giovedì 17 novembre 2016

Un triste tramonto per gli ultimi due idoli della sinistra italiana

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Obama, un viaggio inutile
Tommaso Di Francesco Manifesto 17.11.2016, 23:59
Un libro bellissimo di Rossana Rossanda si chiama Viaggio inutile. È un racconto, stringente e struggente di persone e storie nella Spagna d’inizio anni Sessanta che racconta l’avvio di un processo sociale e politico che porterà negli anni Settanta al crollo del regime franchista. Quello di viaggio non era inutile, anzi. Questo di Obama in Europa – certo, previsto con un finale diverso quanto ai risultati delle presidenziali – risulta invece decisamente inconcludente e pericoloso. Sembrano vacanze sull’orlo di un vulcano attivo.
Obama a Washington ha annunciato al mondo di «essere preoccupato per quello che farà Trump», ma non era ancora arrivato ad ad Atene che rassicurava con il suo messaggio i governi europei: «Non c’è da preoccuparsi». Qual è la verità? Delle due l’una. Il fatto è che il presidente americano uscente esprime con questa doppiezza, di consapevolezza e intenti, l’intera ambiguità della sua presidenza per rapporto ai destini dell’Unione europea.
Così ha un giusto e bello infervorarsi contro i vincoli di bilancio per appoggiare la malconcia Grecia, arrivata al suo «limite di sopportazione dell’austerità», ha denunciato un appesantito Tsipras. Ma Obama dovrebbe spiegare come in casa sua ha gestito la linea anti-austerità, favorito a dir poco dal fatto che lo stato federale americano gli ha consentito di avere moneta corrente per ogni spesa.
Perché ha abbandonato la riforma della sanità alle assicurazioni private; come ha in parte risolto la crisi americana dell’auto proprio a spese dell’industria automobilistica europea (e italiana). E che dire del fatto che le sanguinose avventure militari Usa hanno prodotto una epocale migrazione di esseri umani in fuga dalle guerre «umanitarie» americane, che si è riversato soprattutto in Medio Oriente e in Europa.
Ma certo la novità è Trump. Del quale dobbiamo o no preoccuparci? Obama fa intendere che l’America non abbandonerà gli «alleati». Vuol dire che presenza, controllo e guida statunitense dell’Alleanza atlantica resteranno. Trump non si discosterà molto dal rivendicare questo ruolo, vuole solo che i governi europei spendano molto di più. La preoccupazione dell’Ue comunque è esplosa: al punto che si avvia, a parole, la Difesa comune. Con il rischio di ritrovarsi tra i costi che appesantiscono e tagliano i già magri welfare delle finanziarie europee, ben due organismi militari sul groppone dei cittadini europei: la Nato ad un prezzo più alto e l’alternativa malcerta di una Difesa europea. Un doppione mostruoso: così acquisteremo non solo 90 F-35 ma chissà quanti cacciabombardieri Eurofighter.
Un fatto è certo: anche Trump rinsalderà l’Alleanza atlantica – e il rapporto con il Sultano atlantico e ribelle, Erdogan – pena la perdita del prezioso mercato della armi. Perché Trump non è un pacifista, sposta l’asse del conflitto armato se necessario altrove e vuole che l’esercito americano «sia il più forte al mondo».
Si accorda con Putin solo perché il presidente russo astutamente approfitta del disastro provocato dalla scelta dell’Amministrazioone Usa (Obama tirato per la giacchetta da Hillary Clinton) di destabilizzare il Medio Oriente, dalla Libia alla Siria. Ma i focolai restano accesi, in Iraq dove per Trump «non bisognava ritirarsi», e fermo restando il sostegno a Israele con la promessa che manterrà, cancellando i palestinesi, di riconoscere Gerusalemme come sua capitale spostando la sede dell’ambasciata Usa.
Ma qual è il lascito di Obama all’Europa. La crisi in Ucraina. Dove l’ingerenza Usa è arrivata al punto di mostrare sulla piazza di Kiev nel 2013 il capo della Cia John Brennan, inviato da Obama ad organizzare i manipolidi insorti, tra loro tantissimi gli estremisti d’estrema destra, neonazisti e xenofobi. Con il risultato dell’allargamento della Nato sempre più a est, grazie ad una sciagurata strategia che porta tank, manovre militari, scudo antimissile, sistemi d’arma offensivi a ridosso del confine russo. Fatto che non fa che aiutare – con le sanzioni che in realtà colpiscono solo l’Europa – proprio il «nemico ritrovato» Putin. E lasciando inoltre sul suolo europeo almeno 300 bombe atomiche che il Nobel della Pace Obama ha pensato bene di ammodernare, pronte all’uso. E che certo Trump non si riprenderà come chiesto più volte dal Parlamento europeo.
Eccolo dunque il viaggio inutile. Se non emergono questi contenuti di verità, al di là della simpatia, ma davvero che è venuto a fare? Se non per una chiamata di correo. Visto il concorso dei governi europei nei disastri in Libia, in Siria e anche in Ucraina.

L’effetto Trump incombe sull’Europa
Stefano Stefanini Busiarda 17 11 2016
Dopo l’America tocca all’Europa. Il 2017 è anno di elezioni. In Francia si candida un outsider; corre senza partito. In Germania il vice presidente della Cdu anticipa che Angela Merkel si ripresenterà per il quarto mandato «per rafforzare l’ordine liberale internazionale». La presidenza Trump in arrivo sta già cambiando i giochi politici europei. Con l’esempio e con la necessità di rispondere.
La candidatura di Emmanuel Macron all’Eliseo avrebbe dovuto trovar preparati candidati che già si affollavano sulla linea di partenza (Hollande, Juppé, Le Pen, Sarkozy, forse Valls). Invece no. Sono costretti a rifare i conti. Oggi un concorrente senza partito e senza grande esperienza in politica va temuto proprio perché non le ha. Trump docet.
Macron non ha l’intenzione di collocarsi nello spazio politico del nuovo presidente, ma di contrastarlo. In Francia è Marine Le Pen a vestire il manto trumpiano. Lo indossava ben prima del voto; ora cavalca l’onda della vittoria. Il sillogismo se Trump vince in America, Le Pen può vincere in Francia resta valido.
La lezione americana è un’altra. Donald Trump ha dimostrato che si può vincere con un’organizzazione improvvisata, con meno risorse finanziarie degli avversari, ignorando la discriminante tradizionale destra-sinistra, fuori dai partiti. Quello repubblicano l’ha osteggiato fino a che ha potuto e l’ha snobbato in campagna, fino a ritrovarselo Presidente.
Sette mesi fa, ancora al governo, il precoce allievo francese aveva creato «En Marche». Non una base all’interno del partito socialista. Per catturare un comprensorio più ampio serve un «movimento». E’ la stessa parola usata, ripetutamente, dal Presidente americano eletto. Non sconosciuta in Italia… Segnala la scelta di far politica uscendo dal seminato partitico.
L’ex ministro dell’Economia fa appello a un bacino centrista e qui i sentieri si separano drasticamente. Non c’è nulla d’istrionico o populista in Macron. Ha troppo buon senso per eccitare le folle: potrebbe essere la sua debolezza elettorale. Con l’eccezione di Giscard d’Estaing, chi parte dal centro non è mai riuscito a scalzare il duopolio di potere francese Ump-socialisti. Oggi però scricchiola. La scommessa di Macron, che ha presentato la candidatura a Bobigny nella cintura industriale di Parigi, nel cuore dello scontento di sinistra attirato adesso da Fronte Nazionale, è di appropriarsi anche di una fascia anti-establishment con un messaggio di giustizia sociale.
La scommessa è azzardata. Alle probabilità di Macron di arrivare all’Eliseo penseranno i sondaggi (a cui credere o meno); il buon indice di popolarità con cui parte (38%) vuol dire poco (certamente meglio del 4% del Presidente in carica). Fatto sta che la sua candidatura rivoluziona la corsa perché può sottrarre consensi a tutti: alla casa madre socialista già in difficoltà; a Alain Juppé col quale concorre per il centro; persino a Marine Le Pen se riporta a casa qualche scontento di sinistra. Le speranze di Sarkozy nelle primarie sono rilanciate. Il finale Juppé-Le Pen è meno scontato.
L’onda Trump e Farage, padre di Brexit, è in arrivo sul continente. E’ un modo diverso di far politica, scavalcando le strutture e cercando il filo diretto con gli umori del pubblico. I partiti tradizionali non li controllano; sono i social media a interpretarli e amplificarli. Le avvisaglie non mancavano (Syriza in Grecia, Pvv in Olanda la lista è lunga) e spesso producono prolungata ingovernabilità, come in Spagna. Destra e sinistra diventano sempre più etichette per gli schieramenti negli emicicli parlamentari. Chi vota guarda ad altro.
L’eccezione tedesca conferma la nuova regola ed è legata alla presa di Angela Merkel su una Germania in buona salute. Il mio principale interlocutore internazionale, l’ha chiamata Barack Obama, che arrivando a Berlino le consegna la torcia della risposta a Trump.
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Le Pen già duella con il “rottamatore” “È solo il candidato delle banche”
Nel quartier generale del Front National è tutto pronto per le presidenziali La leader: “La vittoria di Trump dimostra che il popolo alla fine vince” Leonardo Martinelli Busiarda 17 11 2016
A poche centinaia di metri dalle boutique frequentate da Carla Bruni e le altre, subito dietro l’Arco di Trionfo e le grosse berline che scorrono intorno, noleggiate da sceicchi arabi, ed esattamente sulla stessa strada dove si colloca l’Eliseo (questo al numero civico 55 del Faubourg Saint-Honoré: lei, almeno per il momento, è al 262), Marine Le Pen, la «presidenziabile», come ripetono i suoi collaboratori, ha accolto ieri alcuni giornalisti nel suo nuovo quartier generale, da dove gestirà la campagna per le elezioni, che si terranno fra poco più di cinque mesi. Dimagrita, stretta in un tailleur blu (il suo colore simbolo), all’apparenza serena e responsabile, rassicurante, questa Le Pen «sciurizzata» ha portato in giro i suoi ospiti (compresa una massa informe di fotografi e cameramen) per le stanze di un appartamento borghese, ricordando «per favore, di non rompere i calici dello champagne».
E dire che negli ultimi mesi era sparita: quasi più nei talk-show, a gridare con quel vocione del padre. Mentre la massa informe cerca di catturare la sua attenzione («Marine!», «Marine!»), si gira e spiega che «ormai devo andare su di livello, lo esige la funzione del presidente della Repubblica». «Se fosse per questi qui (ndr, i giornalisti francesi), non parlerei mai del fondo dei problemi, mentre a me piace la politica con la p maiuscola». Assente dai media, ma non dal dibattito che sta trascinando la Francia alle primarie del centro-destra (il primo turno è domenica): tutti i candidati, da Nicolas Sarkozy a Alain Juppé, dicono di «poter battere Marine Le Pen al secondo turno delle presidenziali», che lei dovrebbe conquistare senza problemi.
«Li ascolto e parlano come me - continua la Le Pen -: chiedono la garanzia della legittima difesa per i poliziotti e la decadenza della nazionalità per i jihadisti. Ma sono i primi a non crederci. E poi a loro l’Unione europea non permetterebbe mai di farlo». Dopo il successo del «leave» al Brexit e quello di Donald Trump negli Usa, «quello che il popolo vuole, il popolo può farlo: ecco cosa è stato dimostrato». Proprio in quel momento anche Emmanuel Macron, nella periferia parigina, annunciava la sua candidatura. «Sì, ha vinto anche lui le primarie - dice la Le Pen -, ma quelle delle banche. Il suo è un programma senza un briciolo di modernità. È il candidato di un’ideologia ultraliberale e della mondializzazione selvaggia: che pena».
Michel Field, direttore dell’informazione delle tv pubbliche, ha addirittura inviato una lettera al Csa, l’organismo governativo di regolazione del settore, per lamentarsi del fatto che la Le Pen e altri rappresentanti del Front National non accettino gli inviti delle trasmissioni televisive. «In realtà mando avanti ogni tanto i miei luogotenenti», dice lei. Che sono tutti lì e tutti maschi, capeggiati da Florian Philippot, laureato alla prestigiosa Ena e già alto funzionario di Stato: oggi fine stratega, anche del silenzio politico-mediatico di Marine.
La visita continua. Ecco, sul muro, impresso lo slogan della campagna («In nome del popolo»), «perché in una democrazia come la nostra, senza la volontà del popolo non si fa niente». Poi il logo, la scritta «Marine Présidente», con una rosa stilizzata, «che è segno di femminilità, perché alla fine sarò l’unica donna in lizza». A chi le ricorda che la rosa è pure il simbolo dei socialisti, lei risponde che «questa, però, è blu, il colore della destra. Sì, forse sta a indicare il superamento del solito divario fra sinistra e destra, è una sintesi». Come se tutto questo fosse un caso. E, come se, ancora per caso, i muri si ritrovano tappezzati di uno strano miscuglio di ritratti di Napoleone, foto di Clint Eastwood (uno dei pochi attori ad aver sostenuto Trump) con in mano una rosa blu, Einstein che fa la linguaccia sfocato di blu, Brigitte Bardot giovane in bikini con la rosa blu tra i denti: tutto così cool. Lei, intanto, la «presidenziabile», sorride alla massa informe. Che continua a gridare: «Marine!», «Marine!».
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La Merkel “costretta” a ricandidarsi in nome della stabilità
Obama a Berlino in visita alla cancelliera tedesca: “Su clima e libero scambio non si torna indietro” Alessandro Alviani Busiarda
«Sul libero scambio tra Europa e Usa e sul clima non si torna indietro» è così che Barack Obama, in visita in Germania, e Angela Merkel hanno voluto indicare la linea d’azione e la continuità nonostante l’elezione di Trump a presidente degli Stati Uniti e le spinte populiste che dilagano nel Vecchio continente.
Obama intende anche lanciare un altro messaggio: la cancelliera è oggi il baluardo della stabilità in Europa. E di continuità: Merkel era cancelliera prima dell’arrivo di Obama, sarà cancelliera dopo il suo passaggio di consegne a Trump - e potrebbe restarlo ancora più a lungo: se è vero che non ha ancora svelato se si ricandiderà a un quarto mandato (lo farà a dicembre) e che ieri il presidente della commissione Esteri del Bundestag, Norbert Röttgen, ha fatto un passo indietro dopo aver annunciato alla Cnn che si ricandiderà (era solo «una mia valutazione personale», ha detto alla Bild), è anche vero che, di fronte all’attuale scenario internazionale, Merkel è di fatto costretta a riprovarci. «In tempi di turbolenze e instabilità nel mondo è importante e giusto dare un segnale di stabilità», ha spiegato per motivare il suo sostegno al socialdemocratico Frank-Walter Steinmeier come prossimo presidente della Repubblica. Parole che potrebbero tornare utili per giustificare una sua ricandidatura a cancelliera.
La donna che ha trascorso i suoi primi 35 anni di vita nella Germania comunista è diventata oggi «l’ultimo difensore dell’Occidente liberale» (New York Times) o «la leader del mondo libero» (Timothy Garton Ash sul Guardian). Mentre il 4 dicembre l’Europa potrebbe ritrovarsi per la prima volta, in caso di vittoria di Norbert Hofer in Austria, con un capo dello Stato espresso dalla destra populista e l’anno prossimo il Front National potrebbe salire all’Eliseo, in Germania Angela Merkel non insegue i populisti della AfD sul loro stesso terreno. «Se anche noi inizieremo a orientarci nelle parole e nei fatti a coloro che non sono interessati a trovare soluzioni, perderemo alla fine l’orientamento», ha avvertito al Bundestag a settembre, appena tre giorni dopo che la sua Cdu era stata scavalcata dalla AfD alle regionali in Meclemburgo-Pomerania Anteriore, il Land in cui la cancelliera ha il suo collegio elettorale. Merkel, che si è sempre contraddistinta per uno stile di governo misurato - «presidenziale», direbbero alcuni – non scimmiotta gli slogan dei populisti, nonostante sia ormai da mesi sotto la pressione congiunta dei «Wutbürger», i cittadini che hanno rotto coi partiti tradizionali perché si sentono dimenticati, e della AfD, che nell’autunno del 2017 potrebbe laurearsi terzo partito in Germania.
Resta da capire come Berlino vorrà venire a capo delle sue nuove responsabilità internazionali. Un primo banco di prova sarà la difesa. Già da mesi Merkel insiste sulla necessità di aumentare le spese militari per rispettare gli impegni presi: oggi la Germania destina l’1,2% del Pil alla difesa, cioè 34,3 miliardi, che diventeranno 39,2 entro il 2020.
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E il “traditore” Macron si candida all’Eliseo “Per unire i francesi”
ANAIS GINORI Rep
Anche la Francia ha il suo “rottamatore” che promette di «mandare a casa il vecchio sistema politico». Dopo essersi clamorosamente smarcato dal suo mentore, François Hollande, l’ex ministro Emmanuel Macron ha annunciato ieri la sua candidatura all’Eliseo con un azzardo raro nella storia francese. Macron infatti non è mai stato eletto, non ha dietro a sé nessun partito, solo il movimento lanciato qualche mese fa
En Marche!,
In cammino. Per ufficializzare la sua discesa in campo, ha scelto Bobigny,
banlieue di Parigi, cercando di accreditarsi come outsider, anche se ha molte caratteristiche dell’élite: è diplomato alla prestigiosa Ena ed è stato banchiere da Rotschild.
«Metto la mia candidatura sotto al segno della speranza», ha detto Macron, convinto europeista, con un approccio liberal sia in economia che su temi come immigrazione e sicurezza. L’ex ministro può vantare la giovane età, 38 anni, e un’immagine nuova in un panorama di facce déjà vu. Secondo i suoi sostenitori non è un avventuriero: il movimento conta già 96mila aderenti, ha raccolto 2,3 milioni di euro in donazioni. E soprattutto è uno dei politici più popolari, con una proiezione tra il 15 e il 19% di voti al primo turno delle presidenziali davanti a Hollande che l’ha lanciato. È stato il leader socialista a chiamarlo a sé prima come consigliere all’Eliseo e poi come ministro dell’Economia. Ora nell’entourage di Hollande lo chiamano “Bruto”. «Ho visto dall’interno la vacuità del nostro sistema politico», ha replicato ieri Macron promettendo una «rivoluzione democratica profonda». Tra i suoi modelli c’è Michel Rocard, teorico della deuxième gauche riformista, che a metà degli anni Ottanta sfidò François Mitterrand, candidandosi all’Eliseo. La storia si ripete, forse non del tutto. Macron non sembra disposto a fare marcia indietro (come fu poi costretto a fare Rocard) se Hollande correrà per un bis. L’ex ministro — che vuole «superare vecchie categorie politiche» — ha fatto anche sapere di non voler partecipere alle primarie della sinistra previste a gennaio. Nel partito socialista c’è chi lo accusa di voler dividere la sinistra, provocandone l’eliminazione al ballottaggio delle presidenziali, come accadde nel 2002.
«Oggi — risponde lui — la sfida non è riunire la sinistra o la destra ma i francesi». Macron ha anticipato i tempi, dichiarandosi ieri, per compiere un’azione di disturbo sulle primarie del centrodestra previste domenica. La sua scommessa è intercettare i voti moderati, magari quelli che dovrebbero andare ad Alain Juppé che l’ha attaccato: «È il responsabile del fallimento della politica economica di questa Presidenza ». Dal canto suo, Manuel Valls ha ricordato che il potere richiede «esperienza» e «capacità di superare l’individualismo». Marine Le Pen ha invece parlato di un «ennesimo candidato delle banche e della globalizzazione». Macron può consolarsi: molti nemici, molto onore.
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Da Atene il monito di Obama “La globalizzazione cambi rotta” 
Il presidente Usa prima di fare tappa a Berlino: “Ho tagliato le tasse e creato lavoro” Sulla Nato: “Difenderà gli Alleati”. E l’appello: “Ci vuole una crescita equa e inclusiva”ETTORE LIVINI Rep
Obama sceglie Atene, «la culla del pensiero occidentale », e una lectio magistralis sulla democrazia per difendere a 360° il bilancio del suo mandato alla Casa Bianca e per punzecchiare con qualche colpo di fioretto, senza mai nominarlo direttamente, Donald Trump. «Io e il presidente eletto non possiamo essere più diversi», ha ammesso nel suo ultimo discorso ufficiale. «Ma la democrazia Usa è più grande delle singole persone. E per questo farò il possibile per garantire una transizione serena». Concetto che non gli ha impedito di mettere qualche puntino sulle “i”: «C’è chi dice che oggi sia più efficiente governare Paesi con governi autoritari (ogni riferimento alla Russia di Vladimir Putin è tutt’altro che casuale,
ndr). Io per necessità ho lavorato con tutti, anche con nazioni dove ci sono le elezioni, ma non il diritto al dissenso. I nostri valori ci impongono però di sostenere chi crede nell’autogoverno. Per questo l’Ucraina deve poter decidere del suo destino ». Se non fosse possibile, «sono certo che la Nato, che non è mai stata così forte, risponderà alle richieste di difesa di ogni alleato — ha detto senza troppi giri di parole — come hanno sempre fatto tutti i presidenti, democratici e repubblicani».
Chiuse le partite personali, Obama ha parlato di democrazia con due obiettivi molto pratici: ribadire i risultati dei suoi otto anni nello Studio Ovale e chiedere «una correzione di rotta della globalizzazione». La stella polare del suo mandato — ha ricordato — «sono stati i bisogni dei cittadini e il tentativo di favorire la crescita riducendo le disuguaglianze». I numeri — ha sostenuto — sono lì a dimostrare che si è mosso nella direzione giusta: «Ho tagliato le tasse per la classe media aumentandole ai ricchi, ho creato 15 milioni di posti di lavoro, il reddito nel 2015 è cresciuto al tasso più alto dal ’68 e la povertà è ai minimi», ha snocciolato con precisione ragionieristica. «Ma non solo: ho salvato Detroit obbligando i big dell’auto a fare auto pulite, ho dotato Wall Street di una riforma anti- abusi, ridotto le differenze di stipendio tra uomini e donne e garantito il diritto alla salute di tutti».
Unico problema: tutto ciò non è bastato a far vincere Hillary Clinton. Come mai? «Perché modernizzazione e tecnologia hanno lasciato problemi irrisolti. I lavoratori devono guadagnare di più. È inammissibile che il numero uno di un’azienda incassi in un giorno quello che il suo dipendente prende in un anno. L’educazione deve essere accessibile a tutti e serve una rete sociale per garantire futuro a tutti».
Il no alla globalizzazione — ha riconosciuto — «è comprensibile perché chi vede un domani incerto tende a fare retromarcia ». Ma la risposta giusta non è demonizzarla, ma correggerne le storture: «Viviamo in un mondo connesso, i lavori del futuro saranno diversi da quelli del passato. Dobbiamo guardare avanti, non indietro. La democrazia ci deve guidare verso una crescita equa e inclusiva». Come? «Facendo in modo che i benefici vadano a tutti e non alle multinazionali, che non ci sia chi non paga le tasse o manipola i buchi di mercato. Chiedendo a tutti i paesi standard alti di sicurezza sul lavoro e tutela ambientale ».
L’Europa — ha concluso — è la prova che il dialogo è la ricetta giusta: «È chiaro che oggi ha dei problemi — ha ammesso — ma l’Unione europea è forse uno degli esempi più straordinari di applicazione della democrazia della storia dell’uomo e ha garantito diversi decenni senza una guerra». Ora è il momento di voltare pagina: «Il mondo non è mai stato così ricco e sicuro come adesso», ha concluso. «Ma dobbiamo imparare ad affrontare tutti insieme temi generali come l’ambiente su cui è necessario prendere decisioni collettive». Quasi una candidatura — ora che ha perso il lavoro alla Casa Bianca — a tenere i fili di questo dialogo sovranazionale.
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LA DEMOCRAZIA CHE CI LASCIA OBAMA
ROBERTO TOSCANO Rep
LA “lectio magistralis” di Barack Obama sulla democrazia meriterebbe di essere inclusa nei programmi del primo anno dei corsi di Scienze politiche, e soprattutto in quelli di Educazione civica. Impeccabile la sua definizione della democrazia e del suo valore universale contro il relativismo dei sostenitori delle alternative violente e autoritarie, che sostengono, in modo sostanzialmente razzista, che l’aspirazione degli esseri umani di contare e di essere rispettati è solo “occidentale”.
SEGUE A PAGINA 28 FLORES D’ARCAIS, LIVINI E ZUCCONI ALLE PAGINE 6 E 7
MA ANCHE della sua problematicità, delle sue imperfezioni, delle sue contraddizioni. Il pubblico che lo ha ascoltato ad Atene, nella sede della Fondazione Niarchos, era prevalentemente giovane: vi è da chiedersi se ascoltavano il professor Obama o il presidente Obama.
Pronunciato alla vigilia della sua uscita dalla Casa Bianca, il discorso merita di essere incluso — assieme a quelli pronunciati nel 2009 al Cairo sui rapporti con l’islam e a Praga sul disarmo nucleare — in un’antologia dell’“Obamapensiero”. Il pensiero di un intellettuale in politica, di un personaggio che come pochi ha saputo volare alto affrontando in modo mai banale, mai demagogico, mai superficiale i grandi nodi del mondo contemporaneo.
Ma invece di essere il coronamento di una straordinaria, incredibile avventura politica (quella del figlio di un africano e una sessantottina Wasp che arriva alla presidenza in una società ancora profondamente razzista come quella americana), il discorso di Atene risulta in realtà decontestualizzato. La sua apologia della democrazia, nello stesso tempo apologia dei propri otto anni da presidente, viene infatti pronunciata in un momento in cui i principi democratici e pluralisti da lui esposti sono sotto attacco e spesso in ritirata in tutto il mondo. Un momento in cui la democrazia spesso è ridotta al solo rituale delle elezioni, senza il rispetto delle minoranze, della libertà di stampa, della divisione dei poteri. Un momento in cui la disuguaglianza smentisce un po’ dovunque le promesse della democrazia. Un momento in cui vincono le risposte semplici ai problemi complessi — come clamorosamente dimostrato dalla vittoria di Donald Trump.
Sulla Cnn qualcuno ha commentato a caldo il discorso di Obama definendolo «un messaggio a Trump». Un’interpretazione legittima, soprattutto nel monito a non immaginare che si possa andare indietro e nell’appello a ricordarsi che la democrazia è più importante e più permanente delle singole opzioni politiche e delle singole personalità. Ma forse si tratta dell’aspetto più discutibile del discorso. Certo, nelle sue funzioni istituzionali Obama non poteva non rispettare le regole del gioco e rendersi disponibile per un processo di transizione fra le due presidenze. Va detto però che quello che definisce Obama non è soltanto il rispetto delle regole tipico di un professore di diritto costituzionale ed un estremo “fair play”, ma una profonda fede — da democratico “da manuale” — nella possibilità del dialogo con l’avversario. Obama è certamente progressista nei fini, ma profondamente centrista sul terreno del metodo politico. Ed è proprio qui la vera e propria tragedia politica cui stiamo assistendo. È stato sconfitto da chi può solo essere definito non solo come “anti- Obama”, ma antidemocratico e illiberale. Qualcuno che rispetta soltanto il potere, addirittura rivendica lo spregio delle regole e dei limiti etici, qualcuno che esalta non la conoscenza ma l’ignoranza («amo quelli che sono poco istruiti» — ha detto durante la campagna elettorale). Obama ha cercato di dialogare con l’opposizione repubblicana in un momento in cui il Gop — Grand Old Party — è nelle mani di una combinazione di neoliberali non pentiti e di estremisti fascistoidi. Che Trump sia diventato il candidato repubblicano è una sorpresa solo per chi non aveva capito cosa fosse il Tea Party.
La sconfitta di Obama è la sconfitta di un intero progetto di democrazia liberale e capitalismo sociale. Non è facile immaginare in che modo si possano mettere le basi di una ripresa politica e morale, ma certo la democrazia — la democrazia egalitaria, eticamente forte, sostanzialmente partecipativa oltre il semplice rituale delle elezioni — non potrà prevalere contro i suoi nemici, sia quelli violenti che quelli fraudolenti, sulla sola base della superiorità intellettuale. All’intelletto servirà aggiungere la passione politica: quella che, nell’impossibilità di scrutare il suo animo, non sappiamo se sia davvero mancata a Barack Obama, ma che certamente non ha saputo trasmettere.
La campana, comunque, suona anche per noi. Anche nell’attuale fase postimperiale dell’America la presidenza americana rappresenta un punto privilegiato da cui si proiettano a livello globale potenti influenze politico-ideologiche. Pensiamo a Kennedy, che ha lanciato a livello mondiale, ben al di là della sua stessa sostanza politica, un forte messaggio di progresso e apertura e a Reagan, che con Thatcher ha promosso l’egemonia neoliberista che risulta ancora oggi dominante a livello globale nonostante le dure repliche della più recente storia economica.
Vi è quindi da temere che, dopo la parentesi Obama, Trump riesca a lanciare, dal potente pulpito della Casa Bianca, un messaggio reazionario e non semplicemente conservatore che rafforzerà ulteriormente e renderà difficilmente reversibile la spinta antidemocratica già evidente: da Putin a Erdogan, da Modi ai movimenti xenofobi in Europa. Non sarà facile evitare che il discorso di Obama ad Atene passi direttamente agli archivi della storia senza avere un impatto sulla politica del nostro tempo. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

Obama-Merkel, ultima cena “Se fossi tedesco la voterei” A Trump: “Non ceda a Putin” TONIA MASTROBUONI Rep
BERLINO. L’esordio era stato in salita. Otto anni fa, Angela Merkel non gli aveva concesso il palcoscenico della Porta di Brandeburgo: Barack Obama era un senatore in corsa per la Casa Bianca, carismatico e promettente, ma pur sempre un candidato. Due mandati presidenziali e sei tête-à-tête in Germania dopo - non privi di altri momenti difficili, come quando emerse lo scandalo del telefonino di Merkel spiato dal Nsa - non si potrebbero immaginare due alleati più affiatati. Come ultimo tributo, nella tappa tedesca del suo ultimo viaggio da presidente in Europa, Obama ha confessato che se fosse tedesco voterebbe per lei e l’ha definita «un’amica meravigliosa» e un’alleata «sincera », «la più affidabile e stabile di tutti».
E l’ombra del neopresidente populista Donald Trump sembra essersi già allungata come una nube tossica sulla lunga lista di temi trattati durante i colloqui degli ultimi due giorni - dalla Siria alla Russia, dalla minaccia terroristica all’accordo transatlantico Ttip, dai cambiamenti climatici alla Nato. Il leader repubblicano minaccia di soffocare molti accordi cruciali, a cominciare da quello sul clima o quello transatlantico sul commercio. Merkel ha sottolineato che «non si può tornare all’era pre-globalizzazione »; ma Trump non ne sembra troppo convinto. Prima di passargli il testimone, Obama ha voluto sottolineare che è importante avere rapporti con Vladimir Putin, ma lo è anche «essere fermi sulla difesa» dei valori occidentali; che sono certamente il patrimonio di Obama e Merkel, che Trump non ha fatto altro che picconare nel lunghissimo anno delle presidenziali.
E tanto per accentuare il clima da crepuscolo degli dei che rischia di contagiare il vertice di stamane allargato ai leader dei maggiori Paesi europei - nella Berlino iperblindata da due giorni sono attesi Matteo Renzi, François Hollande, Theresa May e Mariano Rajoy - Obama non ha fatto che ripetere, in modo quasi ipnotico, che «non possiamo dare per scontate» una serie di conquiste degli ultimi decenni, persino «i nostri sistemi di governo e il nostro stile di vita».
Il G6 di oggi ha un’agenda definita anche in modo che i cinque europei non diano segni di divisione - i temi sono l’immigrazione, i focolai di crisi in Siria e in Iraq, il Ttip, infine crisi ucraina e i rapporti con la Russia - ma è evidente che l’incontro sarà soprattutto colto come un’occasione per tastare il terreno del dopo-Obama, per sentire dal presidente uscente cosa ci si potrà aspettare dal suo successore.
Ciò che Obama pensa di Trump ormai lo può dire solo indirettamente. Ma il senso è palese. Il presidente americano ha ricordato che decenni di democrazia e di ordine mondiale liberale «ci hanno regalato una prosperità mai viste prima». E ha definito l’Unione europea «una delle maggiori conquiste globali». La democrazia «è duro lavoro », ha sottolineato, rispondendo anche alla domanda di un cronista che gli chiedeva delle manifestazioni anti-Trump: «Non sarò io a dire ai manifestanti di tacere».
Caratterialmente meno propensa ai superlativi, Merkel è sembrata sincera nel suo ringraziamento a Obama, definito «un amico». La cancelliera ha apparentemente fatto una concessione all’antica richiesta americana di un maggiore impegno nella Nato, affermando che la Germania spenderà di più per la Difesa. Ma si tratta anche di un primo messaggio distensivo verso Trump. In campagna elettorale il leader populista ha minacciato di non difendere più i partner dell’Alleanza atlantica che investano troppo poco per armi e eserciti. La preoccupazione di perdere l’alleato storico contro la minaccia russa è motivo di vera angoscia, di qua dell’Atlantico.
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