domenica 20 novembre 2016

Un romanzo sull'India contemporanea



Saghe familiari e lotte di classe nell’India fine ’900 
“La vita degli altri” di Neel Mukherjee si riallaccia alla tradizione letteraria del suo grande Paese per regalarci un affresco potente e insieme ironico

IRENE BIGNARDI Rep 20 11 2016
Sono passati più di trent’anni da quel 1981 che segnò il debutto, nel mondo letterario, di una nuova voce, quella che proveniva dal subcontinente indiano: era Salman Rushdie, col suo I figli della mezzanotte. Non che queste voci non esistessero prima, ma avevano il limite di parlare una delle molte lingue del subcontinente, e raramente, dunque, viaggiavano. Poi sono arrivati Arundhati Roy con Il dio delle piccole cose, Amitav Ghosh con la sua potente Trilogia dell’Ibis, Kiran Desai con I figli della sconfitta, Vikram Chandra con I giochi sacri, Suketu Mehta con Maximum City, Vikas Swarup autore del romanzo Le dodici domande da cui è stato tratto il popolarissimo film premio Oscar The Millionaire. E cento altri potenti narratori.
Una letteratura che ha riempito gli scaffali di libri quasi sempre di qualità, che ha raccontato l’India sotto tutti i suoi aspetti, o quasi, che ha proposto in forma narrativa, con la bravura di Sherazade, come diceva Rushdie, il mare delle storie e della storia indiane in maniera più fascinosa ma non meno eloquente di un trattato storico e sociologico.
Alla potente schiera dei narratori indiani di lingua inglese si aggiunge ora un giovane autore, Neel Mukherjee, con
La vita degli altri: un’opera corale a più punti di vista che racconta un cruciale passaggio della storia indiana, i tardi anni Sessanta, segnati da violente esplosioni rivoluzionarie e dagli inevitabili orrori messi in atto dalle due parti.
Al centro della narrazione c’è la grande e bella casa della famiglia Ghosh a Calcutta — grande e bella sì, ma organizzata in modo da mettere in luce tutte le storture e le ingiustizie del sistema di classe e di caste su cui ancora si basa la società indiana. E quindi ecco i fratelli maggiori ospitati ai piani alti del palazzo di famiglia e il minore in un orribile piano terra.
Ecco la figlia dalla pelle troppo scura che non troverà marito e invecchierà in povertà e nell’amarezza di non essere amata. Ecco il figlio ribelle che sparisce e diventa un insicuro rivoluzionario pieno di dubbi. Ecco i vecchi saggi che guardano agli splendori passati e non vedono arrivare i problemi del futuro. E intorno matrimoni, funerali, rituali, nascite da festeggiare, tragedie, sesso, fame. La fame che provano ogni giorno i più poveri, ma che conosce tutto il paese. La fame del paria Nitai Das, che apre il libro con un gesto di inarrivabile disperazione e violenza e che trova il suo riflesso e compimento nella battaglie degli operai che lavorano nella fabbrica dei Ghosh e sono in sciopero duro dopo un anno senza stipendio — e con la fame.
E sono pagine di urticante ironia e di potente scrittura quelle che raccontano come il capo della famiglia Ghosh raggiunge la sua fabbrica occupata dai lavoratori in un sontuoso macchinone, ultimo resto di uno splendido passato, giustamente aggredito dagli operai in quanto “padrone”, ma in realtà futuro povero.
Mukherjee padroneggia la struttura e la scenografia di questo grosso romanzo con straordinaria abilità, con una ben riconoscibile voce, con il distacco giusto, con la giusta distanza per affrontare la tragica situazione di un paese e di una cultura che hanno quasi paura di crescere e liberarsi dai tutti i lacci della tradizione.
E se c’è appena appena un sospetto di sensazionalismo o di compiacimento voyeuristico nel raccontare i vizi segreti e la pubblica stupidità di alcuni (ad esempio i riti defecatori di un padrone su una serva), Mukherjee sa dove mettere un limite e lasciare il segno, come intrecciare, in unico arazzo, dubbi, storie, emozioni, interrogativi — a cui prudentemente non fornisce risposta.
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