimo a essere attaccato per l’uso esplicitamente politico degli agenti (contro il movimento dei diritti civili e prima ancora contro il democratico Harry Truman). Le differenze sono profonde: Hoover manovrava dietro le quinte mentre Comey, un repubblicano scelto da Barack Obama, sembra semmai aver peccato di irresponsabilità, di violazioni di norme interne che proibiscono il rilascio di materiali controversi a meno di 60 giorni dalle elezioni. Le dure polemiche testimoniano però il clima avvelenato nel quale l’America andrà alle urne.

Finale thrilling per i democratici
Guido Moltedo Manifesto 3.11.2016, 23:59
Manca neppure una settimana all’Election Day 2016, ma già diversi milioni di americani hanno votato. Più o meno 18 milioni. Votano grazie all’early voting (o advance voting), il voto anticipato per posta o in appositi seggi, una possibilità che un tempo riguardava gli elettori lontani dalle loro residenze, come i militari all’estero, ma che sempre più, con gli anni, è diventata una pratica diffusa in molti stati. 37 stati che hanno allentato parecchio le condizioni per aver diritto al voto in anticipo, che è così diventato un esercizio diffuso, e ormai interessa una buona fetta del corpo elettorale statunitense. Quando si voterà, l’8 novembre, si calcola che saranno già una cinquantina di milioni gli early voter, 4 milioni in più del 2012 (furono il 31,6).
In Florida, anche questa volta uno degli stati chiave, forse il più importante, hanno già votato tre milioni di elettori.
I loro voti saranno conteggiati insieme a quelli degli elettori «regolari».
Ma, intanto, possono dare qualche indicazione su come sta andando la corsa?
In generale, l’early voting favorisce i democratici e, quindi, l’alta partecipazione di queste elezioni è considerata un buon segno per Clinton.
Inoltre molti di questi elettori «in anticipo» hanno votato prima che scoppiasse nuovamente lo scandalo delle email di Hillary Clinton, per iniziativa del direttore dell’Fbi James Comey.
Su di loro, quindi, non può avere influito. Può essere interessante, piuttosto, osservare che gli elettori registrati come repubblicani prevalgono in stati come l’Iowa e l’Ohio e gli elettori registrati come democratici sono più numerosi in Arizona e Colorado, mentre in Florida gli elettori repubblicani sono di più, ma il margine di vantaggio rispetto ai democratici si è assottigliato nell’ultima settimana, nonostante l’email-gate clintoniano.
Anche per via dell’early voting, i sondaggi diventano sempre più aleatori in questo tratto finale della corsa elettorale e a loro volta alimentano l’aleatorietà di un finale nel quale si ripetono clamorosi colpi di scena considerati game changer, in grado di cambiare il gioco.
Proprio questa incertezza è motivo di allarme in campo clintoniano, specie in presenza di un dato, discutibile finché si vuole ma che alimenta un clima già sfavorevole per Hillary, ed è il balzo registrato da Donald Trump, che adesso tallona da vicino l’ex segretario di stato Clinton.
Va detto che, secondo Nate Silver, il riverito re degli algoritmi, la candidata democratica rimane saldamente in testa in termini di voti di collegio elettorale, quelli espressi da ciascuno stato, che sono i voti che contano.
Per Silver, insomma, Donald Trump resta l’underdog, l’inseguitore, lo sfavorito dai pronostici.
In questi giorni di fine corsa, con una massa consistente di early voter, quasi un terzo degli elettori, è però davvero difficile dar retta ai sondaggi. Inoltre, l’esperienza insegna che nelle ultime settimane prima del voto, gran parte degli elettori ha già deciso da tempo: già, ma come?
E sempre più esile diventa la quota degli indecisi, elettori incerti, umorali, altalenanti, una porzione di voti sempre più difficile da rilevare con i sondaggi.
Ma che in competizioni combattute fino all’ultima scheda, sono i voti decisivi.
La preoccupazione, per gli strateghi di Hillary, è che, comunque, sembra evidente l’approssimarsi di un finale da thrilling, quando solo pochi giorni fa fervevano già i preparativi per mercoledì 9 novembre, nella certezza della vittoria acquisita.
Adesso il roseo giorno dopo l’8 novembre di un paio di settimane fa è temuto con una certa angoscia come un cupo day after.
Il segnale del pericolo incombente è dato anche dal ricompattarsi del fronte repubblicano, che nella rimonta di Trump e nei guai di Hillary sente profumo di vittoria.
La saga dell’email-gate ha addirittura riavvicinato Donald Trump e lo speaker della camera Paul Ryan, ai ferri corti dai tempi della convention repubblicana.
Adesso che è Hillary sotto schiaffo, i repubblicani, che nella condivisa avversione verso Clinton hanno sempre trovato un comune sentire, forse l’unico vero amalgama che li tenesse e tenga insieme, hanno come ritrovato un elisir che li galvanizza perché promette loro il mantenimento della maggioranza nelle due camere del Congresso.
Una maggioranza che le gesta del miliardario di Manhattan ha messo seriamente sotto ipoteca.
Ma il day after che paventano i democratici non è solo quello di una possibile anche se improbabile sconfitta, è anche il giorno dopo una vittoria – importante come tale – eppure fortemente segnata e condizionata da una campagna elettorale, specie nella fase finale, che ha assunto i toni di una guerra civile.
Non l’America spaccata di Obama, il presidente che avrebbe voluto riappacificarla.
Ma l’America del rancore violento che guarda in cagnesco l’altra America, un Paese nel quale una ragguardevole quota di elettori considererà illegittima l’elezione di una candidata dipinta per mesi come una delinquente che, secondo il suo avversario e secondo i suoi sostenitori, dovrebbe finire in galera, non alla Casa bianca, o per lo scandalo delle email, o per aver truccato le elezioni o per qualche altra nefandezza.
Una campagna elettorale avvelenata destinata a proseguire dopo l’8 novembre.

2 commenti:

ROBERTO ha detto...

il quadro è perfetto, solo una informazione quando lei indica quella che chiama la sinistra rozza, intende la sinistra - sinistra, o la destra estrema tipo casapound che si è anche lei innamorata di Putin visto la sua incapacità di incidere sul piano interno?

materialismostorico ha detto...

Intendo una parte della sinistra radicale e comunista che per frustrazione e impotenza si butta a destra pur di fare un dispetto agli ex compagni di strada della sinistra moderata, ai quali ha portato il caffé a letto finché le consentivano di partecipare al banchetto anche solo prendendo qualche briciola.