giovedì 10 novembre 2016

Una nuova ondata reaganiana, una nuova rivoluzione conservatrice

























Distruggere democrazia e Welfare, scatenare guerre e carestie in mezzo mondo, produrre populismo reattivo su scala industriale e poi gridare "al lupo! al lupo!"

Come nel caso di Brexit, gli organi di manipolazione del ceto medio benestante, istruito e riflessivo non accettano che la realtà sia diversa dai propri interessi e desideri. E preferirebbero cambiare il popolo, se non addirittura abolire anche sul piano formale quel suffragio universale che nel contesto odierno è divenuto già così scarsamente significativo su quello materiale (il Presidente del Mondo è stato eletto in una tornata elettorale caratterizzata da un elevato astensionismo e condizionata dalla impareggiabile potenza economica dei due candidati).
Esemplare, in questo senso, la reprimenda classista nei confronti della vile e bizzosa "classe operaia bianca". La quale avrebbbe tradito la storica alleanza con la cordata ben educata dell'establishment per premiare la cordata alternativa. Quella cioè, non meno feroce, che invece di perder tempo a coprire le differenze di classe e l'egemonismo imperialistico con la retorica dei diritti civili e dell'armonia delle differenze culturali ama palpare direttamente culi e mettersi le dita nel naso in pubblico.
Il prelievo del comando politico diretto da parte del plutocrate Trump - il quale sinora lo aveva delegato ora ai Democratici, ora ai Repubblicani - è il sintomo di una profonda crisi della democrazia moderna. Rappresenta cioè un diverso modo di slittare a destra, ovvero la conseguenza della sconfitta di lunga durata delle classi subalterne che trascina e incattivisce la piccola borghesia impoverita. Tanto che stupisce e amareggia l'entusiasmo di certi settori, che un tempo erano stati di sinistra ma ora compensano l'impotenza acquisita con il culto dell'immediatezza e dei muscoli altrui.
A prescindere dal merito, tuttavia, è ormai chiarissimo come sia proprio questo atteggiamento delle elites dominanti, nel quale il presunto universalismo si rovescia nell'empirismo volgare, a sollecitare per reazione l'emergere delle pulsioni più particolaristiche. Proprio quei settori che si affannano a denunciare il "pericolo populista" producono perciò, in realtà, lo scenario postdemocratico peggiore.
Nella loro prospettiva, l'unico problema è che in tale scenario - che tutto sommato condividono, perchè nonostante le fantasie di vendetta sociale è uno scenario nel quale le classi dominanti sguazzano alla grande - vorrebbero comandare loro.
Non vale neanche la pena di ricordare che la sinistra alla Sanders, che si adatta al ruolo di portatrice d'acqua della sinistra di governo (inutilmente, per giunta), è completamente subalterna e funzionale a questa deriva e non rappresenta un'alternativa.

Cosa doveva fare Sanders per dimostrare di non rappresentare in nessun modo un'alternativa al clan Clinton e per far mettere il cuore in pace agli italiani, orfani di leadership e di modelli esotici, che ancora lo guardano come se fosse la Madonna del Soccorso?
Forse invitare tutti i propri elettori a votare per Hillary?
In generale, chi si consola pensando che Sanders avrebbe potuto prevalere su Trump non ha capito proprio niente del terremoto che è avvenuto nel capitalismo globale e dei sommovimenti che per molti decenni agiteranno le società occidentali.

Per un'alternativa, se ne riparla forse tra 20 anni, se mai qualcuno capirà che il Novecento è finito e le cose sono cambiate [SGA].

Cuba inizia grandi esercitazioni militari
Bastione 2016. Forti timori del governo di Raúl Castro per l'arrivo di Trump alla Casa bianca
L'AVANA Manifesto  
Forte preoccupazione del governo di Raúl Castro, sconcerto nella popolazione che nel processo di normalizzazione dei rapporti con gli Stati Uniti vede le basi per un miglioramento della vita di tutti i giorni. L’elezione di Donald Trump a 45° presidente degli Stati uniti, con il pieno controllo del Congresso e con la rielezione in Florida proprio dei più attivi esponenti dell’anticastrismo, rappresenta per l’isola una vera doccia fredda.
Negli ultimi giorni di campagna elettorale, in Florida, Trump aveva detto chiaramente che «le concessioni» attuate da Barack Obama «hanno beneficiato solo il regime dei Castro»; e che si trattava di «ordini esecutivi», non leggi, e dunque eliminabili una volta insediatosi alla Casa bianca al posto di Obama. Su queste prese di posizioni, Trump ha ricevuto in Florida – dove vivono quasi due milioni di cubano-americani – il 49,1% dei voti contro il 47,7% di Hillary Clinton, conquistando uno Stato chiave per l’elezione. Non solo, la «pancia» della Florida ha rieletto i più noti e attivi avversari delle misure decise da Obama, il senatore Mario Rubio, i deputati Ileana Ros-Lethinen, Mario Díaz Balart, Carlos Curbelo, tutti schierati contro la normalizzazione dei rapporti con Cuba fino a quando vige «la dittatura dei Castro».
La mancanza di reazioni ufficiali ieri mattina all’Avana rendeva evidente la grande preoccupazione del governo e il timore che Trump possa attuare una marcia indietro. Non è che il vertice politico si attendesse molto da Clinton. Più volte nella campagna presidenziale Usa esponenti politici cubani avevano ripetuto che le aperture di Obama rappresentavano il guanto di velluto della vecchia politica nordamericana per un cambio di governo nell’isola e che la il presidente americano non aveva usato tutte le sue prerogative per svuotare di contenuto l’embargo. Ma era chiaro che il vertice politico puntava sul fatto che Hillary si era espressa a favore della continuazione della linea di Obama. Intanto Josefina Vidal, responsabile cubana delle trattative con Washington, si augura che il dialogo continui nel rispetto dell’eguaglianza e della sovranità nazionale. Ma sull’attesa delle vere intenzioni di Trump la dice lunga l’annuncio fatto ieri dalle Forze armate rivoluzionarie (Far) che il prossimo 16 inizieranno le esercitazioni militari «Bastione 2016», che dureranno fino al 20 e coinvolgeranno anche le organizzazioni popolari di difesa delle rivoluzione. Le manovre hanno lo scopo di «preparare le truppe e la popolazione a affrontare differenti azioni del nemico» e avranno luogo in tutta l’isola con eccezione della regione di Guantanamo di recente devastata dall’uragano Matthew.
Ovviamente si tratta di esercitazioni previste da tempo, ma la coincidenza tra il concetto di «guerra popolare» e una possibile marcia indietro di Washington nella normalizzazione dei rapporti con l’Avana rischia di ricordare i tempi del confronto con gli Usa. Tanto più che in una parte del vertice politico, compreso il lider maximo Fidel, continua a ritenere che gli Stati Uniti non rinunciano alla loro politica imperiale – come dimostrano la politica aggressiva verso il Venezuela, l’appoggio al golpe parlamentare di Temer in Brasile, la critica alla rielezione di Ortega in Nicaragua, per limitarsi ad alcuni esempi- e che l’Avana deve rimanere il centro della resistenza latinoamericana.



Pechino si congratula con Trump, ma rimane in allerta per le mosse nel Pacifico
Cina e Trump. Trump, infatti, è un’incognita e come tale non gode della massima fiducia da parte della leadership cinese. Pechino, però, ha sempre dimostrato di sapere dialogare con qualunque capo di stato e regime e dunque non esiterà a trovare un canale di dialogo anche con l’amministrazione Trump
 Manifesto 1023:59
La Cina e il presidente della Repubblica popolare cinese Xi Jinping si sono congratulati con il nuovo inqulino della Casa bianca Donald Trump, auspicandosi che i rapporti tra i due paesi possano essere positivi, tanto per Cina e Usa, quanto per il resto del mondo. Dietro questa liturgia consueta, si nascondono interrogativi e riflessioni molto importanti da parte di Pechino e non solo.
LA POSIZIONE DI TRUMP sull’Asia, infatti, è articolata e non è semplicemente riassumibile nelle previste tattiche isolazioniste del nuovo presidente americano. L’ordine del ragionamento è di due tipi: Pechino riflette innanzitutto sui vantaggi o gli svantaggi che potrebbero derivare dalla presidenza Trump, tenendo conto del tracollo democratico, dal punto di vista interno, degli Stati uniti. In questo senso si confermano i dubbi che Pechino ha nei confronti delle democrazie occidentali.
LA VITTORIA DEL TYCOON confermerebbe quelle posizioni cinesi che criticano l’elitismo di media e società civile americana. Ora che Trump ha sconquassato il panorama politico, c’è da credere che – almeno da questo punto di vista – Pechino abbia un minimo di soddisfazione. Ma naturalmente queste considerazioni non bastano a fare stare tranquilli i funzionari del Partito comunista. Trump, infatti, è un’incognita e come tale non gode della massima fiducia da parte della leadership cinese. Pechino, però, ha sempre dimostrato di sapere dialogare con qualunque capo di stato e regime e dunque non esiterà a trovare un canale di dialogo anche con l’amministrazione Trump.
SOLO A QUEL PUNTO si potranno capire le reali intenzioni del nuovo presidente americano e in che modo Pechino troverà un interlocutore con uno stile più o meno diverso da quello che avrebbe contraddistinto Hillary. Ci sono dei ragionamenti in corso: come confermato da una fonte interna al team dei consiglieri di Trump, il miliardario punta e non poco sull’Asia, soprattutto dal punto di vista dell’ampliamento della disponibilità navale.

ALLA FACCIA DELLA PAVENTATA politica isolazionista, Trump ha ben presente l’importanza dell’area del Pacifico per le tratte commerciali americane e pare intenzionato a difenderle. A questo proposito di sicuro a Pechino hanno letto tanto il documento Republican Platform on Asia, quanto l’articolo apparso due giorni prima delle elezioni su Foreign Policy da parte di due advisor di Trump, Alexander Gray e Peter Navarro, nel quale si espongono le linee di politica estera del tycoon con un chiaro riferimento all’Asia.
In primo luogo, è scritto, «Trump non sacrificherà mai gli interessi nazionali americani, per interessi di politica internazionale»; ovvero, Trump non rifarebbe mai l’errore di consentire l’ingresso nel Wto alla Cina. In secondo luogo, «Trump perseguirà una politica estera nella quale la strategia pacifica deve derivare dalla forza», come valeva per Reagan. Quindi la Marina militare avrà uno scopo preciso: difendere i 5 mila miliardi di dollari che entrano nelle casse Usa dal traffico marittimo asiatico.

PER PECHINO questa non è una buonissima notizia. L’idea iniziale era la seguente: una presidenza Trump si pensava avrebbe portato molti paesi asiatici a preferire una sorta di protezione sicura, benché sgradita, ovvero quella cinese, di fronte all’imprevedibilità di Trump. Ma più passano le ore più appare chiaro che, in fondo, tutta questa imprevedibilità Trump potrebbe non averla.
Rimane aperto – infine – il discorso più specificamente commerciale: Trump si è espresso più volte contro le esportazioni cinesi, minacciando dazi e manovre clamorose. Si tratta di un punto molto delicato, sul quale ad ora Pechino non si è espressa. Del resto i leader comunisti sanno che almeno fino a 2017 inoltrato, niente cambierà. Sarà tutto tempo utile per cercare di capire quale tipo di America si troveranno di fronte.

Duma applaude Trump, ma Putin e Mosca sono scettici
Reazioni della Russia. La Russia si è detta «pronta a fare la sua parte per riportare le relazioni con gli Stati uniti su una traiettoria di sviluppo sereno»
 Manifesto 10.11.2016, 23:59
Sia Mosca sia Kiev hanno salutato la vittoria di Trump. Messaggi di rito, come quelli cinesi, che celano motivazioni ben diverse. Forse, tanto Poroshenko, quanto Putin, sono preoccupati ma per motivi diversi. Il presidente ucraino si starà sicuramente chiedendo se Trump, che non ha certo condannato il ritorno della Crimea a Mosca, darà il supporto che avrebbe fornito Clinton alla causa ucraina. Putin dal canto suo – dopo avere indicato chiaramente i suoi dubbi sulla figura politica di Trump – si starà chiedendo che tipo di approccio avrà il nuovo presidente su questioni aperte come la Siria e su altre più generali come la Nato.
Come sottolineato in un interessante articolo sul Guardian, se è vero che sul terreno della Nato (e della Siria) Putin si aspetta potenzialmente più spazio di manovra con Trump, il presidente russo non è certamente una persona che ama le sorprese, le incertezze. Clinton sconfitta è una bella soddisfazione, ma ritrovarsi di fronte Trump potrebbe non essere positivo, in fin dei conti. Anche perché Trump, benché presentatosi come «anti sistema» finirà per raccogliere, soprattutto in politica estera, qualche esponente repubblicano e dovrà vedersela con un Congresso pieno di falchi. Quindi tanto il discorso sulle sanzioni, che molti nella Duma applaudente l’elezione di Trump sperano di vedere annullate, così come per quanto riguarda la centralità della Russia nel panorama mondiale, si tratta di ambiti che rimangono decisamente in bilico.
Del resto alcuni osservatori, come quelli citati da Julia Joffe su Foreign Policy la scorsa settimana, avevano già evidenziato che Putin il risultato auspicato l’aveva ottenuto portando la Russia al cuore del dibattito della campagna per le presidenziali degli Stati uniti.
E la vittoria di Trump non se l’aspettavano neanche in Russia, come conferma l’editoriale apparso su Izvestia a commento della «vittoria di Hillary» scelta dalle élite, con Trump a gareggiare «solo per creare l’illusione di una competizione». Effetti del fuso orario, ma non solo.
Infine – dunque – la Russia si è detta «pronta a fare la sua parte per riportare le relazioni con gli Stati uniti su una traiettoria di sviluppo sereno», ha affermato Vladimir Putin, sottolineando la disponibilità di Mosca anche «a percorre il suo tratto della strada non facile» che separa i due paesi. «Abbiamo ascoltato le dichiarazioni dall’allora candidato alla presidenza in favore del rilancio delle relazioni fra Russia e Stati uniti», ha detto Putin, esprimendo l’auspicio «per un lavoro congiunto per allontanare le relazioni bilaterali dal punto critico e affrontare questioni cruciali dell’agenda internazionale e identificare risposte efficaci alle sfide della sicurezza globale».


Ha convinto gli americani che si può marciare verso una Nuova Frontiera diversa da quella kennediana


Pugno di ferro coi clandestini e niente più fondi per la lotta contro l'inquinamento

Libertà religiosa, sanità e tutela della vita: il cardinale americano "benedice" il tycoon


Nel giorno del voto lo scrittore ha parlato della corsa presidenziale come la più brutta campagna elettorale della sua vita




Eugenio Fatigante giovedì 10 novembre 2016 Avvenire


Vittorio E. Parsi giovedì 10 novembre 2016 Avvenire 

Vincitori e vinti di un doppio referendum

Perché Trump? Cause e conseguenze dell’elezione di The Donald richiederanno molto tempo e molta attenzione per essere davvero riconosciute, interpretate e valutate in tutta la loro dirompente portata. A caldo, prevalgono termini come shock, stupore, trauma, rabbia, parole cariche di emotività, le uniche in grado di dar conto, il giorno dopo, della vittoria del magnate di Manhattan.

Forse più semplice tentare di capire, nell’immediato, le ragioni della sconfitta di Hillary Rodham Clinton, se non altro perché già da mesi, ormai, fin dalle iniziali primarie democratiche, si discuteva delle serie e numerose vulnerabilità della sua candidatura.
È che non è andata in scena, martedì, solo una competizione tra due candidati ma una sorta di due referendum paralleli e convergenti, una suggestione che per certi versi si riflette nel pareggio tra i due nel voto popolare (con una prevalenza di Clinton).

Un referendum sulla candidata democratica, che era innanzitutto alla prova del «suo» stesso elettorato, parti consistenti del quale riluttanti se non proprio critiche nei suoi confronti, compreso lo stesso elettorato femminile, soprattutto le giovani elettrici (che, infatti, l’ha votato in misura minore rispetto al voto dato a Barack Obama nonostante la debordante misoginia del suo avversario). E oggi appare ancora più evidente la saggezza, di cui pure si è discusso più volte quanto inutilmente, di una candidatura alternativa, quella di Bernie Sanders, o perfino quella del vice-presidente Joe Biden, entrambi, in modo diverso, in grado di parlare alla classe operaia bianca, il blocco elettorale decisivo nel successo di Trump.
Un referendum su The Donald, un personaggio sul quale è stato scritto di tutto, da ogni angolazione, per arrivare a non sciogliere davvero l’enigma del suo successo, non solo nel perimetro del suo elettorato, ma ben oltre, anche in territori elettorali che, sulla carta, dovevano essergli preclusi. Come si è detto, ci vorrà del tempo per capire i motivi più profondi della sua elezione. Si dovranno studiare i voti reali, i flussi, la demografia elettorale. Ma intanto si può dire che
Hillary ha perso il suo referendum, The Donald l’ha vinto.
Di sicuro, non bastano espressioni generiche per descrivere quanto avvenuto, come «America profonda», «l’altra America», «pancia», «viscere», «antipolitica». È un lessico che allude a motivazioni prevalentemente emozionali, che non riconoscono ragioni di merito, benché discutibili, in chi ha scelto Trump e/o ha voltato le spalle a Clinton. È la scorciatoia del complesso mediatico-politico che si sente spiazzato dal voto e che non riesce a prendere in considerazione le ragioni di un elettorato che, non a caso, Clinton ha definito «deplorevole». Una connotazione che probabilmente ha contribuito in modo rilevante alla sua sconfitta, perché è suonata come la conferma di un atteggiamento altezzoso e giudicante, di chi si sente superiore al popolino ignorante. «Deplorable» è diventato lo slogan sulle t-shirt e sui gadget dei fan più eccitati e attivi del candidato-miliardario, il Leit motiv dell’ultimo scorcio della campagna di Trump.
Già, una parte dell’elettorato che ha scelto Trump l’ha fatto perché si è sentito non solo trascurato e abbandonato dalla casta di Washington, ma anche da essa disprezzato e perfino demonizzato.
I risultati dei due «referendum» andranno dunque analizzati per bene, ciascuno nella propria specificità e nel loro intreccio. Anche per dar modo al Partito democratico di non finire nel tritacarne di una sconfitta storica. E di preparare la sua rifondazione, se c’è ancora una base perché sia possibile.
Questo dubbio nasce dal fatto che la sconfitta di Hillary è intimamente collegata con lo snaturamento del suo partito. Barack Obama – ed è questo il massimo limite del suo doppio mandato – non si è occupato del partito, della sua organizzazione, della sua capacità di parlare alle nuove generazioni, non ha neppure tentato, come aveva promesso di fare, di innestargli, per rinnovarlo, le forze del movement che aveva spinto la sua candidatura presidenziale nel 2008. Il Partito democratico è rimasto così, anche dopo la sconfitta allora di Hillary, un’organizzazione sottoposta al rigido controllo dell’apparato clintoniano. Che si è rivelato un tappo fatale. Ha bloccato il ricambio generazionale, ha fermato ogni ed eventuale aspirante alla Casa Bianca che non fosse la logorata Hillary Clinton, non rassegnata alla sconfitta del 2008 e determinata alla rivincita. Come può, dunque, una forza politica che ha legato il suo destino a quello di una candidata presidenziale due volte sconfitta ritrovare le ragioni forti per una sua ripresa?

È anche vero che il partito rivale, il Grand Old Party, non è messo meglio. La vittoria di Trump, che pure ha avuto un effetto di trascinamento nella riconquista della maggioranza repubblicana nei due rami del Congresso, non deve far dimenticare il duro scontro tra l’establishment e i big del partito e Donald Trump. In effetti, il candidato presidenziale si è trovato a combattere su due fronti, contro Hillary e contro il grosso del suo stesso partito.
Certo, la vittoria rende più facile la riconciliazione. Ma, visti i precedenti, forse è più facile immaginare che il conflitto tra Trump e i vari Cruz, Rubio, McCaine, Ryan troverà nuove ragioni per essere riattizzato, specie se il nuovo presidente dovesse conservare lo stesso piglio che l’ha contraddistinto come candidato. Il piglio di chi si rivolge direttamente alla «gente» saltando le mediazioni politiche consuete, anzi fregandosene con compiacimento e con ostentato disprezzo per la casta politica.

Nei prossimi giorni, quando ci sarà il passaggio nella terra di nessuno tra la presidenza uscente e quella entrante, si capirà che tipo di commander in chief entra in scena dopo Obama. La transition è una fase delicata e complicata, sono un paio di mesi e più che consentono di studiare lo stile del nuovo inquilino della Casa Bianca. A gennaio, al momento dell’investitura ufficiale, si saprà già se la più avvelenata campagna elettorale della storia presidenziale americana continuerà, in altre forme, sotto la nuova amministrazione. Il tono conciliatorio delle prime dichiarazioni di Trump non inganni. The Donald non ha una varietà di registri. Anche da presidente continuerà a stupire. Con la differenza che da ora in poi è nelle sue mani anche il codice dell’arsenale nucleare americano.


La vittoria di Trump campanello d’allarme per i governanti europei
L'analisi. Perché il «profeta» Michael Moore parla anche a noi

Illudersi che a fronte di una società che non è mai stata così spaccata dalla disuguaglianza come oggi non ci sarebbe stata, prima o dopo, una reazione che avrebbe terremotato il quadro politico è stato ridicolo. Qualcuno, quando Trump ha iniziato la sua avventura, aveva cominciato a rendersene conto.
Michael Moore, fra gli altri, che da mesi aveva previsto che «quel miserabile ignorante e pericoloso pagliaccio» sarebbe stato «ahimé – il nostro presidente». Ma il regista che meglio di ogni altro ha dipinto la società americana contemporanea aveva guardato i volti scuri dei blue collars espulsi dalle fabbriche della Rust Belt (il Michigan – lo stato della mitica Detroit – il Wisconsin, l’Ohio, la Pennsylvania); le facce non più annerite dei minatori resi obsoleti dalle sacrosante misure ecologiche mai però accompagnate da progetti di rioccupazione; la nuova miseria dei più giovani, spappolati nel precariato e privati della speranza dell’avanzamento sociale. L’establishment no, di questa umanità che pur ha gridato la sua protesta nelle piazze americane assieme a «Occupy Wall Street» – l’1% di straricchi che si affianca al 99% dei sempre più impoveriti – non ne ha tenuto conto, annebbiati dalla arrogante sicurezza che ha finito per rimuovere ogni loro preoccupazione.
Eppure era chiaro che stava salendo una domanda non rinviabile di cambiamento, una svolta comunque sia. Che aver introdotto, come Obama ha cercato di fare, un po’ di assistenza sanitaria non sarebbe bastato (i sondaggi ci dicono che il 77% degli elettori l’ha considerata troppo gracile ); né è bastato l’aver adottato una politica economica che ha abbassato il tasso di disoccupazione ma ha continuato a chiudere nel ghetto della marginalità milioni di giovani. L’establishment – democratico ma anche repubblicano – è diventato il nemico da colpire perché titolare del capitalismo finanziario globale, quello che dà via libera alle scorribande del capitale e desertifica intere regioni un tempo ricche di industria. Né vale giustificarsi dicendo che i guai sono derivati dalla crisi, perchè la crisi non è piovuta dal cielo, è stata generata da questo sistema.
È la radicalità di questa voglia di svolta, di una risposta convincente che si faccia carico per davvero della sofferenza che dilaga e che non è stata colta dall’establishment democratico (e repubblicano, preso a sua volta alla sprovvista dal candidato che gli è toccato sostenere).
Avevano ragione i più acuti commentatori del New York Times quando, in occasione delle primarie, scrissero che aveva più probabilità di vincere le elezioni l’«estremista» Bernie Sanders che la moderata Hillary Clinton. Il vecchio socialista era infatti riuscito a mobilitare per la prima volta una larga area giovanile che generalmente diserta il voto e forse non ha alla fine ubbidito il suo leader quando, restata in campo solo la Clinton, li ha invitati a far convergere il proprio voto su di lei. E così si sono sottratte energie alla mobilitazione democratica, smentendo l’ortodossia corrente secondo cui si vince se si sta al centro.
Il voto americano è un buon campanello d’allarme per i nostri governanti europei, siano democristiani o socialdemocratici come in Germania, socialisti come in Francia, o (non so più bene cosa siano) quelli italiani. O questa voglia di rottura viene raccolta da una sinistra capace di proporre una svolta seria, o, se non c’è, alimenterà il peggio. E c’è poco da arricciare il naso se il loro paladino in America lo hanno trovato in chi viene irriso da tutte le più rispettabili figure del paese per la disinvoltura con cui infrange le norme del politically correct con volgarità che noi diremmo da «carrettiere» e che in America chiamano «da spogliatoio». Le prossime elezioni in Francia rischiano di ripetere lo scenario americano, con qualche variante culturale. Anche lì, comunque, coi soliti pericolosi devianti ingredienti che accompagnano da sempre le proteste rimaste prive di uno sbocco politico realmente alternativo: il razzismo innanzitutto.
Varrebbe la pena che su tutto questo riflettessero quelli che hanno sempre paura della destabilizzazione. (Adesso, ove vincesse il NO). Il pericolo c’è se il disagio sociale non trova canali politici adeguati e democratici. In Italia l’antipolitica ha per fortuna trovato uno sbocco meno perverso nel M5stelle (che solo Scalfari può pensare di equiparare a Trump!). Con tutta la mia distanza dalla cultura dei grillini so bene che sono altra cosa, anche rispetto a Marine Le Pen e soci. Ma occorre ben altro e bisogna avere il coraggio di continuate a provare a costruire un’alternativa di sinistra. Adeguata.


Quelle urne sommerse da sessismo e razzismo
Elezioni Usa. Un commento inedito della filosofa statunitense a proposito dell'elezione presidenziale di Donald Trump. «Con quali condizioni abbiamo a che fare se l’odio più scatenato e la più sfrenata smania di militarizzazione riescono a ottenere il consenso della maggioranza?»
 Manifesto 10.11.2016, 0:01
Due sono le domande che gli elettori statunitensi che stanno a sinistra del centro si stanno ponendo. Chi sono queste persone che hanno votato per Trump? E perché non ci siamo fatti trovare pronti, davanti a questo epilogo? La parola «devastazione» si approssima a malapena a ciò che sentono, al momento, molte tra le persone che conosco. Evidentemente non era ben chiaro quanto enorme fosse la rabbia contro le élites, quanto enorme fosse l’astio dei maschi bianchi contro il femminismo e contro i vari movimenti per i diritti civili, quanto demoralizzati fossero ampi strati della popolazione, a causa delle varie forme di spossessamento economico, e quanto eccitante potesse apparire l’idea di nuove forme di isolamento protezionistico, di nuovi muri, o di nuove forme di bellicosità nazionalista. Non stiamo forse assistendo a un backlash del fondamentalismo bianco? Perché non ci era abbastanza evidente?
Proprio come alcune tra le nostre amiche inglesi, anche qui abbiamo maturato un certo scetticismo nei riguardi dei sondaggi. A chi si sono rivolti, e chi hanno tralasciato? Gli intervistati hanno detto la verità? È vero che la vasta maggioranza degli elettori è composta da maschi bianchi e che molte persone non bianche sono escluse dal voto? Da chi è composto questo elettorato arrabbiato e distruttivo che preferirebbe essere governato da un pessimo uomo piuttosto che da una donna? Da chi è composto questo elettorato arrabbiato e nichilista che imputa solo alla candidata democratica le devastazioni del neoliberismo e del capitalismo più sregolato?
È dirimente focalizzare la nostra attenzione sul populismo, di destra e di sinistra, e sulla misoginia – su quanto in profondità essa possa operare.
Hillary viene identificata come parte dell’establishment, ovviamente. Ciò che tuttavia non deve essere sottostimata è la profonda rabbia nutrita nei riguardi di Hillary, la collera nei suoi confronti, che in parte segue la misoginia e la repulsione già nutrita per Obama, la quale era alimentata da una latente forma di razzismo.
Trump ha catalizzato la rabbia più profonda contro il femminismo ed è visto come un tutore dell’ordine e della sicurezza, contrario al multiculturalismo – inteso come minaccia ai privilegi bianchi – e all’immigrazione. E la vuota retorica di una falsa potenza ha infine trionfato, segno di una disperazione che è molto più pervasiva di quanto riusciamo a immaginare.
Ciò a cui stiamo assistendo è forse una reazione di disgusto nei riguardi del primo presidente nero che va di pari passo con la rabbia, da parte di molti uomini e di qualche donna, nei riguardi della possibilità che a divenire presidente fosse proprio una donna? Per un mondo a cui piace definirsi sempre più postrazziale e postfemminista non deve essere facile prendere atto di quanto il sessismo e il razzismo presiedano ai criteri di giudizio e consentano tranquillamente di scavalcare ogni obiettivo democratico e inclusivo – e tutto ciò è indice delle passioni sadiche, tristi e distruttive che guidano il nostro paese.
Chi sono allora quelle persone che hanno votato per Trump – ma, soprattutto, chi siamo noi, che non siamo state in grado di renderci conto del suo potere, che non siamo stati in grado di prevenirlo, che non volevamo credere che le persone avrebbero votato per un uomo che dice cose apertamente razziste e xenofobe, la cui storia è segnata dagli abusi sessuali, dallo sfruttamento di chi lavorava per lui, dallo sdegno per la Costituzione, per i migranti, e che oggi è seriamente intenzionato a militarizzare, militarizzare, militarizzare? Pensiamo forse di essere al sicuro, nelle nostre isole di pensiero di sinistra radicale e libertario? O forse abbiamo semplicemente un’idea troppo ingenua della natura umana?
Con quali condizioni abbiamo a che fare se l’odio più scatenato e la più sfrenata smania di militarizzazione riescono a ottenere il consenso della maggioranza?
Chiaramente, non siamo in grado di dire nulla a proposito di quella porzione di popolazione che si è recata alle urne e che ha votato per lui. Ma c’è una cosa che però dobbiamo domandarci, e cioè come sia stato possibile che la democrazia parlamentare ci abbia potuti condurre a eleggere un presidente radicalmente antidemocratico. Dobbiamo prepararci a essere un movimento di resistenza, più che un partito politico. D’altronde, al suo quartier generale a New York, questa notte, i supporter di Trump rivelavano senza alcuna vergogna il proprio odio esuberante al grido di «We hate Muslims, we hate blacks, we want to take our country back».
(traduzione di Federico Zappino)

I democratici travolti dall’odio contro le élite   
Usa 2016. Intervista a Thomas Frank, autore di saggi sul voto della working class statunitense
 Manifesto 10.11.2016, 20:23
Fin dall’inizio della campagna elettorale più violenta e divisiva che gli Stati Uniti abbiano conosciuto nella loro storia recente, Thomas Frank aveva messo in guardia quanti sembravano pronti a liquidare la minaccia rappresentata dal tycoon newyorkese, prima vincitore a sorpresa delle primarie repubblicane e quindi della stessa corsa alla Casa Bianca, solo evocando le posizioni razziste del personaggio e il suo atteggiamento aggressivo.
Per questo storico, editorialista dell’Harper’s Magazine, apprezzato analista della politica americana e autore di uno studio che ha fatto scuola sul modo in cui la destra ha sedotto i lavoratori bianchi nel corso degli ultimi trent’anni (What’s the Matter With Kansas?, Henry Holt and Co., 2004), a sostenere l’ascesa di Donald Trump sono state infatti prima di tutto le ansie e le preoccupazioni di «millions of ordinary americans», tanti «piccoli bianchi» appartenenti alla working class come al ceto medio declassato e impoverito e vittima della crisi.
Un’analisi da cui conseguiva tutta la forza e le pervicacia del fenomeno a cui Trump ha dato voce. E questo anche perché, come afferma lo stesso Frank nel suo recente Listen, Liberal: Or, What Ever Happened to the Party of the People? (Metropolitan Books, 2016), il Partito democratico e Hillary Clinton non sono sembrati in alcun modo interessati a rivolgersi a questa fetta della popolazione statunitense.
Oltre 15 anni fa ha descritto come nel Kansas, dove lei è cresciuto, al pari di gran parte del paese, i repubblicani siano stati in grado di conquistare fin dalla fine degli anni Settanta una solida egemonia sull’elettorato popolare, spesso di tradizione democratica. Come è accaduto?
L’espediente utilizzato è ciò che negli Stati Uniti è andato sotto il nome di «guerre culturali», vale a dire l’evocare tutta una serie di temi, come la difesa della famiglia tradizionale, la lotta all’aborto, i «valori religiosi», un sottofondo di retorica razziale, con i quali contrastare i democratici accusati di essere i portatori di un’altro stile di vita, quello delle metropoli, del meticciato.
In realtà fin da allora mi sono reso conto che proprio i simpatizzanti dei movimenti ultraconservatori esprimevano per questa via anche un forte odio di classe: identificavano quelli che consideravano come gli «amorali» con le élite del paese. In altre parole sembravano esprimere una critica sociale travestita però da battaglia sui valori.
Il paradosso è che poi i Repubblicani hanno utilizzato questi milioni di voti dei lavoratori bianchi per condurre le loro politiche antisociali tutte volte a tagliare le tasse ai più ricchi e a ridurre il welfare…
In effetti la sfiducia e il rifiuto nei confronti dell’establishment presso le classi popolari bianche ha continuato a crescere visto che una volta abbandonato il Partito democratico per i Repubblicani fin dalla fine degli anni Settanta ci si è accorti che questi ultimi inseguivano solo il loro progetto di liberalizzazione dell’economia senza curarsi dei bisogni di questa parte dell’elettorato.
Poi però, con questa campagna elettorale le cose sono cambiate con la candidatura di Trump, che ha puntato tutto sulla possibilità di recuperare la rabbia e il sospetto cresciuti anche verso i vertici della destra.
Per conquistare i suoi supporter il miliardario ha spiegato, «avete ragione ad essere arrabbiati, il Partito repubblicano non ha fatto niente per voi, ma ora che ci sono io le cose cambieranno, bloccheremo i trattati sul commercio internazionale e riporteremo a casa i posti di lavoro». E lo stesso ha fatto per vincere le presidenziali.
Al netto delle proposte razziste di Trump o del fatto che molti dei suoi seguaci siano dei fanatici, questa volta i lavoratori bianchi hanno pensato di aver trovato il «loro» candidato?
Per certi versi credo proprio di si. Sulla scorta di un’inchiesta condotta dal sindacato Afl-Cio tra alcune migliaia di lavoratori bianchi della zona di Cleveland e Pittsburgh, spesso ex elettori democratici, emerge come le priorità per chi si diceva pronto a votare per Trump sono riassunti dalla promessa di «buoni» posti di lavoro. Centrali sono stati cioè i temi economici e, solo al terzo posto l’immigrazione. Allo stesso modo, molti dichiaravano di apprezzare il fatto che il candidato repubblicano aveva annunciato che avrebbe preso a pugni quei dirigenti industriali che hanno provocato o permesso la chiusura o il trasferimento all’estero di una fabbrica o di un’azienda.
Il vero problema, come si è visto con l’esito finale del voto, è che però tutto questo è avvenuto mentre, come spiega l’interrogativo che accompagna il suo ultimo libro, non si capisce bene che fine abbiano fatto fare i liberal al «partito del lavoro», cioè a quei democratici che hanno rappresentato per oltre un secolo il mondo della working class….
La risposta è molto semplice. Il Partito democratico ha deciso già da qualche decennio che non sarebbe più stato la forza politica che rappresentava i lavoratori, quanto piuttosto la classe media superiore, i laureati piuttosto che gli operai.
Hillary Clinton è una centrista interessata a difendere e a rappresentare ciò che viene definito come l’industria del sapere, la new economy e il libero scanbio. In una stagione segnata dalla crisi sociale come questa, i democratici si considerano come il partito dei vincitori, non quello dei perdenti. Alla convention democratica Hillary Clinton ha dichiarato «siamo anche il partito della classe operaia»; solo che è difficile crederle visto che alle sue spalle, seduti nei posti più cari della sala, c’erano i generosi donatori di Wall Street che l’hanno così caldamente sostenuta.
In questo senso l’onda di rabbia e di malcontento che ha portato Trump è finita per apparire insuperabile…

Si, ma anche il risultato di scelte molto precise fatta dalla nostra «sinistra». I democratici hanno voltato le spalle alle preoccupazioni della working class per diventare la tribuna dei professionisti illuminati.
Così, anche se Trump fosse stato alla fine sconfitto, con l’elezione di Hillary Clinton che cosa sarebbe potuto accadere? Non sarebbe semplicemente cambiato granché rispetto al recente passato. Certo, una presidenza democratica qualche cosa avrebbe fatto, ma niente di significativo per la working class.

Le diseguaglianze sociali avrebbero continuato a crescere, mentre la situazione economica avrebbe potuto migliorare leggermente, ma nell’insieme la situazione del paese non poteva evolvere in modo significativamente positivo per la working class. Così, un altro Trump, magari più accorto nei toni sarebbe apparso. Perciò, in qualche modo il disastro a cui assistiamo oggi si sarebbe prodotto di qui a quattro anni, con le prossime presidenziali. Ora, di fronte a questa situazione spaventosa c’è da chiedersi se qualcosa comincerà finalmente a cambiare tra i democratici come la candidatura di Bernie Sanders aveva fatto sperare alcuni mesi fa.

In fuga da Hillary, la sconfitta delle donne
Elezioni Usa. Gli scandali sessuali e le accuse di molestie del neo-presidente sono stati considerati come dei «peccati» su cui si poteva passare sopra
NEW YORK manifesto 
«Lo so, non abbiamo ancora frantumato quel soffitto così alto e così duro. Ma un giorno qualcuno lo farà -speriamo il più presto possibile». Nel discorso in cui ha ufficialmente riconosciuto la sua sconfitta, Hillary Clinton ha ritagliato uno spazio particolare per le donne («nulla mi ha resa più orgogliosa di essere il vostro campione»; «e alle bambine che stanno guardando: non dubitate mai il vostro valore, il vostro potere e il vostro diritto all’ opportunità di perseguire e coronare i vostri sogni»).
Anche se Clinton, durante la campagna, aveva inizialmente resistito a battere troppo sul tasto della «prima donna alla Casa bianca», la sua vittoria avrebbe ovviamente avuto quel valore simbolico. Non a caso, a Rochester, al nord dello stato di New York, fin dalla mattina presto di martedì, centinaia di persone si erano messe in fila davanti alla tomba dell’eroina del suffragio universale, Susan B. Anthony, la sua lapide progressivamente coperta di adesivi che dicevano «ho votato». Anche nell’antro enorme e cavernoso del Javits Center dove, in uno slancio di mal riposto ottimismo (è uno degli spazi chiusi più grossi di New York), era stata prevista la festa d’incoronazione di Hillary, le donne erano tantissime, giovani in particolare, il volto deformato da un’incredula smorfia di dolore, mano a mano che la notte elettorale andava avanti. A Times Square, intorno a mezzanotte, quando dagli schermi luminosi le notizie cominciavano a diventare veramente preoccupanti, alcune piangevano.
«Ho portato una ragazza gratis fino a Brooklyn, perché non aveva soldi ma voleva arrivare in tempo per votare», mi ha detto un taxista arabo che non credeva alle notizie che arrivavano dal suo i-Phone, sintonizzato su un canale radio («No. Not that guy -non quel tipo», ripeteva scuotendo la testa). Come prevedibile, la maggioranza delle donne americane ha votato per Hillary (54% contro 42%, secondo gli exit polls). Quello che era meno prevedibile è che la forbice non fosse più ampia – infatti, non molto più ampia di quella tra le donne che hanno votato Obama e quelle che hanno votato Romney nel 2012. L’esperienza con Berlusconi avrebbe dovuto allertarci del rischio che «lo scandalo sessuale» scoppiato con l’arrivo dell’ormai mitica registrazione dello scambio tra Trump e Billy Bush («you grab them by the pussy») potesse turbare più gli opinionisti e i residenti delle due coste che gli abitanti della flyover zone. Che evidentemente hanno considerato le volgari spacconate di Trump, e le accuse di molestia sessuale rivoltegli da parecchie donne, dei peccadillos su cui si poteva passare sopra. Anche lo spettro di una Corte suprema che mette fuori legge l’aborto o blocca il cammino verso la parità tra sessi sul posto di lavoro non è servita a spaventarle di più.
In un battibecco di mesi fa, che ha contrapposto, da un lato, la femminista storica Gloria Steinmen e l’ex segretario di stato Madeleine Albright e dall’altro alcune femministe millenials, era emerso che – giustamente – le nuove generazioni non si sarebbero sentite in dovere di votare Hillary Clinton solo perché era una donna. Alla fine, le donne giovani, quelle delle minoranze, e quelle con un titolo di studi, si sono schierate in massa per lei. Molte altre no. E si potrebbe dire che le identity politics che hanno dominato gran parte dell’attività e del discorso politico nell’America degli ultimi anni, nel contesto queste elezioni siano state anche un boomerang: mobilitando il voto nei termini della lotta di classe, il messaggio razzista e discriminatorio di un narcisista miliardario è risultato più unificante, «inclusivo» di quello di Clinton. Un paradosso.
Ma, se nel 2016 è più che legittimo rivendicare il diritto di scegliere un candidato aldilà del suo gender, quanto il fatto che Hillary Clinton sia una donna abbia pesato sulla sua sconfitta sarà una cosa di cui si discuterà nelle prossime settimane, e nei prossimi anni. A questa domanda, chiunque abbia seguito queste elezioni, senza sposare automaticamente l’ignobile atteggiamento di superiorità morale con cui una vasta porzione dell’establishment mediatico, di destra e di sinistra (Clinton è stata descritta sulle pagine di questo giornale come «un’anziana signora grassa e con le rughe») sa cosa rispondere. In un bel Op-Ed uscito sul New York Times due settimane fa, Susan Faludi, ci ha ricordato che la demonizzazione di Hillary Clinton non è nata con il suo appoggio per la guerra in Iraq, Bengasi, con il falso scandalo delle mail o i discorsi pagati da Goldman Sachs, bensì venticinque anni fa, con il suo arrivo alla Casa bianca. «Uno dei misteri del 2016 è l’intensità con cui Clinton è detestata. Non solo razionalmente, ma visceralmente, instintivamente», ha scritto Faludi. Per capire quel mistero, bisogna capire il significato di Clinton nella storia politica americana. «Non me ne staro’ a casa a cuocere biscotti» aveva detto Hillary, alla vigilia dell’elezione di suo marito. La vittoria di Trump -e del suo orribile retaggio anni novanta fatto dei Rudy Giuliani e dei New Gingrich- oggi spedisce Hillary a cuocere biscotti a Chappaqua. In questo senso, il voto di martedì è non solo una sconfitta per l’America. Lo è in particolare per le donne.





La mia notte da incubo nel texas dei cattivi 
Joe R. Lansdale  Busiarda
L’elezione del presidente degli Stati Uniti è in corso mentre sto scrivendo, e sarò maledettamente felice quando sarà finita. A condizione che non finisca con la vittoria di Donald Trump, anche se penso che ci sia più di qualche possibilità che questo accada. Sarò sincero, sono un democratico e sono di parte, lo ammetto apertamente. Non mi piace nulla di Trump o della sua campagna, ma continuo a pensare alla Gran Bretagna che ha scelto di uscire dall’Ue. Non era previsto che accadesse, ma è successo, quindi sono un po’ nervoso perché qui negli Stati Uniti c’è un situazione simile.
Quando avrò finito questo articolo saprò chi sarà presidente ed è una considerazione che fa riflettere.
Se Trump riesce a vincere, e se vuol davvero mettere in atto le idee orribili che ha espresso: stiamo parlando di vietare l’ingresso agli immigrati in base alla religione e all’etnia, della costruzione di un muro lungo il nostro confine meridionale per tenere fuori i messicani, della rinuncia agli accordi sul cambiamento climatico, del divieto di abortire e di mettere conservatori di destra a capo della Corte Suprema.
E se anche Hillary dovesse vincere, qui le elezioni e la loro copertura mediatica potrebbero essere cambiate per sempre. Inoltre è cambiata anche la condotta dei candidati. Si è passati da accese discussioni su fatti a scontri urlati tra esperti pagati, a proposito di quello che qualcuno intendeva dire veramente quando si trattava di una palese menzogna, e la retorica non è molto meglio tra i candidati stessi.
Anche se Trump perdesse, sarà interessante vedere se accetterà la sconfitta, l’affronterà da persona adulta e riconoscerà di buon grado la vittoria dell’avversaria, o si trasformerà in un lamentoso bambino con i capelli arancione che tenterà di convincere le sue «truppe» che il voto era truccato e che l’unica via da seguire è quella di fare ostruzionismo, o peggio. Si potrebbe anche arrivare alla violenza, considerando l’amore per le armi che è scoppiato come una malattia nel nostro Paese. L’alternativa può essere ancora più sgradevole. Vince e fa un discorso pieno di vanterie e autoincensamenti e alienazione.

Per chi, come me, è anti-Trump nel Texas orientale, circondato da fan di Trump, questa elezione è stata un po’ come stare nel mio cortile a guardare mentre si avvicina un furioso incendio e tutto quello che ho in termini di difesa è un tubo da giardino con scarsa pressione dell’acqua. Posso solo sperare che il vento cambi, o che io e il mio triste, piccolo tubo flessibile veniamo rapidamente consumati rapidamente dal fuoco arancione di Trump perché l’idea di vederlo prestare giuramento con addosso uno di quei ridicoli cappellini Make America Great Again è troppo difficile da sopportare.
I repubblicani giustificano il loro voto per Trump dicendo che entrambi i candidati hanno dei difetti. C’è chi è imperfetto, e poi c’è chi è totalmente inetto e inadatto alla carica e quest’ultimo è il suo caso. Lui finisce raramente una frase e spesso riempie la pause ripetendo le parole, parla di vincere «alla grande» e di fare grandi cose senza dirci come farebbe. 
Eppure, per quanto evidentemente inadeguato, è riuscito a convincere un sacco di gente, la maggior parte bianchi, che sembrano amare il cambiamento fine a se stesso, cosa che mi ricorda uno dei vecchi detti di mio padre su come fosse pronto a fare qualcosa anche se era sbagliato.
Ma il loro modo di protestare è come mettere la testa nella bocca di un coccodrillo perché vuoi mostrare all’altro tipo di che pasta sei fatto. Sono disposti a votare per il cambiamento, anche se farlo significa mandare alla presidenza un demagogo narcisistico e meschino. 
E’ il partito repubblicano di sempre, ma ora si mostra apertamente per quello che è stato fin dalla metà degli Anni Sessanta, il partito del privilegio bianco; il partito che vuole indietro la vecchia America, qualunque cosa significhi. Ma una cosa è certa, la vecchia America includeva una popolazione di cittadini privati dei diritti civili, neri, latini, donne, gay e transgender e asiatici non se la passavano così bene.
Eppure, eccoci qui con i sondaggi più ravvicinati di quanto previsto, sondaggi che sbucano da ogni parte e francamente sembrano poco affidabili. Ci sono segnali che il voto anticipato dei neri e degli ispanici abbia favorito Hillary, ma ci sono anche segnali che molti elettori di Trump hanno atteso fino al giorno delle elezioni per fare la loro mossa, e la campagna di Trump sembra confidare nel fatto che ci sono un mucchio di bianchi suoi elettori che devono ancora essere identificati, e francamente, ho paura che sia così.
Va bene. Iniziano ad esserci i primi risultati e farò una pausa per vedere che succede.
E via via che si procede, sembra che lo staff di Trump abbia visto giusto, e i miei peggiori timori si realizzino. I suoi elettori si stanno facendo avanti in gran numero, e sento un nodo allo stomaco. La quantità di voti per Trump rivela che tutti i pronostici sono sbagliati, soprattutto negli stati che sembravano sicuramente aggiudicati alla Clinton. Ora invece sono sicuramente per Trump, che è primo, e questo è incredibile - tanto nel voto popolare come in quello elettorale.
Questo è il genere di cose che dà a un liberale come me la sensazione di aver perso il mio Paese. Spero che prima che la notte finisca Clinton ce la faccia. Per il momento, mi fermo a metabolizzare l’accaduto. Non sono proprio in stato di shock, perché sapevo che era possibile, ma sono stordito. 
Sono passate un paio d’ore e ora sembra che Trump sia vicino alla vittoria. Là dove prima si diceva che aveva poche possibilità per la Casa Bianca, ora si dice che Clinton ha uno stretto sentiero, e questo è spaventoso, perché sta prendendo anche il Senato e la Camera, il che significa che i conservatori controlleranno tutto.
Sembra che Trump, l’outsider, per quanto palesemente impreparato per la presidenza, sia riuscito a vendere al pubblico l’idea che è esattamente ciò che serve a Washington. Vedendo i numeri crescere e sentendo parlare gli esperti - i sapientoni che ora sanno perché Trump ha vinto, ma solo poche ore fa erano certi che Clinton ce l’avrebbe fatta - diventa chiaro che il voto sta andando a Trump, senza dubbi. In realtà, un sacco dei suoi stanno già cantando vittoria nei notiziari televisivi.
Dopo che tutti i pezzi grossi, il presidente Obama, Michelle Obama, Joe Biden, suo marito Bill Clinton, oltre a numerosi personaggi famosi, si sono spesi per Clinton, ha vinto la campagna piuttosto disorganizzata e molto poco convenzionale di Trump. Ricevo e-mail e tweet da altri democratici, commenti che esprimono incredulità, e anche shock e paura. Alcuni repubblicani che conosco sono ugualmente sorpresi.
Proprio ora Donald Trump è stato dichiarato presidente eletto.
Sta per iniziare il suo discorso di accettazione. I sostenitori di Clinton sono andati a casa, e lei deve ancora ammettere la sconfitta, in attesa che finisca la conta dei voti, ma la verità è che le sue possibilità di vittoria sono esigue come il percorso di una lumaca su un blocco di sale. Deve sentirsi a pezzi perché sono sicuro che, come molti dei suoi sostenitori, si sentiva sicura di farcela. Negli ultimi giorni sul suo volto si leggeva la fiducia. Pensavo anch’io che avrebbe vinto anche se sono il tipo che preferisce sempre dubitare. Questa elezione è qualcosa che oltrepassa il senso comune, o forse dovrei dire che manca di senso comune. E’ tribale.
Ci sono fattori che hanno influito sulla sconfitta, senz’altro, l’Fbi con i suoi commenti sulle nuove e-mail appena scoperte ha danneggiato la sua immagine nove giorni prima delle elezioni, e durante il voto anticipato, per non parlare del fatto che i tassi dell’Obamacare stavano per salire del venti per cento. Tutto questo pare aver creato una tempesta perfetta dato che l’ultima ondata di elettori è stata tutta per Trump, tra cui un numero di latini maggiore del previsto, ma onestamente credo che con o senza le e-mail, Obamacare o no, la frittata era fatta già due settimane fa. Molti di noi non se ne sono accorti, o non hanno voluto capire che era la frittata di Trump.
Cosa ne ricaviamo da questo? Delusione, almeno per la gente come me. Odio vedere il nostro Paese scivolare all’indietro. Odio sapere che il presidente che il Paese ha votato in gran numero si è speso in una terribile retorica su tutto ciò che non si adatta alla sua singolare visione dell’America bianca
Possiamo aggiungere a questo il fallimento dei mezzi d’informazione. La notizie non sono più notizie, sono ventiquattro ore di intrattenimento, con gli esperti che si ripetono all’infinito, e qualcuno sempre lì a valutare tutto ciò che guardiamo, senza mai lasciare un pensiero alla nostra considerazione. Questi pseudo-giornalisti hanno creato Donald Trump dandogli un sacco di visibilità gratuita e non mettendo seriamente in discussione le sue dichiarazioni, o sfidandolo con i fatti; se Trump è un fuoco ardente, allora i media sono stati il suo combustibile, e nel lungo periodo temo tutti noi finiremo bruciati.
Il popolo americano, nel suo cieco desiderio di cambiamento, ha creato un mostro di Frankenstein, e possiamo solo sperare che qualcuno della vecchia guardia, o della nuova guardia disposto ad abbracciare il senso comune, abbia la capacità di guidare i peggiori istinti del presidente Trump in una direzione più positiva, perché sarà certamente necessario. Non è più un immobiliarista ignorante, un evasore fiscale molestatore di donne, è, e le parole mi si bloccano in gola, il Presidente degli Stati Uniti d’America.
Santiddio. Che cosa abbiamo combinato?
traduzione di Carla Reschia
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La reazione di chi si sente escluso 
Giorgio Napolitano* 
La candidatura e la campagna di Donald Trump erano apparse, fin dall’inizio, sconvolgenti rispetto a dati essenziali della storia e dell’identità americana: tradizioni, ideali e politiche di antica e consolidata radice, equilibri non solo elettorali ma sociali, basi di convivenza civile e razziale, canoni della competizione e della dialettica tra i due partiti dominanti, fondamenti del ruolo internazionale degli Stati Uniti. Erano apparse talmente sconvolgenti da far considerare a molti - esponenti politici, analisti e commentatori, addetti alle previsioni, semplici elettori sia democratici sia repubblicani - impensabile la vittoria di Trump. E un simile atteggiamento aveva solo nell’ultimissima fase della campagna elettorale ceduto il passo a valutazioni e reazioni più allarmate. Ma questo mutamento di percezione è stato tardivo; e il fatto che troppi non abbiano ritenuto possibile il successo di quella offensiva così sconvolgente ha rappresentato una debolezza, e alimentato una sottovalutazione, semplicemente fatali. Ebbene, «l’impensabile» è accaduto, e occorre ora farsene una ragione e guardare a quel che può seguire, ai rischi che si possono concretizzare non solo per l’America ma per l’Europa e per il mondo, e prepararsi a cogliere contraddizioni e opportunità che possono già intravedersi.
Farsene una ragione
Ciò significa sviluppare analisi e riflessioni, di cui in questo momento si può appena scorgere qualche elemento, ma che dovranno condursi con adeguata mente critica e profondità. Partendo dal ragionare su un’ondata che stiamo già vivendo in Europa e che ha significati molteplici e dirompenti. Un’ondata di rigetto, da parte di larghi strati sociali e di opinione, di istituzioni e di regole volte tradizionalmente a regolare la vita delle nostre società e dei nostri Stati, la gestione delle relazioni internazionali e lo sviluppo mondiale. Questa ondata è intrisa di molta demagogia, irragionevolezza, carica distruttiva e disgregativa. Essa nasce come reazione di tutti i colpiti e gli insoddisfatti dal processo di globalizzazione e dal ruolo, semplicisticamente demonizzato, di ogni tipo di establishment e di ogni assetto di potere. Dinanzi alle crisi finanziarie ed economiche esplose a partire dall’America nel 2008, non sono valse le politiche di austerità perseguite in Europa ma nemmeno ha persuaso negli Stati Uniti l’opposta politica, in chiave espansiva e interventista, portata avanti dall’Amministrazione Obama e magari frettolosamente idoleggiata qua e là in Europa. Ciò può spiegare lo spostamento su posizioni radicali, demagogiche e illusorie, più o meno scopertamente populiste, da parte di elettorati sia operai sia di classe media negli Stati Uniti. Esce dunque dal voto dell’8 novembre più che mai aperto e da riconsiderare a fondo il capitolo di un rinnovamento e di un rilancio delle politiche di crescita e benessere e in particolare di superamento di disuguaglianze crescenti. 
Il domani a cui prepararsi
L’accorto discorso della vittoria pronunciato da Trump, per diversi aspetti in contrasto con la linea della sua campagna elettorale, può aver riflettuto - è quel che ci auguriamo - una qualche consapevolezza delle responsabilità dinanzi a cui egli da Presidente ora si trova. Se ne dovrà misurare, in tempi forse piuttosto brevi, il riscontro concreto. Dalle espressioni di insolita correttezza e rispetto verso l’antagonista sconfitta, alle sia pur generiche dichiarazioni di intenti collaborativi con tutti i Paesi amichevoli verso gli Stati Uniti, e così via. Per non cadere in eccessive ingenuità e illusioni, bisogna sapere che restano in piedi non solo, sul piano interno, l’annuncio di piani di ricostruzione ab imis di un’America rappresentata come distrutta o declinante per responsabilità dei democratici o più in generale dei predecessori di Trump, ma l’impegno chiave «a fare di nuovo grande l’America». Il che sembra alludere a un orgoglio di stampo nazionalistico e, se non ad una volontà di potenza, ad un arroccamento forse più protezionistico che isolazionista, ma di certo foriero di serie tensioni con la stessa Europa e con altri soggetti dell’economia e della politica mondiale. 
Ma forse l’elemento maggiormente distintivo di quel discorso della vittoria è stato costituito dall’appello all’unità del popolo americano, all’unità almeno civile e morale di un paese che si è spaccato clamorosamente in due. 
Questa riflessione appena accennata deve spingersi molto avanti con spirito autocritico anche da parte degli sconfitti, fuori da schemi e tabù. Essa deve impegnare in modo particolare l’Europa perché, superando la sua tuttora acuta crisi, si faccia portatrice di quelli che sono stati i valori e gli indirizzi storici comuni tra le due sponde dell’Atlantico. E in ciascuno dei nostri Paesi c’è da trarre qualche lezione dall’accaduto. La democrazia del suffragio universale presuppone sistemi formativi e leadership politiche culturalmente attrezzate e comunicative perché siano sufficientemente diffusi, al momento delle prove elettorali maggiori, elementi di conoscenza della storia e dei problemi, senso della ragione e della responsabilità. Chi guida un governo, una maggioranza, un Paese deve saperlo e deve ben riuscire a misurare il grado di evoluzione culturale e politica della società cui si rivolge. E deve avere ben presenti i danni di politiche divisive, di contrapposizioni virulente: perché queste hanno portato ora al successo di Trump negli Usa, ma provocato guasti e incognite che oggi costituiscono precisamente il problema numero uno del Presidente vittorioso.
*Presidente Emeritodella Repubblica
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La lunga marcia della tribù bianca 

Maurizio Molinari Busiarda
È la rivolta della tribù bianca d’America ad aver vinto le elezioni presidenziali che hanno portato Donald J. Trump alla Casa Bianca. Composta in gran parte da famiglie del ceto medio flagellato dagli effetti della globalizzazione, con le roccaforti negli Stati operai del Midwest e nella regione degli Appalachi, d’origine anglosassone ed angloceltica, diffidente nei confronti del governo federale e portatrice di un’idea di libertà basata sul diritto alla prosperità, la tribù bianca si è sentita aggredita durante gli otto anni di presidenza Obama. Ha vissuto l’orizzonte post-razziale, l’esaltazione dell’America multietnica, i successi delle battaglie sui diritti dei gay, le critiche all’operato della polizia e gli inchini del Presidente agli sceicchi come l’umiliazione dei discendenti dei pionieri che sfidarono indiani, banditi, animali feroci e intemperie per costruire la miriade di piccoli centri da cui è nata la nazione. La tribù bianca è composta da padri che insegnano ai figli a «non parlare con gli amici di sesso, politica e denaro», da famiglie che diffidano dei nuovi venuti, da donne che votano come suggeriscono i mariti e da un oceano di senza lavoro che attribuiscono l’impoverimento ad un modello economico basato su tecnologie e libero commercio, favorevole solo alle élite che hanno trasferito la ricchezza da Wichita, Kansas, a Shanghai, Cina. È una tribù per la quale i diritti economici contano più di quelli civili, che non si sconvolge per le volgarità di Trump e spera di «restaurare l’America delle origini» come spiega il sondaggio del «Public Religion Research Institute» parlando di una coalizione di uomini bianchi, senza laurea e operai. Hillary Clinton in uno degli errori della campagna li ha definiti «deplorables» (miserabili) ed è proprio questa maggioranza silenziosa che negli ultimi 11 mesi è andata a votare in massa - come mai aveva fatto - sconfiggendo in rapida successione le dinastie politiche che negli ultimi trent’anni hanno guidato Washington: i Bush e i Clinton. Tutto questo è avvenuto a dispetto di una demografia che premia la somma delle minoranze, respingendo la prima donna che poteva diventare presidente, umiliando l’establishment bipartisan, le star di Hollywood, l’esercito dei sondaggisti e quasi la totalità dei media. Poiché l’America è una nazione rivoluzionaria, dove il populismo si affermò con l’elezione di Andrew Jackson nel 1829, è un fenomeno che merita rispetto anche da parte di chi non lo condivide. Tanto più che ci riguarda da vicino essendo assai simile al disagio del ceto medio che in Europa ha generato la Brexit britannica ed alimenta una galassia eterogenea di movimenti di protesta, dalla Francia alla Germania fino al nostro Paese.
Ciò che distingue i vincitori dell’Election Day è un’identità di gruppo che prevale su ogni altra forza di aggregazione politica. Per questo Trump li definisce «un movimento» - e non un partito - i repubblicani che oggi sommano il controllo di Casa Bianca e Congresso alla possibilità di ridisegnare la Corte Suprema, interprete dei valori della Costituzione. Come avviene dopo le vittorie rivoluzionarie, Trump arriva nella Washington domata praticamente da solo. Considerato un appestato da liberal e conservatori, allontanato da analisti e centri studi, avversato da minoranze, donne e gay, ha di fronte la temibile sfida di governare la nazione leader del mondo libero. In attesa di sapere come intende farlo, possono esserci pochi dubbi sul fatto che dovrà anzitutto rispondere a chi lo ha eletto, ovvero riconsegnare la prosperità al ceto disagiato. Se Trump vincerà questa sfida, potrà offrire all’Europa un inedito modello di crescita. In caso contrario, rischia di essere travolto dalla stessa rivolta che lo ha incoronato. Comunque vada, dovremo fare i conti con lui.
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Donne bianche e tute blu la chiave del successo

Gianni Riotta  Busiarda
«L’elezione di Donald Trump è una tragedia per la repubblica americana, una tragedia per la Costituzione e un trionfo per le forze… del nazionalismo, autoritarismo, misoginia e razzismo… un evento nauseante per la storia degli Stati Uniti e la democrazia liberale… che provoca ribrezzo e ansia»: se l’editoriale di David Remnick, direttore del settimanale «The New Yorker», vi sembra eccessivo, confrontatelo con quello di un repubblicano di destra come Max Boot, del Council on Foreign Relations.
«Trump ha trasformato il partito nel Circolo degli Stupidi… è fiero della sua ignoranza e ha letto meno libri di quanti Teddy Roosevelt ne abbia scritto, promuovendo posizioni nazionalistiche, isolazioniste e protezioniste che preoccupano…».
Se, da sinistra e destra, questo è il voto a Trump, come mai l’America l’ha eletto martedì a sorpresa, sconvolgendo i sondaggi che assegnavano la Casa Bianca a Hillary Clinton? Per capire come la crociata del «Circolo degli Stupidi» abbia conquistato l’ultima superpotenza al mondo dovete riguardare la strategia che, ormai dal 2008, il presidente Barack Obama ha assegnato al suo partito. 
I Big Data, le rilevazioni statistiche derivate dai social media, i trend, i sondaggi, le mail degli elettori, vengono combinate da algoritmi in «files», elenchi, di persone e posizioni, cui si assegnano dei voti, Molto vicino a votarci, oppure, Mai ci voterà. 
Hillary Clinton ha usato questa tecnica, decidendo giorno per giorno che dichiarazioni fare, dove parlare e dove no, quali temi sollevare. Il risultato, assente la carismatica personalità di Barack Obama, è stata una campagna noiosa, senz’anima che non ha riscaldato la base democratica, né mobilitato i neri, gli ispanici, i giovani del socialista Sanders e a Clinton è mancata, negli stati cruciali, la spinta decisiva per vincere.
Trump ha fatto l’opposto. Senza chiedere un parere ai suoi consiglieri ha seguito l’istinto - anatema per gli esperti di dati come Nate Silver, che prediligono i numeri, diffidando dal «naso» di politici e giornalisti - e ha dimostrato di saper intuire da che parte gli americani vanno. È il paradosso del 2016. Un figlio del privilegio di Queens a New York, che ha studiato in scuole private, è cresciuto nel lusso ed è stato avviato al lavoro dal padre con un milione di dollari, ha casa e ufficio nel grattacielo più di lusso, magari un po’ kitsch, della Fifth Avenue, diventa il campione dell’America povera, rurale, che non vive in città, non viaggia, non ha avuto tre mogli ma vive con la ragazza sposata al liceo e guadagna in un anno quanto Trump brucia in un week-end.
Trump ha vinto perché i bianchi senza titolo di studio lo hanno seguito con entusiasmo, spaventati dalla crisi economica, delusi dalla disattenzione di Obama, spaventati dal crimine, preda di una epidemia di stupefacenti che ha fatto strage, per esempio, in New Hampshire. Dopo essersi allungata per secoli, l’età media dei maschi bianchi americani ora si accorcia, la crisi ha indotto suicidi, abuso di psicofarmaci e alcolismo. C’era prima un gradino nella vita media tra bianchi e neri, adesso è tra ricchi e poveri, delusione e paura hanno seminato rabbia.
Nelle città, nelle aree della ricerca e della nuova economia i democratici hanno continuato a crescere, Clinton ha vinto il voto popolare infatti, ma nelle aree rurali, dalla Florida all’Alaska, Trump ha dominato. Con numeri che non lasciano dubbi: Lackawanna County, Pennsylvania, Obama ha vinto con +27 punti, Clinton ne ha persi 24; tra i neri Obama toccò il 93%, Hillary è scesa all’88; e tra gli ispanici, malgrado avesse definito i messicani «stupratori», Trump ha avuto il 29%, facendo meglio di Romney del 2012, che si fermò a quota 27%. 
Dove la campagna di Trump fa terra bruciata è tra i maschi bianchi senza laurea. Un bollettino di guerra per i democratici, New Hampshire +18, Colorado +21, Arizona +22, Wisconsin +24, Michigan + 31, Georgia + 64, North Carolina +40, Florida +34... 
Davanti a questa offensiva bianca, ogni resistenza che Hillary ha frapposto con la sua coalizione di laureati (in partenza 50% dell’elettorato), donne e minoranze, s’è sbriciolata. Malgrado le accuse di molestie sessuali e i modi molto maschilisti Trump ha umiliato le speranze della prima donna Presidente anche nell’elettorato femminile bianco, vincendo 52 a 48.
Si è così realizzata, 12 anni dopo, la previsione del professore Samuel Huntington: «Le forze che stanno scuotendo il centro della cultura americana e del suo credo potrebbero generare un movimento bianco per rilanciare l’identità etnica e razziale, temi che sembravano obsoleti. Si creerebbe così un’America, che potrebbe escludere, espellere o reprimere altri gruppi razziali, etnici e culturali. L’esperienza storica contemporanea - concludeva il conservatore Huntington - suggerisce che è molto probabile che quando un gruppo etnico-razziale, già dominante si sente minacciato dall’ascesa di altri gruppi reagisca, generando un Paese intollerante, con alti livelli di scontro fra le comunità».
La profezia di Huntington sembra avverarsi quando i ragazzi scendono in strada per le prime manifestazioni, Oregon, California, Washington, poca roba, falò, ma che gli eccessi di Trump potrebbero indurre a peggiori propositi.
Eppure questa miscela e la capacità comunicativa di Trump, a poche ore dal voto, erano indietro. Cosa abbiamo mancato noi che seguiamo i sondaggi? Studiare Cambridge Analytica, società diretta da Matt Oczkowski che ha sì analizzato i Big Data, ma partendo non dai numeri ma dal significato dei messaggi, la semantica, una tecnica innovativa che ha permesso a Trump di essere se stesso, non più legato al canovaccio del testo scritto che l’aveva mandato indietro in settembre. Naturalmente, online, Cambridge Analytica è già considerata «una misteriosa compagnia» dai complottisti: perché questa è l’America divisa, odio, rancore, misteri, una miscela in cui Donald Trump nuota come un pesce, anzi un presidente.
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“Sconforto e rabbia Ora a noi donne l’America fa paura” 
La scrittrice Schine: tollerata troppa misoginia Campagna elettorale piena d’odio e antisemitismo 

Francesca Sforza Busiarda
Donne che vincono, perdono, si avviliscono, hanno paura di invecchiare. Cathleen Schine è una delle scrittrici americane che più hanno raccontato quel mondo che in tanti pensavano avrebbe espresso il primo presidente donna degli Stati Uniti, e che invece ieri ha perso la sua occasione. Le cose cambiano è il titolo del suo ultimo libro uscito in Italia (Mondadori). L’abbiamo raggiunta a Los Angeles, dove vive, ora che le cose, con l’elezione di Donald Trump, sono cambiate per davvero. 
Cathleen Schine, qual è stata la sua prima reazione dopo il risultato del voto?
«L’ho seguito in tv, è stato uno choc. Io davvero stavo lì, guardavo lo spoglio dei singoli Stati e non ci potevo credere. Ancora adesso non credo di aver realizzato del tutto. Choc, e subito dopo, rabbia…». 
Stando alle prime analisi dei flussi, le donne bianche non hanno dato a Hillary Clinton il sostegno previsto, a differenza delle afroamericane e delle latine, che invece l’hanno sostenuta con forza. Perché secondo lei?
«Non capisco, sono trent’anni che è in corso una campagna contro Hillary Clinton, dai tempi in cui era First Lady fino a ieri, con inchieste e accuse che poi sono tutte cadute. Lei doveva rappresentare il cambiamento, e questo ha generato paura negli strati più conservatori della società - anche donne, certo. Molte cose sono cambiate nella società americana in questi anni, pensiamo all’uguaglianza dei diritti nel matrimonio, a un presidente afroamericano: sono alcuni mutamenti enormi. Ecco credo che per le persone che si trovano in una posizione di privilegio - bianchi quindi, e tra loro molte donne - questo è sembrato troppo, e hanno cercato una sorta di riequilibrio. Credo almeno sia stato così…»
L’età, il suo ruolo di moglie, la semplice appartenenza al sesso femminile, c’è stato un «gender factor» che ha giocato a sfavore di Hillary?
«Quando Obama è stato eletto, le persone negli Stati Uniti furono sorprese, anche io, lo confesso. Forse il Paese non era pronto a superare anche questa barriera, l’idea di avere una donna in una posizione così importante ha incontrato una resistenza profonda, non avrei immaginato».
Quanto è misogina oggi l’America?
«Se si guarda alla campagna sui social media, ci sono persone che sono state oggetto di offese terribili perché avevano sostenuto Hillary. Anche io sono tra queste. Non si tratta solo di critiche o di opinioni differenti. Ho percepito odio per gli stranieri, e sì, anche antisemitismo. Contro le donne poi c’è stata una cattiveria pazzesca. Le discriminazioni sul lavoro e in famiglia ci sono, lo sappiamo tutti, ma questo livello di disprezzo negli attacchi è diverso, è scioccante e disturbante. Io ho paura, posso dirlo?».
La maggioranza degli elettori di Trump non è stata molto influenzata dalle esternazioni del repubblicano sulle donne. È una forma di insofferenza nei confronti del politically correct o un reale sentimento che percorre gli Stati Uniti?
«Quando le persone dicono di essere stanche del politically correct, che vuol dire? Che vorrebbero tornare a un tempo in cui non dovevano pensare a chi si trovava in una posizione diversa dalla loro nel mondo. Io penso che il politically correct sia un privilegio, il frutto di lotte e conquiste, non una struttura di potere. Non sono una sociologa, né un’analista politica, ma credo di poter dire che questo Paese sembra molto più evoluto di quanto non sia in realtà». 
Se dovesse ambientare un romanzo nell’America di Trump che tipo di famiglia sceglierebbe?
«Proprio dopo aver visto i risultati l’altra sera ho pensato: “Diavolo, ma come farò a scrivere un romanzo, adesso?”. Tutto mi è sembrato slittare su un altro piano, questo non è il mio mondo, la mia adesso è una realtà parallela».
Cosa si aspetta dal suo nuovo Presidente?
«Pensando ai suoi comportamenti nel passato, mi auguro che non usi il governo per fare profitti, per vendicarsi dei nemici, per fini personali. Chissà cosa farà con la Russia, in Siria, sull’economia… Non so, sono un po’ preoccupata, vedremo».
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Il vento dell’America soffia sui sogni degli emuli europei “Nel 2017 cambieremo tutto” 
Dalla Francia all’Ungheria, esultano gli anti-sistema: libertà per i nostri popoli 

Marco Zatterin Busiarda
La Brexit ha schiuso la porta, l’elezione di Trump l’ha sfondata. «Una vittoria storica, una rivoluzione!» si concede l’olandese Geert Wilders, leader populista, antislamico e ossigenato del Partito delle Libertà. Non gli par vero che il «vecchio ordine» si sia sgonfiato un altro po’ col voto americano che, rimugina con l’usuale verve, bagna le polveri dell’odiata mondializzazione e riporta i destini delle nazioni al centro del palco globale. «Un’ottima notizia», commenta più sobria Marine Le Pen, che tutti i sondaggi danno sicura al ballottaggio presidenziale francese di maggio. «Il mondo d’una volta sta crollando», aggiunge Florian Philippot, fidato consigliere dell’aspirante novella Marianna. Per il quale, naturalmente, «la costruzione del nostro, di mondo, è cominciata».
Hanno un debole per gli slogan evocativi, i piccoli Trump, gli aspiranti leader europei arruolati volontari nell’esercito del magnate che ha vinto la Casa Bianca guidando la riscossa della «maggioranza tradita». Nell’urlo di Donald trovano altro coraggio per continuare a combattere, ora sanno che tutto è possibile. L’americano aveva, come loro, l’establishment classico della politica a dodici stelle contro. Lo osteggiavano Angela Merkel come Francois Hollande, Matteo Renzi e i presidenti delle istituzioni. «Un Donald è più che sufficiente», aveva scherzato il numero uno del Consiglio Ue, il polacco Tusk, Donald pure lui. Con l’aria che tira, se proprio decidesse di occuparsene, la battuta potrebbe rubargliela il leader americano visto che, a gennaio, l’ex premier di Varsavia non è certo di essere al suo posto. L’Europa «potere morbido» potrebbe aver bisogno di un capro espiatorio. Lui sarebbe una scelta facile.
«Il vento della libertà soffia ovunque di questi giorni», insiste l’aulico Philippot. In effetti, al secondo cataclisma che ha beffato i sondaggisti, sbaragliato gli opinionisti e ignorato le dichiarazioni di voto dei principali giornali, parlare di sospetto che nei prossimi mesi tutto possa mutare diventa un eufemismo. Sono cambiati i punti di riferimento. Il «Financial Times» si è schierato contro la Brexit e per Hillary Clinton, incassando due sconfitte clamorose, non l’unico a essere onesti. La lunga mano della mondializzazione ha fallito, direbbe con spregio la Le Pen. Metafora inesatta che, però, rende l’idea.
Il calendario sembra progettato per dare «l’opportunità storica» che ieri ha sbandierato Frauke Petry, la leader del partito anti-immigranti e anti-euro tedesco, l’Alternativa per la Germania (Afd). Gli esclusi arrabbiati, gli sconfitti, gli impoveriti, gli indeboliti (e i pigri) vogliono il cambiamento a tutti i costi. Il prossimo choc potrebbe venire il 4 dicembre. Si tiene il referendum italiano sulle riforme, trasformato in plebiscito fra il presunto vecchio e il presunto nuovo. E c’è il ballottaggio presidenziale austriaco che potrebbe non replicare l’esito di luglio, dunque designare l’ultranazionalista Hofer al posto del verde moderato Van der Bellen. Un Renzi ferito, come l’affermazione dell’erede di Haider, potrebbe condurre in luoghi apocalittici o paradisiaci. Dipende dai punti di vista. 
Il 2017 porta le elezioni olandesi, alle quali si arriva con un esecutivo fragile e un’opposizione populista scatenata: sinora, Wilders non ce l’ha mai fatta, ma i rivali sono fiacchi e lo scenario minino è la governabilità difficile. Fra aprile e maggio tocca alla Francia, I sondaggisti danno al candidato Juppè la possibile vittoria. Davvero? O i francesi sfiduciati dalla crisi e impauriti dagli stranieri abbandoneranno l’usato sicuro degli eredi gollisti e sceglieranno il nuovo non collaudato della destra frontista? Marine sposa le tesi dell’imprevedibile Trump, si entusiasma davanti alla probabilità che l’accordo commerciale fra Usa e Ue finisca dimenticato. Non considera che se Washington lo facesse con gli asiatici, l’Europa degli scambi finirebbe contro un muro, ma questa è un’altra storia.
«La democrazia è viva» sentenzia Viktor Orban, il durissimo premier ungherese, uno che per Bruxelles ama fare cosacce con i diritti e i fondamentali della vita democratica. Lo direbbe anche se Marine Le Pen diventasse presidente e pure se, in settembre, i cristiano democratici tedeschi e Angela Merkel perdessero la leadership o parte della loro forza. Orban cavalca lo scontento come tutti gli altri aspiranti Trump, la rabbia che ha gonfiato la rivolta. È radicata la convinzione che solo cambiando il conducente la macchina possa miracolosamente rimettersi a correre. Non è così, ma è difficile frenare l’onda.
Certo non può riuscirci la debole Europa coi suoi deboli governi e le sue divisioni interne, priva di messaggi abbastanza forti da sconfiggere le schiere dei trumpisti. «Un popolo libero», sorride Nigel Farage, l’architetto della Brexit, mentre saluta l’affermazione di Trump. Anche lui, come gli altri, dimentica qualche dettaglio, ad esempio la dipendenza del Regno Unito dal commercio mondiale. Crede come ogni scettico e nazionalista che la decapitazione dell’élite basti a generare il progresso che si chiede. Ed è pronto a sollevare la scure.
Per questo, per rimodellare l’Europa, i rivoltosi si affidano al trionfatore Trump, con fede nella canzone newyorkese per cui «se posso farcela qui, ce la farò ovunque». La ricetta condivisa impone stati forti e autonomi. Gli autoproclamati liberatori chiedono cittadinanza politica a Trumplandia, auspicano una leadership verso un nuovo modello economico e ammiccano alla Russia di Putin che osserva tutto con felicità. Sotto processo finiscono l’Unione europea, consueta vittima designata, e la Nato. Si contestano i patti, si rifiutano i trattati. Ci saranno sangue politico e contagiose fratture. 
I nipotini europei inseguono nella vittoria dello zio Trump «la fine dei poteri forti e del dominio della finanza», sebbene sia arduo dimostrare che il neopresidente sia un «potere debole». Quello «morbido» delle cancellerie europee ha poche carte vincenti da giocare, pertanto ha senso immaginare una Ue molto diversa nel 2018 rispetto a oggi. Non necessariamente migliore, è questa l’alea delle rivoluzioni. Certo che Vladimir Putin, il leader che più ha bisogno di avere vicini che litigano e non decidono, ha motivi per sorridere. Il che non è per forza un segno favorevole, sebbene ci sia chi - come Grillo e Le Pen - trovi nel buon umore dello zar una fonte di entusiasmo. Affascinante e rincuorante come un salto nel buio.
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Con il vecchio nemico russo sarà un’America bellicosa 
Nonostante gli apprezzamenti a Putin durante la campagna elettorale non farà accordi su Siria e Ucraina. Linea dura anche con la Cina 

Bill Emmott  Busiarda
Il presidente Vladimir Putin deve essere un uomo felice: a gennaio avrà la versione americana di Silvio Berlusconi come suo omologo alla Casa Bianca. Dovrebbe tenere a mente una cosa, però. 
È probabile che Donald Trump sia molto meno prevedibile di quanto non fosse il Cavaliere.
Non vi è alcun dubbio sul fatto che uomini forti come Trump, Putin e Berlusconi si piacciano. Pensano di poter comunicare direttamente tra loro e fare affari. A differenza di Berlusconi, tuttavia, il presidente Trump non avrà in mente i propri affari quando incontrerà il presidente russo. Penserà a quelli americani, e questi interessi nazionali sono più difficili da conciliare con quelli russi di quanto non fosse tra Vladimir e Silvio.
Durante la lunga campagna elettorale, il signor Trump ha detto molte cose a proposito della politica estera, la maggior parte contraddittorie, alcune che mostravano un certo apprezzamento per il presidente Putin. Ma ha detto una cosa che probabilmente pensava, che quando si fanno affari è meglio essere imprevedibili.
Una cosa prevedibile, soprattutto ora che il partito repubblicano ha preso il controllo del Congresso, è che il partito e i candidati più probabili per i ruoli di comando faranno pressione per una linea dura in tema di difesa e di politica estera: certamente con l’Iran, probabilmente con la Cina, ma sicuramente con il vecchio nemico degli Stati Uniti durante la Guerra fredda, la Russia.
Il signor Trump ha spesso lasciato intendere che si potrebbe raggiungere un qualche tipo di accordo con la Russia sull’Ucraina, violando la posizione comune corrente degli Stati Uniti e dell’Europa e spazzando via le sanzioni. Ma c’è da dubitare che lui e qualunque squadra di politica estera possa nominare concretizzerebbero questa allusione.
In teoria, una sorta di compromesso tra i desideri russi in Ucraina e quelli americani in Siria potrebbe essere interessante per un presidente incline alla contrattazione. Ma il sospetto nei confronti della Russia è ben radicato in persone come John Bolton, arci-conservatore ed ex ambasciatore degli Stati Uniti alle Nazioni Unite, che è in predicato per il ruolo di Consigliere per la sicurezza nazionale.
Per uno come il signor Bolton, un accordo con la Russia non sarebbe come l’apertura fatta a suo tempo da Richard Nixon, un altro falco repubblicano, alle relazioni con la Cina di Mao Zedong. Sarebbe come fare un patto con il diavolo.
Inoltre, gli obiettivi americani in Siria sono complessi. Non è piacevole per i falchi della politica americana vedere che la Russia ha basi navali nel Mediterraneo grazie alla Siria, né vedere un uomo sostenuto anche dall’Iran, il presidente Bashar Al-Assad, mantenuto al potere dalla Russia. Così, se la cancellazione dello Stato islamico in Siria e Iraq potrebbe essere un interesse comune, la situazione in Medio Oriente è troppo complessa per consentire un semplice accordo tra Stati Uniti e Russia.
Se Hillary Clinton avesse vinto, il Presidente Putin sarebbe stato tentato di destabilizzare la nuova amministrazione, accordandosi con il Giappone durante la sua visita a dicembre, per le quattro isole che i due Paesi si disputano dal 1945.
Nazionalista com’è, il Presidente Putin avrebbe trovato difficile fare un tale accordo, ma avrebbe potuto essere tentato di sfruttare l’interregno tra i presidenti degli Stati Uniti per scompaginare l’alleanza occidentale. Con Donald Trump alla Casa Bianca, però, una tattica del genere è meno interessante: il Presidente Putin preferirà sicuramente mantenersi aperte tutte le opzioni.
Invece di avvicinarsi al Giappone, il leader del Cremlino potrebbe essere più tentato di rafforzare il suo rapporto con la Cina. Lo farà in primo luogo per dimostrare al presidente Trump che la Russia non può essere data per scontata, per quanti complimenti lui gli abbia riservato durante la campagna elettorale.
Ma anche nella nuova era che è appena iniziata è probabile che gli attriti di tutti i tipi - sul commercio, il territorio, il cambiamento climatico, la sicurezza - siano destinati a peggiorare. Anche la Cina sentirà la pressione di un’America più bellicosa. Così la Russia potrebbe volersi rafforzare nel confronto con il presidente Trump accennando a una futura alleanza sino-russa, se l’America dovesse farsi troppo sentire. Imprevedibile è certamente la parola giusta.
(Traduzione di Carla Reschia)
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Svolta nei rapporti con Israele e Iran 

Mordechai Kedar Busiarda
Il fattore principale che rende trascinante Trump non sono le informazioni o i dati, bensì le sue emozioni. È un tratto caratteristico degli imprenditori di successo, che pensano di sapere tutto e che nessuno sa tutto meglio di loro. Questi personaggi si dicono: «Sono un miliardario, mentre il mio consigliere riceve uno stipendio. Se fosse più intelligente di me sarebbe lui il miliardario e io vivrei del mio stipendio». Molto probabilmente Trump pensa, e prende decisioni come un imprenditore e a guidarlo saranno interrogativi come «cosa è meglio per l’America, cosa la rende più forte, cosa promuove i suoi interessi, cosa rafforza l’economia, cosa crea più posti di lavoro, chi sono i nostri alleati e chi sono i nostri nemici».
Se questi sono gli interrogativi dietro alla politica di Trump in Medio Oriente, avrà le seguenti caratteristiche.
Primo. La sua politica si baserà sull’assegnazione delle etichette di «amico e alleato» o «nemico». Facendo così tornerà alla terminologia di George W. Bush, che parlava dei «nostri amici e alleati». Obama era stato cauto a evitare questa espressione, che implicava che tutti gli altri erano «nostri nemici». Credo che Trump definirà Israele in termini adulatori come «il nostro migliore alleato», e forse manterrà la sua promessa di spostare l’ambasciata Usa a Gerusalemme. L’affinità mentale e ideologica tra Trump e Netanyahu produrrà un clima positivo che porterà i due a scambiarsi idee e cooperare. In questo modo Trump rimedierà alla situazione che ha gettato un’ombra sulle relazioni tra Israele e Usa negli ultimi otto anni di permanenza di Obama alla Casa Bianca. Trump però potrebbe perdere la pazienza e dire a Netanyahu qualcosa come: «Mio caro amico, dopo 50 anni di occupazione, potresti gentilmente sederti a un tavolo con i tuoi vicini arabi e raggiungere un accordo. Hai sei mesi per farlo. Se non ci riesci, allo scadere di questi sei mesi sarò io a risolvere il problema, con i miei mezzi, e faresti meglio a non costringermi a farlo». Trump potrebbe perfino giustificare questo diktat con la sua decisione di spostare l’ambasciata americana a Gerusalemme. Questo approccio molto business - riconoscere Gerusalemme in cambio dell’abbandono della Giudea e della Samaria - sarebbe un problema molto serio per Israele, soprattutto alla luce del fatto che Congresso e Senato sono ora in mano ai repubblicani e sarà difficile che inviteranno Netanyahu a pronunciare un discorso contro la politica del presidente, come successe con Obama.
Secondo. Trump probabilmente tratterà molto bene il presidente egiziano al-Sisi, perché lui combatte i terroristi islamici, l’elemento che fa più paura a Trump. La sua posizione verso l’Arabia Saudita sarà probabilmente molto fredda, a causa del ruolo dei sauditi negli attacchi dell’11 settembre, del denaro investito dai sauditi nella diffusione dell’islam wahhabita negli Usa e nel resto del mondo e del loro sostegno ai terroristi, soprattutto in Siria.
Terzo. Possiamo aspettarci che Trump raggiunga una chiara intesa sul Medio Oriente con Putin, sia perché Putin, secondo Trump, sta facendo la cosa giusta a eliminare il terrorismo islamico che minaccia l’integrità e l’esistenza stessa della Siria, e anche perché Putin ha già preso in mano le vicende mediorientali che Trump vede come un guaio in cui nessuna persona normale vorrebbe infilarsi. Credo che Trump auguri a Putin di avere successo nell’eliminare il terrorismo in Siria, senza alcun coinvolgimento americano. Se Putin chiederà un aiuto degli Usa nella guerra contro l’Isis, Trump sarà felice di cooperare.
Quarto. Trump ha detto diverse volte che l’accordo sul nucleare con l’Iran è una pessima intesa, e che farà il possibile per cancellarla. Se fossi un ayatollah comincerei a preoccuparmi per quella che sarà la politica di Trump nei confronti dell’Iran.
(Traduzione di Anna Zafesova)
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I mercati temporeggiano ma la finanza non lo teme “La sua è solo retorica” 

Nei comizi tante sparate contro Wall Street I banchieri: ”È un miliardario, non si accanirà” 
Francesco Guerrera Busiarda
Il cigno nero si è alzato in volo sulla politica, l’economia e i mercati americani. Nell’hit parade di eventi rari e imprevedibili, ribattezzati «cigni neri» dal saggista Nassim Nicholas Taleb, l’elezione-bomba di Donald Trump è al primo posto assoluto. Per ora i mercati sono tranquilli, ma non è il momento di rilassarsi. 
«Come Brexit ma dieci volte tanto», aveva promesso/minacciato lo stesso magnate durante l’agguerritissima campagna elettorale contro Hillary Clinton. Ma ora che il cigno nero si poserà sulla Casa Bianca, non basteranno il vocione, il veleno e i comizi più o meno razzisti. Dall’inaugurazione del 20 gennaio in poi, a contare saranno i fatti. E su temi economici e finanziari di fatti ne ha offerti pochi, il Donald, come lo chiamano gli aficionados (anzi diciamo «i fan», visto che lui gli ispanici non li ama). Parole ne ha dette tante, contro il commercio globale, contro le tasse alte per i più ricchi, contro la riforma della sanità di Obama. E ancora, a favore di spese di infrastruttura e di attacchi a Wall Street.
Ma cosa riuscirà a fare di concreto? E che cosa vorrà fare? C’e’ un vecchio adagio a Washington che dice che i presidenti americani sono eletti per quattro anni, ma sono solo i primi due che contano. La seconda metà della presidenza di solito si impelaga in elezioni parlamentari e altri impicci politici. 
Anche Trump, presidente quasi per caso, dovrà scegliere le sue battaglie. Una sembra certa: la ritirata degli Usa dal commercio estero. Vedremo se totale or parziale, ma il Donald vuole senz’altro «proteggere» le classi operaie bianche che lo hanno votato dalla concorrenza di lavoratori cinesi, messicani e vietnamiti. È una politica che dovrebbe aver buon gioco nel Congresso, dove sia il partito repubblicano che quello democratico hanno fazioni che amano il protezionismo. 
Se Trump farà quello che dice contro il commercio, sarà sicuramente un colpo serio per la crescita globale, visto che la superpotenza Usa ha trainato il resto del pianeta importando merci, servizi (e persone) da altri Paesi. Si parla molto, tra l’élite finanziaria, della fine della globalizzazione. Trump potrebbe dargli il colpo di grazia.
Sul fronte interno, la riforma della tassazione sarà un compito molto più arduo. Trump dice di voler tagliare le aliquote alte ma, anche con il Congresso a maggioranza repubblicana, si scontrerà con interessi fortissimi e non sempre in linea con divisioni di partito. Stesso discorso sulla sanità di Obama. Per cambiare una legge di quel tipo, il Congresso vorrà sapere che cosa la sostituirà e il Donald non sembra avere tante idee.
Su Wall Street, la situazione è complicata. Da tipico Giano Bifronte, Trump ha detto sia di volere abrogare la legge Dodd-Frank passata dopo la crisi del 2008 e universalmente odiata dalle banche, sia di volere passare una nuova versione della Glass-Steagall, la legge che proibiva a banche d’affari di avere banche al dettaglio e viceversa. 
Cosa farà? Forse poco. I banchieri con cui ho parlato ieri erano tutti abbastanza rilassati, fiduciosi che un miliardario/palazzinaro di New York non si accanirà contro di loro. Tanta retorica contro i «gatti grassi» di Wall Street ma poca sostanza. È questo un po’ il filo conduttore della reazione tranquilla di mercati, banche e aziende alla sorpresa-Trump: la speranza che, tra limiti politici, difficoltà oggettive e confusioni ideologiche, alla fine farà poco e nulla. 
È una scommessa notevole, visti i poteri enormi del presidente degli Stati Uniti, e il fatto che i mercati possono cambiare idea in mezzo secondo. Ma per il momento, il cigno nero non fa paura a chi vive nelle stanze del potere economico-finanziario degli Usa. 
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“Adesso usi il peso degli Usa per portare la pace nel mondo” 

Il Segretario di Stato Parolin: si occupi del dramma della Siria 
Andrea Tornielli  Busiarda
Il cardinale Segretario di Stato Pietro Parolin ha rivolto i suoi auguri al neo-presidente degli Stati Uniti Donald Trump, esprimendo rispetto per il processo democratico che ha portato alla sua elezione insieme all’auspicio che il nuovo inquilino della Casa Bianca lavori a servizio della sua patria ma anche del benessere e della pace nel mondo. 
Eminenza, come commenta l’elezione di Trump?
«Prima di tutto bisogna prendere atto con grande rispetto della volontà espressa dal popolo americano con questo esercizio di democrazia, che è stato caratterizzato anche da una grande affluenza alle urne e dunque da una grande partecipazione popolare. E poi facciamo gli auguri al nuovo presidente degli Stati Uniti, perché il suo governo possa essere davvero fruttuoso. Assicuriamo a lui anche la nostra preghiera, perché il Signore lo illumini e lo sostenga al servizio della sua patria. Ma preghiamo anche perché lo sostenga nell’impegno a servizio del bene e della pace nel mondo. Credo che oggi ci sia bisogno di lavorare tutti per cambiare la situazione mondiale, che è una situazione di grave lacerazione, di grave conflitto».
Che cosa si augura la Santa Sede per la politica estera degli Stati Uniti?
«L’augurio è che quel grande Paese possa esercitare un ruolo di pace, di capacità diplomatica, di intervento per facilitare soluzioni condivise dei conflitti. L’augurio è che gli Stati Uniti possano usare tutto il loro peso per costruire quei ponti che Papa Francesco non si stanca mai di chiedere, e con l’aiuto delle Nazioni Unite e dell’Europa possano essere decisivi per risolvere le crisi che affliggono il Medio Oriente. Pensiamo ad esempio al dramma della Siria: la Santa Sede continua a insistere perché si trovi una via negoziale per alleviare le indicibili sofferenze della popolazione. Ci sono milioni di persone vittime di violenza insensata. Le crisi, ne abbiamo avuto purtroppo tante conferme, non si risolvono con le guerre, ma con scelte coraggiose di pace. Auspichiamo che non venga mai meno, nei rapporti internazionali, la cultura del dialogo, dell’incontro, del negoziato».
Nei mesi scorsi c’erano state delle polemiche per le parole del Papa sugli immigrati alla fine del viaggio in Messico. Che cosa accadrà?
«Vedremo come si muove il nuovo presidente. Normalmente si dice: una cosa è essere candidato, un’altra è essere presidente, avere una responsabilità così importante... E mi pare che in questo senso, anche da quello che ho potuto sentire dalle sue prime parole, Trump ha già sottolineato di voler essere il presidente di tutti gli americani, il leader dell’intero Paese. Poi sui temi specifici vedremo quali saranno le scelte della nuova amministrazione, e in base a quelle si potranno anche fare delle valutazioni. Mi pare perciò assolutamente prematuro formulare giudizi».
Che cosa la preoccupa di più oggi nel mondo?
«I milioni di bambini costretti a lasciare le loro case, le migliaia di minori non accompagnati che divengono preda di abusi e sfruttamento. La sorte delle popolazioni inermi vittime delle guerre. Servono sforzi politici e multilaterali per sradicare le cause profonde dei grandi movimenti e dello spostamento forzato delle popolazioni, che sono conflitti e violenza, violazioni dei diritti umani, degrado ambientale, estrema povertà, commercio e traffico di armi, corruzione e oscuri piani commerciali e finanziari».
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Letta: ormai l’antipolitica governa le sorti del mondo 

“Cinismo, insulti e bugie per me rendono inquietante il vincitore Candidare Hillary è stato un errore: non c’era bersaglio migliore” 
Francesca SchianchiBusiarda 
«A maggio, ai tempi delle primarie, qui all’Università abbiamo organizzato un grande dibattito con gli studenti: su 400 americani, la metà votavano Hillary Clinton, l’altra metà Bernie Sanders, e uno solo Trump. Alla fine della giornata ci siamo resi conto che il 95 per cento del tempo lo abbiamo speso a parlare di cosa diceva, faceva, e che presidente sarebbe potuto essere Trump. Ricordo che pensai: se non facciamo che parlarne vuol dire che dobbiamo stare molto attenti, è difficile che questa concentrazione su di lui non si trasferisca in voti», racconta l’ex premier Enrico Letta, oggi direttore di Sciences Po a Parigi.
Lei ha commentato via Twitter «la più grande rottura politica dalla caduta del muro di Berlino». Cosa è successo ieri notte?
«L’antipolitica ha spazzato via due partiti in un colpo solo, democratici e repubblicani, l’intero sistema politico americano, con l’arma del trumpismo. Ha completamente modificato lo scenario dell’unica superpotenza del mondo».
Va letto come il successo più impressionante dell’antipolitica?
«L’antipolitica ha avuto successi in molti Paesi ma non c’è Paese in cui il presidente sia così potente: il leader di questa antipolitica siede alla Casa Bianca, dispone dei codici nucleari e ha in mano le sorti del mondo».
Questo cosa comporta?
«Impone di rivedere tutti i paradigmi, a partire dal rapporto della politica con la gente, gli elettori. Mi interrogo sulla sconfitta della Clinton e penso che quel modello di politica - con carriere così lunghe - sia finita per sempre. Questo mi conforta anche nelle scelte personali che ho fatto, di lasciare il Parlamento dopo 16 anni. I partiti tradizionali, come li abbiamo concepiti, sono finiti».
Addirittura?
«C’è un rapporto tra élite ed elettori su cui bisogna interrogarsi. Mi ha molto colpito il voto di Washington D.C.: (dove ha sede l’amministrazione americana, ndr.) la Clinton è arrivata al 93 per cento. C’è uno spaventoso distacco tra Palazzo del potere e gente comune».
Processo che si è visto anche in Europa. La prima a esultare è stata Marine Le Pen: secondo lei sarà la Trump di Francia?
«Non penso: è in politica da anni, è come i leghisti in Italia, in Parlamento da una vita. Manca la logica dell’outsider che ha reso forte l’impatto di Trump».
Quanto ha influito la figura della Clinton in questa vittoria dell’antipolitica?
«La forza di Trump è stata anche la debolezza della Clinton. Il voto non è stato un giudizio su Obama, ma su di lei: gli elettori non votano sul bilancio del passato, ma sul futuro. Lei ha faticato anche contro Sanders durante le primarie, e i democratici americani non si sono resi conto di cosa stava succedendo: candidare lei è stato come sventolare un drappo rosso davanti al toro dell’antipolitica. Non c’era bersaglio migliore».
Come sarà l’America di Trump?
«Isolazionista e imprevedibile. Isolazionista perché a un certo punto si concentrerà su come fare a essere rieletto, quindi tornerà ai temi di campagna elettorale per parlare ai suoi». 
Imprevedibile in che senso?
«La sua caratteristica è quella di farsi nemici in continuazione. Il populismo si nutre di nemici, e allora di volta in volta sono stati nemici Bush, Rubio, Cruz, Obama, la Clinton… Ma se costruisci nemici in politica estera scoppiano le guerre, è una logica devastante».
E per l’Europa cosa può significare?
«Questa elezione è per l’Europa una sveglia, l’ultima occasione per dimostrare di esistere. Oggi ci ritroviamo più soli anche sulla difesa di certi diritti, come sull’ambiente. L’Europa deve guardarsi allo specchio e rendersi conto che siamo adulti: non potremo più fare affidamento all’America come finora. E non mi si faccia il paragone con Reagan, che a differenza di Trump era uno statista».
Lei è molto critico col neopresidente.
«Non mi iscrivo tra quelli che dicono - vedrà, arriveranno presto - “viva Trump, in fondo non è male”. Il suo cinismo, gli insulti, le bugie per me lo rendono inquietante. Le sue idee sull’immigrazione, il cambio climatico, il rapporto con le donne: è su tutto all’opposto di quello che penso».
Tutto questo può avere un’influenza sul referendum italiano?
«Non lo so, ma direi di no».
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Grillo canta vittoria “Un vaffa pazzesco il prossimo in Italia” 
I Cinquestelle sfruttano il vento Usa ma puntano a rassicurare “Non cavalchiamo la rabbia e non vogliamo uscire dall’Europa”
ANNALISA CUZZOCREA Rep
ROMA. Avevano detto né con Trump né con Hillary, fino alla sera prima, i 5 stelle. Ma la passione per un voto considerato di rottura esplode già al mattino: quando Beppe Grillo convoca un operatore nel suo albergo, a Bruxelles, e registra un video che darà il via all’esultanza: «Questa è la deflagrazione di un’epoca - dice il capo politico del Movimento - l’apocalisse dell’informazione, della Tv, dei grandi giornali, degli intellettuali, dei giornalisti. Un vaffanculo generale. Trump ha fatto un VDay pazzesco».
Parla di «quasi similitudini fra questa storia americana e il Movimento», Beppe Grillo. «Siamo nati e non se ne sono accorti. Siamo diventati la prima forza politica in Italia e non se ne sono accorti. Andremo a governare e si chiederanno: “Ma come hanno fatto?”». E tra i suoi, c’è chi subito raccoglie: «La vittoria di Trump è l’espressione di un popolo che vuole scuotere le economie, che vuole ripartire da più lavoro e meno tasse - dice il deputato Danilo Toninelli - adesso tocca a noi. Il 4 dicembre potremo salvare la nostra Costituzione e dare a Renzi un meritatissimo avviso di sfratto ». La strategia è questa. Sfruttare il vento antisistema - che dagli Stati Uniti soffia fino in Europa - per far prevalere il No al referendum costituzionale e chiedere la fine del governo Renzi. Ci dovrà essere un passaggio per rimettere mano alla legge elettorale, di questo i 5 stelle sono consapevoli. Ma la linea decisa insieme a Grillo e Davide Casaleggio che anche a Bruxelles sono volati insieme - è chiedere a gran voce che si torni alle urne e ostacolare governi di scopo cui pure, all’inizio, qualcuno aveva guardato con interesse.
«Il post di Beppe era soprattutto un messaggio di incoraggiamento ai nostri - sostiene Manlio Di Stefano - anche noi come Trump abbiamo tutti contro e anche noi proprio per questo possiamo vincere». Spiega perché tra la «guerrafondaia» Hillary Clinton e il magnate americano - alla fine - potrebbe essere meglio il secondo, il deputato 5 stelle: «In politica estera - a parole - è meno interventista di lei. Non è un caso che stati come la Russia lo appoggiassero. Davanti a una che di sicuro ci porterebbe altre guerre, mi prendo il rischio Trump». Il Movimento accusa di irresponsabilità il governo italiano per un sostegno troppo esplicito a Hillary Clinton. Alessandro Di Battista rimane a lungo in Transatlantico - anche durante l’intervento in aula del presidente del Consiglio Matteo Renzi - per spiegare perché non siano rabbia e populismo, a spiegare la vittoria di Donald Trump: «Tutte le volte che il popolo non vota come vogliono loro, le élite dicono che ha prevalso il populismo - dice l’esponente del direttorio - io avrei votato Jill Stein, la candidata ambientalista, ma mi chiedo quanti americani non abbiano scelto Trump per le sue promesse di una politica estera meno interventista. La verità è che più il mondo dell’informazione e dell’establishment attacca qualcuno, più quello vince. E questo non può che farci piacere».
Ma il messaggio che i 5 stelle vogliono dare adesso è anche di rassicurazione: «Dove la vedete la rabbia in noi? - chiede Di Battista - la verità è che se non ci fossimo milioni di persone non parteciperebbero alla politica, l’astensione aumenterebbe e così proprio la rabbia. Non ci sono mai incidenti nelle nostre piazze, qualcuno dovrà pure riconoscercelo».
Altrettanto rassicurante il Beppe Grillo che ieri si è presentato a Bruxelles. Ha fatto balenare l’idea di un gruppo autonomo M5S al Parlamento europeo, il fondatore, ora che l’Ukip - il partito di ultradestra di Nigel Farage - sta per abbandonare l’Unione dopo la Brexit. Poi ha ricordato che nel programma c’era un referendum sull’euro, non l’uscita dalla moneta unica, e che l’adesione all’Ue non è mai stata in discussione. «C’era bisogno di rammentarlo a qualcuno degli eurodeputati racconta un senatore - quello è un tema che spaventa, ma ora che siamo vicini alla meta non dobbiamo spaventare nessuno».
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Grillo esulta: “Un vaffa mondiale” ecco la rete dei fan nel Belpaese 
Da Berlusconi ad Arrigo Cipriani passando dall’immobiliarista Paolo Zampolli Lory Del Santo: se avessi accettato le sue avances, forse oggi sarei first lady. 
Amedeo La Mattina Busiarda
Segnatevi questo nome: Paolo Zampolli, 46 anni, rampollo di una famiglia milanese che ha fatto successo con la Herbert (giocattoli), newyorkese di adozione, immobiliarista di fascia alta a Manhattan, ambasciatore alle Nazioni Unite per il «Commonwealth of Dominica». È lui che ha fatto conoscere Melania Knauss a Donald Trump nel 1998 durante un party. Aveva scoperto l’ex modella slovena a Milano: faceva parte della scuderia di Riccardo Gay. Paolo da poco aveva fondato la Id Models e si portò Melania a New York. Zampolli conobbe Donald ad uno spettacolo di David Copperfield. «Facevamo una vita da limousine. Trump era uno dei tycoon a cui piaceva divertirsi. Ci siamo cambiati la vita a vicenda. Io gli ho presentato Melania e lui mi ha nominato Director of International Development del suo impero dei real estate. Siamo amici. Sono stato io fargli conoscere l’Italia. È venuto con me a Milano una decina di anni fa per affari (non spiega altro ndr). Se lo chiamo, nel giro di 24 ore mi risponde sempre». Ecco, sarà lui il ponte tra il nuovo presidente degli Stati Uniti e l’Italia. Ed essendo passato dalla moda e dagli appartamenti di lusso alla passione per diplomazia, non è escluso possa entrare a far parte della squadra di Trump. O diventare ambasciatore Usa in Italia. Da lui bisognerà passare per i contatti con la Casa Bianca.
Ma ci sono altri italiani che lo conoscono da tempo, che l’hanno frequentato soprattutto per motivi di business. Sono la sua rete nel nostro Paese. Tra questi Flavio Briatore e la famiglia Cipriani, sia Giuseppe sia Arrigo, il patron del celeberrimo Harry’s bar a Venezia che a New York ha il suo core business con 3 ristoranti e 4 sale banchetto. «Io sono più che contento e soddisfatto - dice Arrigo - è un cambiamento positivo. E se Trump manterrà le promesse fatte in campagna elettorale, come l’abbassamento delle tasse del 15% di sicuro l’America riparte. Credo sia un cambiamento positivo anche per l’Europa che ora sarà costretta a svegliarsi e cambiare».
Sembra che Berlusconi non abbia aspettato che qualcuno glielo presentasse. Quando all’inizio di settembre si trovava a New York per i controlli al cuore, il Cavaliere avrebbe incontrato il candidato ben tre volte. Avrebbe pure incontrato Hillary Clinton, la favorita. Ma essendo un tipo prudente e lungimirante, Berlusconi si sarebbe assicurato i due tavoli e le due prospettive. Questo spiega il fatto che il leader di Fi non si sia mai espresso né per Donald nè per Hillary, anche se ha sempre guardato con sospetto il primo. Come la maggior parte degli azzurri, che adesso invece sono diventati tutti trumpisti. Quelli della prima ora sono Daniela Santanché e Antonio Martino. In zona cesarini l’aveva fatto Giovanni Toti, sempre più lontano da Berlusconi e sempre più vicino a Matteo Salvini che è stato l’unico leader italiano che si è sempre sbilanciato a favore di Trump. Lo hanno fatto pure Quagliariello e Fitto, mentre i 5 Stelle hanno nicchiato: nè con Donald né con Hillary. Ieri invece Grillo ha sparato, salendo sul carro dei vincitori: «Trump ha fatto un Vaffa pazzesco come il nostro».
Poi tra i trumpisti d’Italia ci sono Vittorio Sgarbi, che paragona Donald ad Andy Warhol e Lory Del Santo. Lei racconta di un flirt, di una serata galante a New York «Fu una cena non troppo lunga, piuttosto veloce. Era la terza volta che ci vedevamo, e di solito in questi casi è il momento di concludere. Era chiaro che lui fosse interessato, ma i signori non ti mettono le mani addosso. Ma alla fine io non me la sono sentita, il giorno dopo dovevo partire... e sono andata a casa. Chissà, potevo diventare la first lady». Un fan di Trump è anche Giuseppe Cruciani che durante una puntata della sua trasmissione radiofonica La Zanzara aveva fatto la promessa di non fare sesso per due mesi se avesse vinto Donald. «Sarà durissima, ma mi farà bene. Rinuncerò anche all’autoerotismo. Godo troppo per la vittoria di Donald». 
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E ora la guerra sulla Carta  ha un sapore americano 
Marcello Sorgi Busiarda
La vittoria di Trump in Usa ha subito avuto ripercussioni in Italia sul centrodestra, all’interno del quale crescono le speranze che l’onda lunga americana porti alla sconfitta di Renzi il 4 dicembre, nel referendum costituzionale. Ci crede Salvini, che con Trump ha flirtato nell’ora più difficile della sua campagna, riuscendo a ricavarne un contestato “selfie” a margine di un comizio. Ci crede, sotto sotto, anche Berlusconi, che ovviamente si identifica con il personaggio dell’imprenditore outsider. Ma se il fronte del “No” aveva ed ha possibilità di battere il “Sì” prima e dopo l’esito a sorpresa delle presidenziali americane, difficilmente questo potrà influire sulle prospettive del centrodestra italiano, che ha mantenuto tutte le sue divisioni anche nella campagna per forza di cose unitaria per il referendum, e continua a soffrire per la presenza, nel campo populista e della politica antisistema, del Movimento 5 stelle. In questo senso, se il 4 dicembre sarà il “No” a prevalere, difficilmente i leader dell’ex-coalizione berlusconiana potranno intestarsi una vittoria che invece potrebbe dare a Grillo - che non a caso ieri si è iscritto al partito di Trump - la spinta decisiva per arrivare sempre più vicino al governo del Paese alle prossime elezioni politiche.
Ma il successo di Trump e il conseguente inaspettato (dai media e dai sondaggisti americani) collasso della candidatura di Hillary Clinton parlano anche a Renzi. Il leader del Pd e presidente del consiglio, pur essendo al potere da ormai due anni e mezzo, non può essere assimilato tanto facilmente all’ex-first lady e ex-segretario di Stato battuta nelle urne. Renzi ha infatti radici ancora forti nella rottamazione, che lo portò prima alla guida del partito e poi a Palazzo Chigi, e non ha condiviso con i suoi avversari interni del Pd la lunga e usurante stagione di governo e di opposizione della Seconda Repubblica. E se riesce a non apparire a tutti gli effetti membro dell’establishment (dove a un certo punto si era stranamente integrato), se recupera, come sta cercando di fare, ad esempio rispetto alle autorità europee, la sua identità da contestatore, se corregge alcuni errori dì superficialità nei confronti degli elettori più di sinistra del suo partito (le classi medie impoverite ci sono anche qui, forse perfino più che in America), non è detto che da ora al 4 dicembre non possa recuperare. In fondo, come gli ha consigliato il boss di Eataly Farinetti, gli basterebbe non essere antipatico. «Nasty», avrebbe detto Trump, anche se la traduzione non è letterale.
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“L’Europa è rimasta sola a difendere i valori comuni” 
Naim: il presidente crede nei muri, spero che la Ue non ci deluda 
Paolo Mastrolilli Busiarda
«Putin ha guadagnato un alleato, e l’Europa lo ha perso, soprattutto nella difesa dei nostri valori condivisi». 
È preoccupata l’analisi delle presidenziali americane fatta da Moisés Naim, politologo del Carnegie Endowment for International Peace e autore del saggio La fine del potere.
Perché Trump ha vinto?
«Non credo sia stato un voto dei poveri contro i ricchi. La maggioranza di Trump non è stata definita dalla povertà, ma dal colore della pelle. Bianchi della classe media, motivati dai temi di identità e razza, e milioni di persone a disagio con l’idea di una donna presidente. Hillary poi ha lasciato il suo fianco molto vulnerabile, con errori incredibili come quello delle mail».
Trump ora è presidente: cosa si aspetta?
«Dovrà fare un corso accelerato per prepararsi su temi a cui non aveva mai pensato, e scoprirà che il potere che crede di avere come Presidente è molto limitato, dal Congresso e dalle leggi. Ci saranno restrizioni immense per realizzare alcune promesse. Ad esempio deportare 12 milioni di illegali richiede una logistica enorme, nuove leggi, e una forza armata che entri nelle case per prelevarli. La guerra commerciale frontale con la Cina sarà difficile. I mercati sono calati paurosamente, e potrebbero creare un ambiente economico fragile. Quando metterà un costo vicino alle sue promesse per realizzarle, scoprirà che non ci sono i soldi, a meno di far esplodere il deficit. Sulla scena internazionale non avrà la flessibilità che crede, e ordinare ai messicani di pagare il muro non sarà facile. Questo non vuol dire che non ci siano iniziative simboliche che è obbligato ad avviare. Comincerà la costruzione del muro con grande enfasi, ma dubito che diventerà una muraglia cinese. Può cancellare Obamacare, ma dovrà fare attenzione a non danneggiare i suoi elettori che ne beneficiano. Poi dovrà nominare 7000 funzionari pubblici, ma molti repubblicani hanno detto che non vogliono lavorare per lui».
Cambierà le relazioni con la Russia?
«Putin ha vinto un alleato e l’Europa l’ha perso. Le sanzioni sono finite, e Mosca potrebbe approfittare della situazione per iniziative aggressive verso i Paesi baltici. Se lo farà durante la transizione, chi risponderà?».
Perché i mercati sono crollati?
«Ha vinto una persona con una lista di proposte che possono rendere precaria l’economia mondiale. Negli Usa le cose non vanno così male, la disoccupazione è sotto il 5% e la crescita continua. Lui può trasformare in negativo l’eredità di Obama».
Cosa farà contro l’Isis e il terrorismo?
«Scoprirà gente patriottica, intelligente, informata, che sta facendo quello che serve. L’Isis è in ritirata, sta perdendo Mosul e presto perderà anche Raqqa. Non tutto è un disastro».
La vittoria di Trump è stata il rigetto di Obama?
«Il razzismo ha avuto più importanza dell’economia nel determinare il risultato».
Cosa succederà ora al Partito democratico?
«Anche se avesse vinto Hillary, ci sarebbe stata una guerra civile fra la sua ala moderata e quella progressista di Sanders. Alcuni già dicono che Bernie avrebbe battuto Trump. Lo sconto avverrà, e Elizabeth Warren emergerà come nuovo leader». 
Gli ispanici cercheranno di prendersi la rivincita nel 2020?
«La demografia è un destino. Gli ispanici continueranno a crescere, ma è un errore pensare che si comportino in politica come un gruppo omogeneo. Un contadino messicano californiano ha interessi diversi da un commerciante colombiano di Miami».
Perché media e sondaggi hanno sbagliato?
«La tecnologia dei sondaggi, rimasta alle chiamate sul telefono di casa per determinare le intenzioni di voto su base geografica, non funziona più. Poi ci sono nuove reti sociali che non capiamo».
Questa ondata populista spazzerà via anche l’Unione Europea?
«Spero che la Ue non ci deluda. Trump va contro i valori che hanno ispirato il progetto europeo: è isolazionista, protezionista, crede nei muri e nelle frontiere. Se spariscono gli Usa come difensori di questi principi, resta solo l’Europa, perché in Russia, Cina, Asia o Africa nessuno li abbraccia». 
L’elezione di Trump è una reazione alla «fine del potere»?
«La gente non digerisce l’assenza di leader forti: vuole i “terribili semplificatori”, e Trump vende certezze. Oggi è facile prendere il potere in maniera inusuale, difficile usarlo, e più facile perderlo. L’abbiamo visto con la Brexit, Podemos, il Movimento 5 stelle, Syriza, Chávez. Protagonisti non tradizionali giocano fuori delle regole e ottengono il potere. Poi lo usano, scoprono che è più difficile di quanto credevano, e lo perdono. È già successo negli Usa col Tea Party, e lo stesso si applica ora a Trump. Vedremo se sarà capace. Se da presidente si comporterà come da candidato, ci saranno enormi problemi nel mondo e negli Usa».
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Meno tasse e più barriere La “Trumponomics” promette crescita al 4%
Il presidente designato punta a una svolta protezionista e vuole ridurre le imposte

FERDINANDO GIUGLIANO Rep
ROMA. L’elezione di un nuovo presidente può provocare sconvolgimenti nel pensiero economico dominante che vanno ben oltre gli Usa. L’arrivo di Ronald Reagan alla Casa Bianca nel 1981 portò alla ribalta un’agenda di deregolamentazione e tagli delle tasse - la “Reaganomics” - che avrebbe poi fatto scuola in altri Paesi del mondo. Il successo di ieri di Donald Trump ha il potenziale per segnare un nuovo cambio di paradigma. Certo, il
tycoon
repubblicano non è nuovo a retromarce, che potrebbero fargli abbandonare il programma annunciato in campagna elettorale. Tuttavia, da quanto visto fin qui, la “Trumponomics” rischia di avere effetti radicali sull’economia globale, contribuendo a disfare il processo di globalizzazione degli ultimi decenni, a ridurre i poteri delle banche centrali e a far crescere irresponsabilmente il deficit facendo schizzare in alto l’inflazione.
LIBERO SCAMBIO
Il trionfo a sorpresa di Trump negli stati della rust belt come Michigan e Ohio è dipeso in larga misura dalle sue posizioni contro il libero scambio: il candidato repubblicano ha detto di voler imporre dazi del 35% e del 45% sulle merci importate, rispettivamente, da Messico e Cina, e si è opposto al trattato commerciale con una dozzina di Paesi del Pacifico chiamato TPP. Per quanto l’establishment repubblicano possa provare a fermare gli istinti di The Donald, l’era di apertura che ha segnato la presidenza di Barack Obama sembra destinata a concludersi. Gli Usa finiranno per dare un contributo decisivo al ritorno del protezionismo, che sta trovando sempre più accoliti in Europa, a partire da Francia e Germania fino alla piccola Vallonia. Questi cambiamenti avranno però un costo: il Peterson Institute ha stimato che le politiche commerciali di Trump potrebbero far perdere agli Usa 4,8 milioni di posti di lavoro, a causa delle probabili ritorsioni commerciali da parte di Pechino e delle altre capitali.
POLITICA MONETARIA
Donald Trump ha cambiato spesso idea sulla politica monetaria: prima si è espresso a favore della politica di tassi bassi perseguita da quasi dieci anni dalla Federal Reserve dicendo che questa aiuta a rendere il debito pubblico Usa sostenibile. Quest’estate, invece, il neo-presidente americano ha accusato Janet Yellen,
chair della Fed, di tenere i tassi artificialmente bassi per evitare shock durante l’ultima fase della presidenza Obama. La convivenza fra Trump, la maggioranza repubblicana al Congresso e la Yellen rischia di essere complicata: l’ala più estrema del partito vuole ridurre i poteri della Fed, magari sostituendone la discrezionalità decisionale con regole rigide. Se gli attacchi dovessero, com’è probabile, intensificarsi, alla Fed potrebbe toccare una sorte peggiore della Banca d’Inghilterra e della Banca Centrale Europea, che a fatica stanno riuscendo a difendere la loro indipendenza dalle bordate del fronte pro-Brexit e dei politici tedeschi.
TASSE E INVESTIMENTI
Trump non sembra davvero badare a spese nel suo, a dire il vero piuttosto scarno, programma elettorale. Il 45esimo presidente ha promesso un taglio dell’aliquota sui profitti aziendali dal 35% al 15%, oltre a una semplificazione delle tasse sui redditi. A queste e altre misure, che secondo il Committee for a Responsible Federal Budget, potrebbero far aumentare il deficit di oltre 9.500 miliardi di dollari in dieci anni, Trump vuole ora aggiungere un piano di infrastrutture, annunciato ex abrupto nel suo primo discorso da presidente. L’obbiettivo è raddoppiare il tasso di crescita Usa fino a quasi il 4%, ma molti economisti dubitano che questo sia realistico. Di sicuro, una politica fiscale irresponsabilmente espansiva farebbe schizzare in alto l’inflazione: ieri, i titoli di Stato decennali sono saliti sopra il 2% per la prima volta da gennaio in prospettiva di una possibile “riflazione”. Le agenzie di rating hanno però immediatamente segnalato i rischi per i conti pubblici americani: «L’impatto del piano Trump sarebbe negativo per la credibilità dei titoli di Stato Usa, poiché i soli tagli delle tasse non possono generare abbastanza crescita tale da compensare la perdita di gettito», ha scritto Fitch.
CONCLUSIONE
La politica economica di Trump potrebbe rappresentare il primo esperimento su larga scala di rigetto delle misure convenzionali seguite dai Paesi ricchi negli ultimi 25 anni.
L’estrema sinistra e l’estrema destra avrebbero molte ragioni per gioire di questo cambiamento. A tutti gli altri tocca aspettare, e non senza agitazione.
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Pechino sulla difensiva “Faremo fronte alla sua vittoria” 
Dal neo-isolazionismo Usa potrebbero arrivare benefici per la Cina. Timori in Giappone 

ANGELO AQUARO Rep
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
PECHINO. La minaccia di ritorsione è nero su bianco: «Se Trump pensa di colpire i rapporti commerciali bilaterali, dovrà prima pesare le contromosse della Cina. Siamo abbastanza forti da poter far fronte alla sua vittoria». Sono le 18.58 del 9 novembre che ha cambiato l’America e il messaggio sul sito del
Global Times, il giornale in inglese vicino al partito, sembra chiaro: chi ha paura di Donald Trump? Invece anche Pechino ha paura: come tutti. Perché nessuno sa cosa c’è nella testa del miliardario che ha accusato la Cina di rubare il lavoro agli americani: salvo poi venire a farsi produrre le cravatte col marchio “Donald J. Trump” nelle fabbriche di Shengzhou.
Certo: la politica isolazionista di “Chuan Pu”, come qui Trump viene traslitterato, per il Dragone potrebbe rivelarsi una manna.
«La Cina ha appena vinto le elezioni americane », chiosa Foreign Policy. Perché al contrario di Hillary Clinton, che insieme a Barack Obama aveva aperto ai paesi del Sudest asiatico proprio per fermare l’espansionismo cinese, The Donald ha mostrato di infischiarsene di geopolitica: facendo balenare perfino il taglio delle esercitazioni nel Mar della Cina delle isole contese, dove passa però un quinto del commercio Usa. Anche la Corea del Nord sarebbe un problema che spetta alla Cina: convincano loro Kim Jong-un a smetterla di giocare con l’atomica. Ecco perché ieri erano tutti in allarme dalla Corea del Sud al Giappone, dove il ministro della difesa Fumio Kishida ha dovuto precisare che Tokyo «non ha intenzione di dotarsi di armamenti nucleari ». Ma se l’ombrello Usa non c’è più, e le Filippine di Rodrigo Duterte hanno già tradito la Cina, chi più proteggerà chi? Grande è la confusione sotto il cielo. Il nuovo Mao, cioè Xi Jinping, si è naturalmente dovuto congratulare con quel signore che ha fatto campagna mostrando i video con la spada made in China nel cuore dell’America. E che con la sua ammirazione per Vladimir Putin potrebbe ora anche strappare l’Orso russo dall’abbraccio di interesse col Dragone. Xi si è augurato «il rispetto reciproco e la collaborazione vantaggiosa per entrambi». Ma è questo il problema. Non ha promesso Trump di piegare la Cina tassando il suo export per il 45%? Ci provi, dice alla tv di Stato Jia Xiudong del China Institute of International Studies: «Scatterebbero le conseguenze ». È più di un avvertimento: alla Boeing pronta a piazzare 6800 jet per mille miliardi di dollari, a Starbucks che vuole raddoppiare la sua presenza creando 10mila posti di lavoro, a Apple che ha aperto due super centri hitech, a General Electric che ha annunciato il data center a Shanghai da 11 milioni di dollari.
«La verità è che Trump doveva parlare così in campagna elettorale: ma neppure lui può fermare quella cosa che chiamiamo globalizzazione», dice a Repubblica Hong Yuan della Chinese Academy of Social Sciences. «La divisione del lavoro è segnata: a noi la struttura produttiva, a loro quella finanziaria». Per la verità i cinesi si sono buttati pure sulla finanza: anche se adesso temono che la campagna acquisti sfociata nella conquista di Hollywood della Wanda di Wang Janlin possa subire la prima ritorsione. «Ecco gli effetti della vostra democrazia», diceva ieri ironico un editoriale di Xinhua. Prepariamoci, anche qui, agli effetti della ritorsione.
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Il nuovo ordine mondiale Da Puti
n agli alleati Nato l’era dell’incognita Trump
Il futuro presidente non vuole guidare il globo, né esserne guidato. Il suo mantra è “l’America prima di tutto”. E così apre alle ambizioni delle potenze rivali

LUCIO CARACCIOLO Rep
UN MISTERO avvolto in un enigma: la celebre definizione che Winston Churchill diede dell’Unione Sovietica può essere applicata alla politica di Donald Trump verso la Russia — e verso il resto del mondo. Lo stesso presidente eletto non sa fino a che punto le aperture verbali a Putin che hanno punteggiato la sua campagna elettorale potranno diventare realtà. Nella migliore delle ipotesi ha un vago sentimento di quel che vorrebbe fare. Ma non ha la più pallida idea di come realizzarlo. Tantomeno è in grado di sapere se gli altri poteri e contropoteri americani non glielo impediranno.
SEGUE A PAGINA 12
TRUMP è scaltro e intelligente, ma un businessman newyorchese non si improvvisa leader della massima potenza mondiale. Avrà bisogno di tempo, risorsa scarsissima per qualsiasi inquilino della Casa Bianca. Sicché le probabilità che almeno inizialmente il nuovo presidente appaia erratico nell’approccio alla Russia e al mondo sono alte.
Per almeno tre motivi: la sua carente informazione sui dossier, a fronte di omologhi, Putin su tutti, padroni dei dettagli e carichi di esperienza; il suo istinto per il rapporto personale, tipico dell’uomo d’affari ma improbabile per uno statista in quanto rappresentante di una nazione, non della propria azienda; soprattutto, il ruolo decisivo degli apparati amministrativi, diplomatici, militari e di intelligence, nel declinare in atti e fatti le visioni del presidente — o nell’insabbiarli.
Il planisfero mentale di Trump è funzione della sua introversione geopolitica: l’America prima di tutto. Il nuovo presidente non vuole guidare il mondo, solo evitare di esserne guidato. La globalizzazione è minaccia, quasi invasione aliena — altro che americanizzazione del mondo, secondo il mantra di casa Clinton. In termini pratici, si tratta quindi di drenare i flussi migratori dal Messico, rivedere se possibile il Nafta, affossare i grandi trattati geopolitico-commerciali voluti da Obama — il transatlantico (Ttip) pare già abortito, il transpacifico (Tpp) soffre di un parto forse prematuro — e spiegare agli alleati europei (Nato) e asiatici (Giappone e Corea del Sud su tutti) che non possono contare a occhi chiusi sull’ombrello a stelle e strisce. In generale, la tendenza al ripiegamento dagli affari del pianeta apre varchi formidabili alle ambizioni delle potenze rivali mentre allarma gli alleati.
Il dossier più caldo è quello russo. Fra Stati Uniti e Federazione Russa è in corso una guerra ibrida, con epicentri in Ucraina e in Siria. Specialmente nel primo caso, il rischio che dallo scontro limitato e indiretto si slitti per accidente al conflitto diretto, coinvolgendo la Nato, è tutt’altro che trascurabile. Trump parrebbe deciso a disinnescare questa mina, tanto da rimbrottare il suo vice Mike Spence per aver denunciato le “provocazioni” russe.
Le reazioni di Mosca alla vittoria del tycoon newyorchese sono piuttosto sobrie, anche perché molti al Cremlino preferivano avere a che fare con un nemico dichiarato, ma noto, come Hillary Clinton, piuttosto che con l’incognita Trump. Putin ha comunque messo in chiaro di essere interessato a un rapporto “paritario” con la Casa Bianca. È il suo sogno da sempre, finora inappagato: essere trattato da coprotagonista globale, non puro attore regionale, come pretendeva Obama. In ogni caso, per far la pace con Mosca Trump dovrà passare sul cadavere del Pentagono, per nulla interessato a perdere risorse e visibilità acquisite nelle crisi di Mesopotamia e Ucraina.
Fatto è che, grazie agli errori e alle incertezze di Obama, Putin occupa il centro del ring. Anche per aver agganciato strumentalmente Pechino e aver mantenuto, sotto il pelo dell’acqua, solidi legami con Berlino: carte da giocare al tavolo di un eventuale compromesso globale con Washington. Se un’ipotesi del genere si profilasse all’alba della presidenza Trump, possiamo star certi che al Congresso come nelle comunità militari e dell’intelligence — ma persino ai gradi medio-alti della Casa Bianca — il fronte dei sabotatori sarebbe piuttosto vasto. E Trump scoprirebbe che per cambiare di qualche grado la rotta di una corazzata non basta l’energia di un volenteroso ammiraglio.
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“Sanders un socialista, sarebbe caduto anche lui” 

L’INTERVISTA/ LO SCRITTORE ENGLANDER: IL VINCITORE HA GIOCATO SULLA PAURA, CLINTON NON POTEVA SCENDERE AL SUO LIVELLO

ANTONELLO GUERRERA Rep
NATHAN Englander, dopo l’incredibile trionfo di Trump, c’è chi dice: “Ah, se ci fosse stato Sanders al posto di Hillary...”
«Io ero per Clinton in questa mostruosa campagna elettorale. Ma Sanders non avrebbe vinto mai».
Perché? Avrebbe potuto placare l’onda antiglobalizzazione, fermare la fuga degli elettori bianchi della classe media e operaia ipnotizzati, mesmerizzati da Trump...
«Si sbaglia. Sanders è un socialista. E i socialisti in America sono condannati a perdere. Come forse le donne. Che cosa avrebbe dovuto fare Hillary? Vestirsi da uomo?».
Nathan Englander, uno dei maggiori scrittori americani, autore di Di cosa parliamo quando parliamo di Anna Frank (Einaudi) e tra i preferiti di Philip Roth, non ha rimorsi. Hillary era la candidata giusta. E nessuno avrebbe potuto cambiare le cose. Lo Zeitgeist, il furioso spirito del tempo di quest’America, avrebbe travolto chiunque.
Forse, però, Sanders avrebbe resuscitato quella “speranza” che lanciò Obama. Invece, stavolta l’ha sequestrata Trump.
«Quella di Trump è speranza negativa, a differenza delle idee positive di Clinton. Ha accumulato consenso con singole promesse, ideate per aizzare i sentimenti più riprovevoli e malvagi di ogni strato sociale: i migranti, i musulmani, il lavoro operaio...».
Quindi non ci sono stati errori,da parte di Hillary e del Partito democratico?
«No, perché non c’è stata gara: Trump giocava su un altro tavolo, quello della paura, delle discriminazioni, delle offese gratuite, della delegittimazione della democrazia. Clinton, forse la candidata più qualificata di sempre degli Stati Uniti, non poteva scendere al suo livello. Doveva preservare i valori dell’America che amiamo, come ha fatto anche nel suo discorso dopo la sconfitta. Ma non è bastato. Non poteva bastare. L’onda era troppo forte».
Perché in tanti, soprattutto nella classe media e operaia bianca, hanno tradito i democratici?
«Innanzitutto, per un effettivo peggioramento delle condizioni di lavoro, soprattutto negli Stati operai: non è possibile lavorare in Ohio, in Minnesota per 18 ore e pochi dollari in cambio. Il sogno americano è a brandelli. Ma questa è solo una parte della storia. Perché Trump era il candidato perfetto per l’America di oggi, soprattutto nell’epoca di Internet, Twitter e dei social media. Siamo in un “mondo nuovo”, dove tutto cambia troppo rapidamente, anche la vita delle persone. E la “vecchia” politica sa e può reagire sempre meno. Regna un estremismo delle emozioni. Che, come fanno gli algoritmi online che ci mostrano solo le cose che ci piacciono, ci chiude la mente, invece di aprirla».
Al momento lei è in Malawi. Cosa si aspetta al suo ritorno in America?
«Sono spaventato, molto. Non potrei stare senza la mia New York. Ma ci aspettano tempi durissimi. Le tensioni sociali infiammate da Trump presto esploderanno e nessuno può prevedere quanti danni faranno. L’eredità di Obama, come la riforma sanitaria, potrebbe essere presto cancellata. Pensavo di ritrovare un Paese sempre più avanzato. Invece, stiamo tornando indietro».
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“Sono incredula le sue offese sessiste rimaste impunite” 
L’INTERVISTA/ELIZABETH STROUT, SCRITTRICE

ANTONIO MONDA rep 
NEW YORK. La scrittrice Elizabeth Strout è rimasta in piedi sino a tardi a seguire, con sconcerto crescente, il trionfo di Donald Trump. Parla come se non si fosse ancora riavuta da un incubo, iniziato quando i risultati indicavano che lo Stato della Florida era a rischio, seguito poi dal tracollo in Ohio e del Wisconsin. È in partenza per Indianapolis, dove in serata terrà una conferenza, e accetta di dialogare alle sette del mattino, sulla via dell’aeroporto. «Mi sento male fisicamente, molto male», confida con voce affranta e angosciata «e so bene che si tratta di una reazione a quello che è successo ».
Quale è la sua prima reazione come donna?
«Quella di paura e orrore. Non riesco ad aggiungere altro».
Le ripetute prove della volgare misoginia di Trump non hanno scalfito la sua vittoria.
«È uno degli elementi più sconcertanti: ritenevo che quelle rivelazioni lo distruggessero, ma sono risultate del tutto ininfluenti. In che mondo viviamo? Ciò accentua la mia paura e il mio orrore».
Che cosa non ha funzionato in Hillary Clinton?
«Non sono un’analista politica: ma è evidente che Hillary non abbia saputo parlare alla pancia del Paese, e tantomeno conquistarla. È apparsa come un prodotto dell’establishment».
Hillary è stata First Lady dal 1992 al 2000 e poi Segretario di stato dal 2008 al 2012: paradossalmente, è sembrata più vecchia di Trump.
«Ma questi non dovrebbero essere elementi di garanzia di esperienza? Dipende poi cosa si intende per gioventù e vecchiaia: oggi assistiamo ad un rifiuto, netto e violento».
Il “New York Times” ha parlato di “uno sconvolgente ripudio dell’establishment”.
«È un ripudio anche di quello che è il potere dei media. E tutto ciò offre un dato in qualche modo rivoluzionario: il Paese, e forse il mondo interno, non è apparso pronto a capire che cosa stava succedendo ».
Anche i media sono stati ininfluenti.
«La gran parte dei giornali e delle televisioni hanno appoggiato Hillary, facendo una campagna durissima che non ha avuto alcun effetto. Ripenso alle pagine del
New York Times in cui si elencavano le mostruosità dette da Trump. Risultato? Zero. E il New Yorker la settimana scorsa ha pubblicato articoli che iniziavano “tra pochi giorni avremo il primo presidente donna”. Su questo sono in molti a dover riflettere».
L’America è pronta a una presidenza Trump?
«A questo punto dobbiamo augurarcelo, non abbiamo altra scelta. Ma non è solo l’America a dover essere pronta, sono in gioco le sorti del mondo intero».
Dove ha seguito le elezioni?
«A casa, con mio marito Jim Tierney, e stentavo a credere a quello che stava succedendo. I risultati hanno superato le nostre peggiori aspettative, anche in termini numerici: oltre alla conquista della presidenza, dobbiamo tener conto del controllo del Congresso, senza considerare il voto elettorale, ininfluente, ma molto significativo. Oggi Trump ha un potere enorme».
Ritiene che sia una sconfitta anche per Obama?
«So solo che lo rimpiangeremo molto».
Con pochissime eccezioni, l’élite culturale è tutta per Hillary: sembra che questo non conti nulla. E sembra che la sinistra non riesca a parlare a quella che un tempo è stata la sua constituency.
«È un problema che è diffuso ormai da numerosi anni: l’élitismo della sinistra oggi paga un conto altissimo. E, tornando alla stampa, il liberal New York Times dava Hillary Clinton vincente all’84%: al netto di errori condivisi quasi da tutte le testate, un altro vizio del mondo liberal è quello di confondere gli auspici con la realtà».
Trump ha vinto promettendo di rifare “l’America grande di nuovo”.
«Purtroppo è stato uno slogan di successo, ma credo ti sia evidente che la sua idea di grandezza non coincide con la mia e quella di milioni di elettori che hanno votato come me. Ma devo abituarmi a pensare che nel Paese questa è una minoranza».
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L’Europa dei populisti  La destra esulta e si prepara alle elezioni
Sdoganato il partito della paura. Verso il voto Austria, Olanda, Francia e Germania

ANDREA BONANNI Rep
BRUXELLES IL PREMIER ungherese Orbán si congratula : «Che buona notizia! ». Marine Le Pen esulta. Matteo Salvini si felicita addirittura di vedere «il programma della Lega» adottato alla Casa Bianca. Dopo la vittoria del referendum sulla Brexit, l’Internazionale populista interpreta la vittoria di Trump come lo sdoganamento definitivo del Partito della Paura. E si prepara all’offensiva politica in Europa con un occhio alle prossime scadenze, che in meno di un anno metteranno in gioco gli equilibri di quasi tutto il continente. La prima scadenza sarà il referendum italiano sulle modifiche alla Costituzione.
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LA POSSIBILITÀ di dare una spallata al governo attraverso la vittoria dei «no» non elettrizza solo le opposizioni, visto che poche ore dopo la vittoria di Trump i mercati hanno fatto immediatamente salire lo spread dei titoli di debito italiani paventando una imminente instabilità politica. Quasi in contemporanea con il referendum italiano ci sarà la ripetizione delle elezioni presidenziali in Austria, ripetute per un cavillo procedurale. E qui il nazional-populista Norbert Hofer conta di prendersi la rivincita contro il candidato dei Verdi (e di tutti gli altri), che lo aveva battuto di un soffio nelle consultazioni poi annullate.
A marzo sarà la volta dell’Olanda. Dove già il clima anti-sistema è stato reso tangibile dalla incredibile vittoria di un refrendum popolare contro la ratifica del trattato di associazione tra la Ue e l’Ucraina, referendum indetto quasi per scherzo da un settimanale satirico. Il leader dei populisti-xenofofobi, Geert Wilders, spera di poter strappare la leadership all’attuale capo del governo, il liberale Mark Rutte. E naturalmente la vittoria di Trump è manna per i suoi sondaggi. Wilders la definisce « un risultato storico, una rivoluzione» e, come Salvini, si fa prendere dall’entusiasmo adottando lo slogan di Trump, «make America great again» e adattandolo all’Olanda: «far tornare grandi i Paesi Bassi » sarà il motto dei populisti alle prossime elezioni, con buona pace della congruità.
Dopo l’Olanda toccherà alla Francia, dove Marine Le Pen non ha neppure aspettato l’annuncio ufficiale di Trump per congratularsi con lui del suo trionfo. Secondo la leader del Front National, che oggi guida il partito più forte del panorama politico francese, la vittoria del miliardario americano «è una buona notizia per la Francia». Quasi certa di uscire vincitrice al primo turno, la Le Pen comincia ad accarezzare l’idea di poter anche sconfiggere l’alleanza tra socialisti e conservatori al ballottaggio.
Infine, sempre che lo tsunami populista non provochi impreviste crisi di governo con elezioni anticipate, in autunno toccherà alla Germania andare alle urne. E, anche qui, il partito nazional populista Alternative fuer Deutschland, potrebbe riservare qualche sorpresa. Da mesi sta incassando successi sorprendenti in tutte le elezioni regionali. Anche se non arriverà a scalzare la Merkel, ammesso che la Cancelliera decida di ripresentarsi per un quarto mandato, potrebbe indebolirla tanto da costringerla ad una coalizione allargata non soltanto ai socialdemocratici pur di racimolare una maggioranza parlamentare.
Sono stati in molti, ieri, ad evocare quella che è ormai nota come «la profezia di Martin Selmayr». Il potente capo di gabinetto tedesco del presidente della Commissione Jean-Claude Juncker, al G7 di Tokyo definì «un incubo» l’idea di un vertice mondiale in cui, al posto di Obama, Cameron, Hollande e Renzi, sedessero «Donald Trump, Boris Johnson, Marine Le Pen e Beppe Grillo». Allora il suo tweet voleva essere un paradosso e come tale suscitò scalpore e indignazione. Sono passati pochi mesi, e metà del suo paradosso si è già avverata. Da incubo a profezia, di questi tempi, il passo è breve.
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“Tutto iniziò con me in politica non paga essere moderati” 
Jean-Marie Le Pen: sono pronto a ritornare in campo

ANAIS GINORI rep
DALLA NOSTRA INVIATA SAINT- CLOUD.
«Questa valanga è cominciata con me. E’ tutto merito mio». Nella villa sulle alture di Saint-Cloud, Jean-Marie Le Pen appare raggiante anche se costretto al riposo da un problema all’anca. La vittoria di Donald Trump per lui non è una sorpresa ma anzi una gradita notizia, come ha detto anche sua figlia Marine. «Sono uno dei rari uomini politici in Occidente ad aver puntato su di lui» rivendica il fondatore del Front National, 88 anni, ormai escluso dal partito. «Ho capito subito che Trump aveva la stoffa, mi assomiglia anche un po’. Sembra un Le Pen americano».
Si sente vicino al nuovo presidente Usa?
«Contro di lui c’è stata una campagna di diffamazione simile a quella che ho subito negli ultimi quarant’anni. I soliti cliché: razzista, sessista. Alla fine guardate il voto: anche donne, neri e latinos hanno votato per lui. E ancora una volta sono stati smentiti sondaggi e media, esattamente come accadde a me nel 2002, quando arrivai al ballottaggio delle presidenziali senza che nessuno lo avesse previsto».
Come spiega il voto?
«Quel che accade negli Usa sta succedendo in Europa. Abbiamo visto il Brexit, ne vedremo delle altre. Come ha detto Trump, c’è anche il fatto che è forse l’ultima volta che gli americani purosangue possono essere maggioranza. In America, come in Europa, rischiamo di essere sommersi dall’ondata migratoria».
Il risultato Usa aiuterà il Front National?
«Il fulcro della campagna di Trump è lo stesso su cui puntiamo da anni: il ritorno delle frontiere, la difesa della sovranità nazionale, l’opposizione del popolo contro le élite. E’ la conferma che siamo sulla strada giusta».
La prossima sorpresa sarà l’elezione di Marine Le Pen? «Solo se sarà capace di imparare dalla lezione che viene dal voto Usa».
Ovvero?
«Il trionfo di Trump è la dimostrazione che la svolta moderata decisa da Marine è una fregatura o, se vogliamo dirlo con eleganza, un pericoloso errore. Con la
dédiabolisation, la normalizzazione del nostro partito, rischiamo di non essere più in sintonia con un’opinione pubblica che si sta sempre più radicalizzando».
Trump è più radicale di Marine?
«Almeno lui non ha avuto paura di cavalcare quello che i nostri avversari chiamano populismo. E così è riuscito prima a travolgere gli altri concorrenti nelle primarie repubblicane e poi a entrare alla Casa Bianca dove nessuno pensava arrivasse. Ha avuto anche l’onestà di fotografare la drammatica realtà senza censurarsi, analizzando con lucidità le cause della nostra attuale decadenza. Sono per la libertà di espressione assoluta».
Comprese gaffe e provocazioni, come Trump.
«I media prendono una battuta e la mettono fuori contesto per costruirci uno scandalo. Nella mia lunga carriera politica ho vinto 120 processi in diffamazione. Ne ho perso solo qualcuno: certo quando succede fa male, anche economicamente. Comunque gli elettori sanno riconoscere le manipolazioni dei media. Nel caso di Trump, le cose che ha detto su messicani o donne sono piuttosto innocenti. Capita anche a me di fare battute del genere».
Infatti è stato espulso dal Fn proprio per questo.
«Marine ha sbagliato. Pensava di liberarsi di una palla al piede, ma io sono una palla di cannone. La vittoria di Trump dimostra che ho ragione su tutta la linea. Se il Fn vuole vincere in primavera le elezioni presidenziali dovrà riunificarsi e cancellare la mia esclusione. Mancano otto mesi al voto. In caso contrario, non escludo che Marine non arrivi neppure al ballottaggio».
E’ mosso dal risentimento contro sua figlia?
«Non ho mai cercato la guerra. Anche se non vedo e non parlo più con Marine da mesi, le ho lanciato diversi segnali di pace. L’ultimo è aver accettato di finanziare la sua campagna elettorale attraverso una mia società. La previsione che faccio sul voto in Francia è una lettura obiettiva. La crescita del Fn è ancora relativa e discontinua. E’ dovuta più agli eventi che alla strategia di Marine. Se invece tornassimo alle origini, seguendo l’esempio di Trump, raccoglieremo ancora più consensi. Non è un’ipotesi: è una certezza».
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NON RICONOSCO PIÙ LA MIA AMERICA 

LAUREN GROFF Rep
SONO le quattro del mattino. La Florida è ancora immersa nell’oscurità. Sono allibita; non riesco a dormire.
Sembra che il lungo incubo dell’America sia appena iniziato.
L’odio ha sconfitto la speranza. La rabbia e il rancore hanno sconfitto la dignità umana. Il candidato alla presidenza meno competente e qualificato della storia americana ha battuto, non si sa come, quello più competente e qualificato.
Donald Trump incarna tutti i peggiori stereotipi che da decenni gli europei associano agli americani. È superficiale, poco istruito, volgare, pacchiano, più apparenza che sostanza, vomita orrori, è ignorante. Viene dallo spettacolo e là è rimasto. È un truffatore che è andato molto oltre le sue capacità naturali e poi si è coperto di vernice d’oro. Ma quel che è peggio è un pericolo attivo. È sul libro paga di Putin; ci sono i russi dietro l’hackeraggio delle email che tanto ha danneggiato Hillary Clinton. È uno che abbocca ai tweet e tira tardi per insultare i suoi nemici. Si vanta di poter allungare le mani sulle donne senza problemi perché è un potente. È svagato, non sa nulla di politica e quello che sa gli viene inculcato dalla gente orribile di cui si circonda. Questa gente orribile è determinata a demolire il sistema di sicurezza sociale, sventrando la scuola pubblica, negando alle donne il diritto di decidere liberamente sul proprio corpo e la maternità, saccheggiando l’ambiente in nome di interessi commerciali, e riportando indietro l’America di settant’anni, all’epoca in cui i neri erano cittadini di seconda classe, repressi dai bianchi.
I miei amici di colore erano angosciati all’idea di una possibile vittoria di Donald Trump, un passo indietro rispetto agli otto anni di mandato del primo presidente di colore, lo straordinario Barack Obama, brillante, ponderato e misurato. L’altro ieri sera, prima che l’ansia mi spingesse ad andarmene a casa, a leggere un libro per non pensare a cosa stava accadendo a questo Paese che amo così tanto, ero a una festa con un’amica di origine nigeriana, che vedendo gli Stati americani colorarsi di rosso uno dopo l’altro sui grafici ha cominciato a tremare. Si è ripiegata su se stessa in preda alla nausea. Temo per la sua sicurezza in questa nuova America piena d’odio. Temo per gli immigrati che lavorano sodo per garantirsi una vita migliore. Questa elezione ha insegnato che l’America non apprezza il loro sangue e il loro sudore. Quest’America non li merita.
Non pensavo davvero che fosse possibile una vittoria di Trump. Avevo fiducia nella bontà d’animo e nella generosità degli americani; so per esperienza diretta che fanno di tutto per aiutare uno straniero. Sono fieri delle loro azioni durante la seconda guerra mondiale e della generosità dimostrata dal Paese nei confronti dei loro stessi antenati, in gran parte provenienti da altri lidi, che si sono stabiliti qui e hanno fatto fortuna. Tutti i sondaggi indicavano la netta vittoria di Hillary Clinton. Nessuna grande testata americana ha appoggiato Donald Trump, a parte il giornale di proprietà di suo genero. Ma questo Paese, tanto spesso nobile in passato, il primo al mondo a dare la democrazia ai suoi cittadini, ha usato i frutti della democrazia per farsi del male con un atto di follia.
Sono in preda alla rabbia, incapace per ora di guardare negli occhi i miei figli e dirgli che il loro futuro sarà enormemente più cupo, perché il loro Paese ha appena scelto di eleggere un uomo cattivo invece di una donna buona. Ho la totale consapevolezza che questa elezione deriva da una grande misoginia, rabbiosa e collettiva. So da sempre che l’America ha grossi problemi con le donne — il sessismo è radicato nel mito del cowboy che ha influito così pesantemente in senso negativo sull’identità maschile in questo Paese — ma non pensavo proprio che l’America odiasse le donne al punto da eleggere il tipo di uomo che le usa come elemento decorativo, ne parla con disprezzo in termini disgustosi, le giudica inferiori a sé perché è nato maschio. Non pensavo mai che una donna con qualche difetto ma un’ottima reputazione internazionale, un grande sapere e incredibile competenza, avrebbe suscitato un odio così aspro da parte di un Paese pieno di uomini che non vogliono cedere neppure una briciola della loro egemonia. Sono scossa al pensiero che esistano donne che si odiano al punto da fare una scelta elettorale che le danneggia, che credono alle incredibili menzogne diffuse da fanatici e votano contro i loro interessi.
Al sorgere del sole me ne andrò a correre nei boschi della Florida che amo tanto, e piangerò, mangerò un sacco di cioccolata fondente e abbraccerò i miei figli fino allo sfinimento. So che questo Paese supererà questo momento buio, ma mi è anche chiaro che non lo supereremo uniti. L’America di oggi è profondamente divisa, frantumata, irriconoscibile. Una gran parte di me ha voglia di andar via, di mettere radici altrove, in un posto che sia più equilibrato e razionale. Lo sono quasi tutti a confronto.
La fuga è la soluzione dei vigliacchi però, e anche se l’America ha mostrato al mondo il suo lato imbarazzante e rivoltante, anche se dovremo vivere con quel volto sul suo piccolo trono dorato per altri quattro anni, questo non è un Paese per vigliacchi. Questo è un Paese per chi sa lottare. E io non permetterò che Donald Trump e la sua banda carica d’odio si prendano questo Paese e lo facciano a pezzi. Io reagirò. Domani. Ma oggi piangiamo. Per l’America e il mondo che tanto dipende dall’America, per l’ambiente che abbiamo allegramente buttato nella spazzatura con l’elezione di questo scriteriato, adesso noi piangiamo.
© Lauren Groff 2016 Traduzione di Emilia Benghi ( Lauren Groff è una scrittrice americana. Il suo ultimo libro — “ Fato e furia”, Bompiani — è il preferito di Obama nel 2015)
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LA POLITICA DEL TRAM 

PAOLO RUMIZ Rep
DOPO aver dedicato una vita all’ascolto delle periferie, sono un po’ stufo dello sconcerto dei bempensanti per le bastonate elettorali inflitte dalle Destre al pensiero “no border”. Sempre la stessa scena, sempre lo stesso brusco risveglio davanti al caffellatte del mattino o al ritorno in ufficio. “Incredibile”, “Non me l’aspettavo”, “Voto shock”, “I sondaggisti hanno sbagliato”, eccetera. È successo in Gran Bretagna col no a Bruxelles, in Francia con la minaccia lepenista, in Est Europa col ritorno dei populismi, persino in Italia col voto alla Lega Nord e poi ai Cinquestelle. Ora torna ad accadere col voto americano.
Eppure è sempre lo stesso film. In Europa come in America vincono le periferie frustrate e senza voce, quelle banlieue spaventate dalla globalizzazione che nessuno ascolta e che riescono a esprimersi solo al momento del voto. Lo schema si ripete da troppo tempo perché io non cominci a sospettare che qui realmente ci sia una coazione all’errore. Che non si voglia capire, e che sia in atto nel pensiero democratico una clamorosa fuga dalla realtà. Mi chiedo: quanto i democratici frequentano realmente questi luoghi, ne ascoltano il malessere e parlano con la gente comune? Come impostano le loro campagne elettorali? Nei club esclusivi o fra la gente?
Se c’è una cosa che ho capito nella mia vita raminga, è che si impara più in tram che dalle analisi di un luminare, più dal bar d’angolo che da un costoso sondaggio. I treni russi mi hanno avvertito con largo anticipo di quello che stava per succedere in Ucraina e le volontà imperiali della Russia di Putin. Il mitico bus “Greyhound” americano mi allertò, a suo tempo, della popolarità di un Reagan cui nessun ufficio studi dava ancora un briciolo di credito. Facendo l’Appia a piedi ho sentito distintamente il crescente influsso della camorra su Roma. Ora io non pretendo che i politici si carichino uno zaino sulle spalle per battere a piedi i loro collegi. Mi basterebbe che salissero su un mezzo di trasporto pubblico per sentire la pancia del Paese.
Tornando all’America – ma in realtà la questione è planetaria - la domanda è: Hillary è mai andata in tram? Temo di no. Non che il miliardario Trump ci sia mai salito se non per farsi filmare dalle tv. Ma Trump parla il linguaggio della gente. Si rivolge alla pancia. Hillary parla alla testa del Paese, con algidi teoremi, competenza, alleanze altolocate e statistiche. Non basta. Il pensiero democratico deve urgentemente dotarsi di un linguaggio diverso per non condannarsi a perdere per altri trent’anni. Per un motivo elementare: tra le ragioni della pancia e quelle della testa, vincono sempre le prime. E allora, come uscirne?
Certo, la Destra populista non ha mai offerto soluzioni ai problemi di queste periferie decisive per le sorti del mondo democratico. Ha venduto quasi sempre illusioni. Ha fornito semplicemente megafoni e amplificatori al malessere. Ha indicato un nemico, anche per evitare che qualcuno mangi la foglia e capisca la sua corresponsabilità nei confronti di quel malessere. Di più: essa trae voti dall’emarginazione che essa stessa crea con la sua ideologia “darwinista”, basata sulla legge del più forte, del pistolero cow-boy. Ma un megafono è meglio di niente. È sempre meglio di un vuoto ripetitore del silenzio e delle quotazioni Nasdaq di Wall Street.
E allora come smascherare questo gioco, come smarcarsi rispetto alle ragioni dello stomaco e alle false promesse degli arruffapopoli? La soluzione sta sempre lì, in quella grande metafora della vita quotidiana che è il trasporto pubblico. Treni di seconda classe, stazioni, fermate d’autobus, sale d’aspetto. Cesare Zavattini disse: il cinema italiano è finito nel momento in cui i registi hanno smesso di andare in tram. Per ragioni analoghe, Berlinguer chiese a Bettino Craxi se era mai andato in tram, e lui rispose altezzoso che no, perché aveva l’autista. Peccato rispose Enrico, impareresti molto. Craxi non volle imparare.
È viaggiando con la gente che impari ad ascoltare, a porti nel modo giusto di fronte ai piccoli drammi del quotidiano che affliggono la maggioranza. Impari a condividere. Familiarizzi con l’abc dell’empatia, che nessun talk show ti darà mai. Soprattutto impari a non tacere di fronte alle bestialità, a replicare con fiammate di passione alle ragioni dell’odio. Impari a rispondere picche alle urla dei beceri, e a farlo in modo nuovo, offrendo a tanta buona gente un esempio cui fare riferimento. Apprendi come usare quella cosa che sta esattamente a metà fra le ragioni della pancia e quelle della testa. Il cuore. La pompa delle nostre passioni, che i democratici sembrano aver perduto.
Papa Francesco, prima di sbarcare in Vaticano, prendeva il tram per spostarsi spesso senza scorta nelle immense periferie di Buenos Aires. È lì che ha imparato prima ad ascoltare e poi a parlare con il cuore. È per questo che oggi egli è più popolare di qualsiasi politico nel mondo dei democratici senza più casa. Quando mi spendo nelle scuole e parlo a aule piene di adolescenti spaesati, spesso saturi di web e senza più maestri nemmeno in famiglia, vedo che essi apprezzano due sole cose in chi li incontra. Non la competenza professorale, ma le scarpe impolverate e la passione ardente del cuore. È grazie a queste sole armi che vedo accendersi i loro occhi.
È quello il passepartout. Quello l’argine fondamentale all’imbarbarimento del linguaggio, alimentato dai “social” e dalla Tv spazzatura, che potrebbe portare molto male all’Europa e al mondo. Andate in tram, cari politici. O vi ci dovrete attaccare.
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L’ERRORE DELLE ÉLITE 

ALEXANDER STILLE Rep
SEMBRA una città in lutto New York dopo la vittoria di Donald Trump: poca gente per strada, tutti con la faccia lunga, i visi pallidi e gli uomini che non hanno fatto la barba dopo una lunga notte guardando i risultati o soffrendo l’insonnia. Nella farmacia sento una donna nera di origine giamaicana che dice: «Ho visto una signora ebrea che piangeva». Avevo una riunione abbastanza presto all’università: il palazzo era quasi vuoto. Molti hanno chiamato, scusandosi: «Non ce la faccio, resto a casa». Amici musulmani hanno paura. «Allora, facciamo le valigie?» dice una, semi-scherzando.
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LE EMOZIONI più comuni: shock, incredulità, vergogna, rabbia, disgusto. Mia suocera è allibita, ma non ha perso il suo sense of humor mandando un messaggio dal territorio rosso della Florida: “Metterà un’insegna TRUMP in lettere d’oro sopra la Casa Bianca?”
Passate le prime reazioni si comincia ad interrogarsi su tutta una serie di questioni: dove ci siamo sbagliati, noi dei media, o del partito democratico? Cosa farà Trump davvero? Quanto della retorica violenta, intollerante in campagna elettorale si tradurrà in azioni di governo e quanto era puro spettacolo?
Cominciamo con un po’ di autocritica: pochi nel giornalismo (compreso me) hanno pensato verso l’inizio che Trump avrebbe vinto le primarie repubblicane. Pochi hanno previsto la forza sorprendente di Bernie Sanders. Le élite di tutti i due partiti hanno sottovaluto il livello di malumore popolare provocato da 40 anni di globalizzazione, l’erosione della classe media e le difficoltà obiettive di quella che si chiamava la classe operaia. Io, come molti miei amici, ho sostenuto Hillary Clinton nella sfida con Sanders, per delle ragioni pragmatiche: mi sembrava molto difficile che un candidato che si diceva socialista potesse diventare presidente in questo Paese conservatore e ultra-capitalista.
La Clinton sembrava offrire, come diceva Trump, quasi un terzo mandato di Barack Obama. Obama ha ereditato due guerre disastrose e un’economia in ginocchio e il tasso di disoccupazione del 10 per cento. Ha portato la disoccupazione al 4,9 per cento. L’economia cresce ad un ritmo di circa 2,9 per cento — l’invidia di tutti i paesi democratici. E l’anno scorso il reddito medio è salito (per la prima volta in una generazione) del 5,4 per cento. Obama gode di un buon livello di approvazione pubblica. Sicuramente, abbiamo pensato, la gente non vorrà buttare a mare tutto questo. Purtroppo i progressi — modesti ma reali dell’amministrazione Obama — non hanno fatto dimenticare il trauma della grande recessione. Le guerre disastrose di Bush le paga Obama e avere un candidato, Hillary, che ha votato per l’invasione dell’Iraq non ha aiutato.
Essere il partito della “continuità” in un anno di rabbia popolare che grida cambiamento è stato un errore. Hillary è la quintessenza dell’establishment che molti odiano. Bisognava trovare un modo per captare il bisogno di cambiamento. La strategia del partito democratico — di essere il partito dei poveri e dei ricchi, delle minoranze e dei ceti urbani e laureati, ignorando i bianchi dei ceti medio- bassi — è stato un altro grande errore. Sanders ha parlato a quella gente, Clinton molto meno.
Mai come ora le istituzioni guida del Paese — i partiti politici, i media, le università — hanno contato così poco. Se gli endorsement dei giornali avessero deciso l’elezione, Clinton avrebbe battuto Trump 500 a 35. Anche molti giornali tradizionalmente repubblicani come il Houston Chronicle e il Dallas Morning Herald hanno pubblicato degli editoriali sostenendo Clinton e denunciando Trump come uomo pericoloso e inadatto alla presidenza. La stampa ha fatto il suo mestiere con un lavoro certosino del controllo dei dati, notando gli errori, le esagerazioni, le invenzioni e le menzogne continue di Trump. Il New York Times ha abbandonato il suo tradizionale equilibrio decidendo di usare la parola “bugie” per le dichiarazioni erronee di Trump: perché un errore quando viene ripetuto di continuo dopo essersi rivelato errore diventa bugia. Ma viviamo in un mondo “post- fattuale” in cui non conta tanto la verità fattuale, ma la “verità emotiva” di un discorso. La maggioranza degli elettori di Trump sono convinti che il tasso di disoccupazione sia oltre il 15 per cento non il 4,9 per cento, che Obama sia un musulmano, che la frode elettorale — perpetrata soprattutto da persone di colore — sia un problema gravissimo che potrebbe determinare l’esito delle elezioni. Un’analisi dei discorsi di Trump ha rivelato che racconta una bugia ogni tre minuti. Ma viene giudicato come più credibile e onesto della Clinton che è tra i candidati più precisi e documentati nei suoi discorsi. Allora, è finita l’era dell’illuminismo in cui sembravano vigere la ragione e la scienza?
E che futuro ci attende? Per cominciare, non credo che Trump farà molte delle cose che ha promesso — o minacciato — di fare: il muro sul confine col Messico, una guerra commerciale con la Cina, fine dell’immigrazione musulmana. Ma sicuramente farà almeno tre cose in perfetta sintonia con il Congresso repubblicano: un enorme taglio alle tasse come quello di Bush che distruggerà i nostri conti, arricchendo i ricchi senza arricchire i suoi elettori; un super-conservatore per la Corte Suprema e l’abrogazione della riforma sanitaria di Obama che ha dato assicurazione sanitaria a 20 milioni di persone che prima non l’avevano.
Come scenario minimalista penso al berlusconismo — un periodo di mediocrità e promesse non mantenute, che ha danneggiato soprattutto l’Italia. Gli scenari più allarmanti sono deportazioni di massa, xenofobia dilagante, guerra di religione nel resto del mondo. In queste ore, penso ad un commento di Indro Montanelli nel 1994 quando disse che l’Italia aveva bisogno di una buona dose di Berlusconi per vaccinarsi. Speriamo che questa dose non sia fatale.
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