venerdì 18 novembre 2016

Un manifesto del populismo di sinistra, che per fortuna somiglia al caro vecchio nazionale-popolare. Il Nostro Toynbee ci spiega come fare


Appello degli intellettuali per salvare l’Europa: "È tempo di mobilitarsi per fermare i populisti"
PROMOTORI DELL'APPELLO: GUILLAUME KLOSSA, SANDRO GOZI, DANIEL COHN-BENDIT, FELIPE GONZALEZ, ROBERT MENASSE, ROBERTO SAVIANO, DAVID VAN REYBROUCK, GUY VERHOFSTADT, WIM WENDERS
Politici,  uomini d’arte e cultura creano una piattaforma per far sentire la voce dei cittadini nella Ue e prevenire le derive nazionaliste
Rep

«Il protezionismo? Un errore Non è il commercio mondiale che ha tagliato posti di lavoro»
Corriere della Sera

Non lasciamo campo libero ai tanti Trump del mondo 
Crolla il vecchio ordine. La crisi stravolge anche subculture politiche consolidate e sistemi istituzionali tra i più stabili. La situazione è pericolosa, ma offre anche delle opportunità 

Fulvio Lorefice, Tommaso Nencioni Manifesto 18.11.2016, 23:58 
Sul segno reale della vittoria di Donald Trump, le opinioni in merito paiono tanto polarizzate quanto la società che l’ha prodotta. È l’incedere della crisi che sta stravolgendo non solo la vita materiale di milioni di persone, ma anche subculture politiche consolidate e sistemi istituzionali tra i più stabili. Il disfacimento della Obama coalition e l’affermazione del fenomeno Trump proietta una luce globale sul Midi francese già roccaforte del Pcf e ora bacino di consensi per la vandea lepenista; o ancora sull’Emilia fu rossa che alza barricate contro un pugno di donne e bambini migranti. 
La crisi attuale, nella lettura che, per certi versi anticipandola, ne è stata data da Giovanni Arrighi, è la piena epifania della crisi del sistema egemonico della grande fabbrica integrata e imperniato sugli Stati uniti d’America, in realtà già avviata alla metà degli anni Settanta del secolo scorso. Il modello di Arrighi prevede che ogni ciclo espansivo del capitalismo giunga a saturazione per una doppia pressione che si scatena sui profitti: pressione orizzontale dovuta alla concorrenza tra imprese, pressione verticale dovuta alla spinta delle rivendicazioni delle classi subalterne. Si produce dapprima una «crisi-spia» del sistema egemonico, cui il capitale tende a sfuggire tramite il ricorso alla finanziarizzazione. Il boom borsistico dà luogo ad una euforia dei mercati mondiali che rende possibile un momentaneo superamento della crisi (le belles époques). Ma allo scoppio della bolla la crisi esplode con violenza ancor maggiore, con la conseguenza della ripresa del conflitto sociale, questa volta allargato dai subalterni alle classi medie, cioè a quei gruppi sociali che avevano costituito il collante del precedente regime di accumulazione; che avevano fatto sì che esso si instaurasse in termini di egemonia e non di puro dominio. 
Il tema della condizione di questa classe media, delle sue aspirazioni e delle sue frustrazioni, è oggetto di una contesa egemonica all’interno dei Paesi a capitalismo maturo e tra le cosiddette economie emergenti. Nel corso della belle époque le disuguaglianze sono in genere socialmente tollerate, ma nel momento in cui le prospettive di stagnazione si fanno «secolari» non possono più esserlo. A determinare l’esito politico dei processi sociali innescati concorre la capacità dei soggetti organizzati di politicizzare e attrarre a sé nuovi protagonisti del conflitto sociale. Negli Stati uniti di questo primo scorcio di XXI secolo il tema è tornato in auge. Uno studio del 2012, a cura del Pew Research Center, recava l’eloquente titolo The lost decade of the middle class. Il dato econometrico sulle disuguaglianze ha ben presto lasciato il passo alla disputa politica tradizionale tra democratici e repubblicani. Lungi dal rappresentare un’alternativa reale al cosiddetto establishment, Trump ne è una particolare e nuova incarnazione, nel tentativo di sussumere e neutralizzare reali istanze sociali. 
Lo sfarinamento delle classi medie, e l’emergere di nuovi protagonisti, sta introducendo tuttavia mutamenti massicci nei sistemi politici liberal-democratici. Quello dell’impermeabilità dello scontro partitico a quanto si muove nella società non è uno scenario sostenibile. Iniziarono già ad inizio secolo i regimi oligarchici latinoamericani a crollare sotto l’urto della crisi. Seguì la Grecia, con la pratica scomparsa di uno dei pilastri del regime liberale, il Pasok, e di lì a breve saltarono altri sistemi bipolaristi, come quello spagnolo sorto dalla Transizione e quello italiano che aveva caratterizzato la seconda repubblica. E già la V Repubblica francese si avvia a essere sconvolta dall’ondata lepenista. 
Se il bipartitismo made in Usa sarà in grado di assimilare la presidenza Trump e la contemporanea spinta radicale manifestatasi nel corso delle primarie nel sostegno al socialista Sanders è forse ancor presto per dirlo. Di sicuro c’è che la governance neoliberale, l’estremo centro in cui ci sono spazio e risorse per rispondere a tutte le più disparate istanze provenienti da una società frantumata, o meglio ancora inesistente, crollano assieme all’illusione dell’eternità della belle époque. 
«La crisi – annotava Gramsci – crea situazioni immediate pericolose, perché i diversi strati della popolazione non possiedono la stessa capacità di orientarsi rapidamente e di riorganizzarsi con lo stesso ritmo. La classe tradizionale dirigente, che ha un numeroso personale addestrato, muta uomini e programmi e riassorbe il controllo che le andava sfuggendo con una celerità maggiore di quanto avvenga nelle classi subalterne; fa magari dei sacrifici, si espone a un avvenire oscuro con promesse demagogiche, ma mantiene il potere». 
La caduta dei pilastri di un ordine che tramonta può essere gravida di grandi pericoli, ma allo stesso tempo di altrettanto grandi opportunità di riarticolazione politica del sociale. Un terreno del tutto nuovo che le forze democratiche non possono permettersi di lasciare in balia dei tanti Trump che si candidano a monopolizzarlo.

Obama lascia a Merkel lo scontro coi populisti
Il Presidente-Speranza passa la mano alla Cancelliera di Ferro
Francesco Guerrera  Busiarda
L’addio di ieri tra Barack Obama e Angela Merkel non è stato solo la fine di un rapporto tortuoso ma proficuo tra i due leader che hanno dominato la scena politica occidentale degli ultimi otto anni. 
è stato anche l’inizio della Resistenza delle democrazie liberali al fenomeno Trump-Brexit-5 Stelle (e Podemos in Spagna, Marine Le Pen in Francia e l’Alternativa in Germania).
Fianco a fianco, il Presidente americano di origine keniote e la prima ministra tedesca nata nell’Est comunista hanno ribadito la volontà a non tornare indietro su questioni fondamentali quali l’immigrazione, la difesa dell’Europa da parte della Nato e il commercio estero che ha «creato» la globalizzazione. 
Non sarà facile perché i loro valori - i valori delle democrazie occidentali dalla fine della Seconda guerra mondiale - non sembrano più condivisi dai loro concittadini. Non certo dai britannici che hanno votato per la separazione dall’ Unione Europea e non certo dagli americani che hanno preferito l’isolazionismo e il nazionalismo di Trump alla visione più aperta ma meno «rivoluzionaria» di Hillary Clinton.
«Stiamo perdendo la partita», mi ha confidato un veterano del partito democratico e non si riferiva soltanto all’elezione-choc di Trump. Il suo tono - incredulo, triste e preoccupato - la dice lunga sui problemi dei partiti tradizionali, sia a sinistra sia a destra. 
Il tandem Obama-Merkel ha avuto i suoi alti e bassi nel corso degli anni. Il punto più basso fu toccato nel 2013, quando il dissidente Edward Snowden accusò il governo americano di aver ascoltato le telefonate della Merkel e di aver spiato il governo tedesco per anni. La Cancelliera andò su tutte le furie e Obama fu costretto a scusarsi e a giurare che non sarebbe successo mai più.
Anche al di là delle soffiate delle spie, l’intesa personale tra i due non è mai stata perfetta, in parte perché provengono da mondi diversi. L’aria professorale e distaccata di Obama, accompagnata dall’arroganza di chi sa di essere un personaggio storico, non era in sintonia con il pragmatismo ruspante e popolare della Merkel. 
Chi i due leader li conosce bene dice che c’è sempre stata ammirazione e rispetto, ma mai amicizia. Camminavano assieme per necessità più che per amore.
Ora, però, le loro strade si biforcano. Barack uscirà presto di scena, lasciando agli storici il giudizio sulla sua eredità. Angela, a meno di clamorosi voltafaccia, si ricandiderà nel 2017, sperando di non diventare l’ennesimo leader defenestrato da quest’onda di populismo, revanscismo e paura dello straniero. 
Nonostante l’avanzata dell’estrema destra dell’AfD (L’Alternativa per la Germania), la Merkel dovrebbe vincere. Ma dopo Brexit e Trump non si può mai essere sicuri. 
E anche se dovesse rimanere al potere, la Cancelliera potrebbe trovarsi da sola. Il presidente francese Hollande sarà probabilmente cacciato dall’elettorato poco prima delle elezioni tedesche. Il nostro Matteo Renzi è in bilico e potrebbe uscire dal giro già a fine anno. E dall’ altra parte dell’Atlantico, c’è un mogul con molta esperienze di palazzine e televisione ma pochissima dimestichezza con la democrazia.
Obama, la Merkel, ma anche Hollande e Renzi, devono prendersi le loro responsabilità per la rivoluzione politica che li ha colpiti. L’incapacità di «vendere» la globalizzazione ai ceti bassi, la fissazione teutonica sull’austerità anche quando è controproducente, e i giochi economici delle tre carte del Sud Europa, hanno contribuito al senso di alienazione di milioni di cittadini. Se i leader dei nostri Paesi avessero fatto meglio, Trump, Brexit e 5 Stelle sarebbero rimasti nelle loro tane.
Ma visto che siamo di fronte a un cambiamento epocale che potrebbe cambiare il corso della storia dell’Occidente, vale la pena riflettere sulle alternative. «L’Europa», ha detto ieri il primo ministro francese Manuel Valls, «potrebbe morire», se l’elettorato continuerà ad odiare i partiti e politici tradizionali e a votare «contro». 
Le due squadre sono ormai chiare. Da una parte, ci sono rottamatori carismatici e melliflui, come Trump, Le Pen e Grillo. E dall’altra? Be’, ora che il Presidente-Speranza se ne sta andando, dall’altra rimane solo la Cancelliera di Ferro.

Zadie Smith: la vittoria di Trump? L’ultimo sussulto del maschilismo La scrittrice britannica a New York: “Molti adesso si aspettano un’ondata di populismo vincente che coinvolgerà tutta l’Europa” Paolo Mastrolilli Busiarda 17 11 2016
In teoria, Zadie Smith è venuta al St. Jospeh’s College di Brooklyn per presentare il suo nuovo romanzo, che si intitola Swing Time e racconta la storia di due giovani ragazze di famiglie multirazziali innamorate della danza. Siccome però la storia si avvita intorno ai temi della fama e della razza, basta un attimo per scartare dal percorso tracciato: «In America - dice Zadie - abbiamo appena eletto presidente il candidato che aveva come unica qualifica quella di essere il più famoso». Dove naturalmente per fama si intende quella che deriva dal sistema adulatorio delle celebrità a cui appartiene Donald Trump, non quella costruita da Hillary Clinton in politica, nel bene o nel male. Allora, appena Ashley Ford termina le sue domande e passa la parola al pubblico, diventa inevitabile andare dove Zadie si è avventurata per prima.
Come è possibile - le chiedo - che gli Stati Uniti abbiano eletto Presidente una persona che aveva come unica qualifica quella di essere famosa, nel senso peggiore del termine?
«Lasciatemi cominciare dicendo che condivido la vostra disperazione, però la Gran Bretagna e gli Usa sono democrazie mature, dove esistono sistemi di protezione. Spero che questo non sia solo un “wishful thinking” modello anno 1933, una speranza non radicata nella realtà. Però è il mio primo istinto, e in parte ha già dimostrato di essere vero. Infatti in Gran Bretagna il Parlamento ha appena messo un freno al processo della Brexit».
Quindi lei mette l’elezione di Trump nel contesto di una tendenza più ampia?
«Nell’ambiente universitario dove lavoro ci sono molte persone con una visione storica di lungo termine, secondo cui quello che è successo in Gran Bretagna con la Brexit, e ora nelle presidenziali americane, si ripeterà in Austria, Francia e altri paesi. Si tratta di un’ondata globale di populismo, a cui non era possibile resistere. Non sono sicura che le cose stiano così, però è una considerazione interessante».
Anche se fosse vero, resta da capire perché gli elettori hanno scelto come messaggero di questo scontento proprio Trump.
«Si tratta di un fenomeno complesso, che comprende vari aspetti. Sul piano dell’uso della fama e della comunicazione, però, mi ricorda molto Berlusconi. So esattamente perché Berlusconi è diventato primo ministro in Italia, certamente aiutato dal fatto di possedere televisioni, giornali, e mezzi di comunicazione vari. La differenza fondamentale con quanto è avvenuto qui negli Stati Uniti è che Trump non è proprietario di questi strumenti. Non possiede le tv o i quotidiani. Siamo noi che lo abbiamo fatto per lui; noi gli abbiamo dato il potere di controllare i mezzi di comunicazione, prestando attenzione continua a quello che diceva, e amplificando il suo messaggio. Questo è stato molto inusuale. Berlusconi aveva i mezzi, mentre a Trump li abbiamo offerti noi. In altre parole, abbiamo partecipato alla sua vittoria».
Quanto hanno pesato l’elemento razziale e di genere sul risultato, anche considerando che l’avversaria di Donald era una donna?
«Un fattore che credo abbia pesato molto è quello della pillola anticoncezionale. Capisco che possa sembrare folle, ma seguitemi un momento. Diversi storici in Gran Bretagna sostengono che la pillola ha rappresentato la svolta più significativa e fondamentale della storia umana, perché ha cambiato radicalmente le relazioni tra uomini e donne consolidate nel corso dei millenni. Le conseguenze della capacità delle donne di controllare la fertilità sono una marea, continuano ancora oggi, e forse questo è stato l’ultimo colpo della reazione. Tra i sostenitori di Trump, infatti, il desiderio predominante è quello di viaggiare nel tempo, tornare al passato, ad un periodo precedente della storia. Questo desiderio ha in sé elementi legati alla razza, ma anche di più al genere, perché il ruolo delle donne nella loro visione è quello di sposarsi e avere figli. Punto. È una parte centrale nell’ideologia di chi ha spinto Trump alla vittoria. Può sembra folle, ma non è anti storico. Forse abbiamo testimoniato l’ultima reazione alle conseguenze del cambiamento epocale provocato dall’emancipazione delle donne».
L’arte ci salverà, in questi tempi così incerti?
«Da diversi anni l’arte sta crescendo. Negli Anni Novanta, quando c’erano ricchezza e ottimismo, producevamo “Quattro matrimoni e un funerale”. Oggi vedo più partecipazione ed eccitazione. Mi ricorda un po’ E.M. Forster, un autore molto riservato che durante la Seconda guerra mondiale sentì la necessità di esporsi. I tempi cambiano gli artisti: prevedo un’era di interventismo culturale».
BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI


L’EFFETTO TRUMP SBARCA IN FRANCIA BERNARDO VALLI Rep
L’HARAKIRI o seppuku, il taglio del ventre dove risiede l’anima, è il suicidio rituale con il quale si vuole espiare una colpa o sfuggire al disonore, praticato in particolare dai samurai. Ma non soltanto. Cerimonia estrema ormai in disuso, o molto rara, in Giappone, sembra diventata di moda nelle nostre democrazie. L’espressione “di moda” può sembrare un po’ frivola per un rito che non lo è affatto nella versione originaria. Essa si addice invece alla versione occidentale che non implica spargimento di sangue e tanto meno la morte fisica. In gioco è la morte politica. Assomiglia a un harakiri o seppuku soft quello che compiono gli esponenti dei partiti che condannano l’élite, la casta, l’establishment di cui sono o sono stati la massima espressione.
SEGUE A PAGINA 39
UCCIDONO la loro politica, quella che hanno praticato, animato, rappresentato. Uccidono se stessi. A farsi l’harakiri versione occidentale sono loro. Si sono dimezzati come il visconte, metà buono metà cattivo, del romanzo di Italo Calvino. La metà che giudicano cattiva di se stessi la ripudiano, perché impopolare. È come se nel passato al governo ci fossero stati i loro fantasmi, nel frattempo evaporati. Nel migliore dei casi si infliggono un’inconscia o meglio un’ipocrita autoflagellazione tesa a colpire i sentimenti del popolo in collera contro chi governa o ha governato, e soddisfatto di sentirne i mea culpa.
Il linguaggio stile Trump, con variabile violenza, più o meno assordante, fa breccia da tempo, prima ancora che Trump comparisse sulla ribalta politica. È una droga con effetti devastanti nella democrazia che perde via via pezzi di rispettabilità, come un malato i riflessi. Dei discorsi politici si ascolta soltanto la parte che si vuole ascoltare. E i responsabili politici si adeguano.
Ho sotto gli occhi la campagna per le primarie della destra destinate a scegliere, in Francia, il candidato alle elezioni presidenziali del maggio prossimo. Nicolas Sarkozy, impegnato nel tentativo di recuperare la presidenza della Repubblica perduta quattro anni fa, condanna nei comizi l’élite responsabile della crisi che investe la società. Non risparmia nessuno. Attacca «i feudi politici, professionali, giornalistici ». I quali, sia pure addizionati, non esprimono secondo lui la volontà popolare. Di cui si sente il rappresentante. Questi propositi fanno di Sarkozy un samurai incruento che pratica un harakiri affondando una spada virtuale nel ventre del fantasma di se stesso. Tanti leader politici, di varia nazionalità, recitano lo stesso copione. Lui è un ex capo dello Stato, un ex ministro di numerosi governi, un ex sindaco, un fondatore e capo di partito. Nessuno più di lui fa parte dell’élite che copre di improperi. Sarkozy saprà domenica, dopo il primo turno delle primarie di centro destra, se sarà ammesso al ballottaggio della domenica successiva, 27 novembre, quando sarà designato il candidato della destra repubblicana alle presidenziali di maggio. Si parla spesso a vanvera di populismo. Si abusa della parola. Due sono i punti fermi per definirne l’edizione odierna: 1)pretendere di detenere il monopolio della volontà popolare contro tutte le altre espressioni politiche, ritenute disoneste e incapaci; 2) rivolgersi al popolo come se fosse qualcosa di omogeneo, senza diversità, così com’era considerato prima del contratto sociale, da cui è nato lo spirito della democrazia. Nicolas Sarkozy riempie i due requisiti. È quasi esemplare.
Per ritornare nel Palazzo dell’Eliseo deve conquistare i voti del Front National di Marine Le Pen, alla quale i pronostici garantiscono un posto al ballottaggio di maggio, quando sarà eletto il successore del socialista François Hollande. Il candidato della destra repubblicana dovrà con tutta probabilità affrontare la candidata di estrema destra. Sarkozy si prepara alla sfida ma il designato ad affrontare Marine Le Pen potrebbe essere un altro. Gli contende il posto Alain Juppé. Il quale tiene un altro discorso. È l’esponente di una destra non inquinata dal populismo. Lui non si fa l’harakiri. Se Sarkozy cerca di recuperare i voti del Front National adottando un linguaggio simile a quello di Marine Le Pen, a volte superandolo nel populismo, Juppé non trascura gli elettori del centro, e penso non disdegni quelli di sinistra che rischiano di essere orfani (la sinistra essendo fuori gioco), e che lo preferiscono a Sarkozy.
La stagione elettorale francese consente di misurare l’impatto in Europa della vittoria di Donald Trump. La politologia si è mobilitata per scoprire le tracce del virus politico che ha colpito gli Stati Uniti. Dopo l’allarme dei primi giorni, sollecitato dalle dichiarazioni entusiaste di Marine Le Pen, un’ampia indagine d’opinione ha rivelato che il numero dei francesi ansiosi di sconfiggere il sistema, cioè la casta, l’élite, l’establishment, non è aumentato dopo il successo del miliardario americano. Il Front National conserverebbe poco meno di un terzo dell’elettorato (29%), vale a dire meno della destra repubblicana (34-35%) con Alain Juppé candidato. La sinistra riformista è fuori gioco (12-14%) in tutti i casi, che François Hollande decida di ricandidarsi, o che al suo posto ci sia il primo ministro Manuel Valls. Le due destre, quella repubblicana e quella estrema dominano la scena elettorale e il confronto finale avverrà tra i loro campioni.
Ma prima del voto di maggio, ci sono le primarie (aperte) di sinistra e di destra. Quest’ultime possono essere decisive. Domenica prossima quelle di destra dovrebbero lasciare in gara per il posto di candidato alla presidenza Alain Juppé e Nicolas Sarkozy. Insidiati dall’ex primo ministro François Fillon alle loro spalle con i voti virtuali. Il prevalere di Sarkozy, con il suo discorso nettamente populista, rivelerebbe che l’impatto della vittoria di Donald Trump non è poi stato tanto insignificante in Francia. Un duello finale Sarkozy-Le Pen rallegrerebbe il nuovo inquilino della Casa Bianca. Ma Alain Juppé supera per ora (36 a 29) il rivale. Resta tuttavia una grande incertezza, sia per la scarsa affidabilità delle indagini d’opinione, sia per l’ancora incompleto numero dei candidati. Trump o non Trump, anche in Francia, e forse in Europa, si delinea una destra conservatrice che tende a rafforzare la pubblica autorità e il ruolo nazionale. Questi sono gli altri aspetti del populismo del nostro tempo.
©RIPRODUZIONE RISERVATA

Nessun commento: