venerdì 11 novembre 2016

Università: un'innocua lamentazione che finge di criticare il governo

Atenei, protesta contro le cattedre “di governo” 
Lorenzo Gottardo Busiarda 11 11 2016
Cinquecento cattedre universitarie per cinquecento professori e ricercatori d’eccellenza finanziate dal governo italiano con 38 milioni di euro per quest’anno, cui se ne aggiungeranno altri 75 dal 2017 in poi: è il decreto sul fondo Giulio Natta che in questi giorni ha scatenato animate discussioni. Perché, se l’idea di finanziare chi si è distinto nella ricerca, viene accolta da tutti positivamente, a sollevare obiezioni sono le possibili ripercussioni delle assegnazioni di queste cattedre e, soprattutto, la composizione delle commissioni che saranno chiamate a fare la scelta.
Il rischio è quello di creare disparità tra colleghi di ateneo –un migliore trattamento economico, più alto in media del 20-30% –. Ma a spaventare davvero sono le commissioni di valutazione: «commissioni formate da studiosi di alta qualificazione operanti nel campo della ricerca», recita il comma 210 del decreto. Venticinque, in totale, ognuna con un presidente e due commissari nominati direttamente dal Governo. Misura giudicata da molti una forma di sfiducia nei confronti del mondo universitario, ma anche una grave intromissione che potrebbe creare una classe di docenti «clienti». La decisione del Governo ha portato ad una petizione, cui hanno aderito oltre 5000 persone, con tanto di lettera aperta al premier Matteo Renzi sulla piattaforma per la raccolta firme Change.org. «Qui si decidono assunzioni a tavolino, quando ci sono giovani ricercatori di talento che non hanno un contratto per mancanza di risorse», afferma Giovanni Orsina, docente di Storia contemporanea alla Luiss, tra i promotori dell’iniziativa.
Superate le aule degli atenei universitari, il dibattito si è spinto fino in Parlamento. Rispondendo ad un’interrogazione del Movimento 5 Stelle sull’argomento, infatti, il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini ha difeso il decreto sostenendo che in alcun modo si andrà così ad intaccare l’autonomia delle università e che «il procedimento è aperto ad accogliere eventuali suggerimenti che possano integrare e migliorare» le disposizioni relative alla nomina delle commissioni. Parole che però non rassicurano le opposizioni. Tanto che M5s ha lanciato una controproposta: «Se il decreto sulle cattedre Natta non può essere bloccato, che almeno spetti al Cun (il Consiglio universitario nazionale) il compito di nominare i presidenti delle commissioni». Un’ipotesi di compromesso che non dispiacerebbe troppo al mondo universitario.
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Il baronato che espropria studenti e tirocinanti
Università. Lavori servili e gratuiti. Una tesi di laurea scippata e brevettata da alcuni docenti
Silvio Paone Manifesto 12.11.2016, 20:32
La vicenda inizia a fine anni Novanta, a Firenze. Una studentessa presenta la sua tesi di laurea. Uno studio nel quale individua un composto efficace per la diagnosi e la cura della sclerosi multipla. Uno studio grazie al quale quattro docenti dell’università di Firenze otterranno un brevetto. Lei, la studentessa, non apparirà tra gli autori e dunque tra i beneficiari del brevetto. Nonostante abbia ampiamente lavorato, probabilmente a titolo gratuito, per ottenere i dati che hanno condotto al brevetto. Solo pochi giorni fa, dopo una battaglia legale lunga più di dieci anni, la giustizia ha stabilito che la studentessa riceverà un lauto risarcimento.
UNA VICENDA paradigmatica, quella dello sfruttamento del lavoro degli studenti, perché con la progressiva sottomissione dell’accademia alle richieste del «mondo del lavoro» si è avuta la proliferazione di stages e tirocini curriculari. Praticamente, un regalo ad aziende ed istituzioni pubbliche in crisi (università in primis) che possono così contare su un continuo ricambio di manodopera gratuita, priva di diritti e tendenzialmente docile. Docile perché la logica dei tirocini universitari, che soprattutto nelle facoltà scientifiche consistono di fatto nello svolgimento del proprio lavoro di tesi, è assolutamente interna a quella che viene da più parti definita come una vera e propria «economia della speranza».
LA SPERANZA, per lo studente universitario al termine della propria carriera è proprio quella che il tirocinio, il lavoro gratuito e servile, possa costituire un sacrificio necessario, nella fase di passaggio dall’università al mondo del lavoro. Un sacrificio volto a iniziare a ritagliarsi un proprio piccolo spazio. A fare esperienza, a farsi conoscere. Nello specifico della carriera accademica, magari a trovare da subito un barone cui offrirsi anima e corpo. Perché è consapevolezza diffusa il fatto che all’università, in un contesto di generale espulsione del personale precario, tutto quel che resta è in effetti «puntare sul cavallo giusto». Offrirsi a quel particolare docente che si dice disponga dei mezzi economici e delle influenze adatte per offrire una prospettiva almeno sul medio periodo. E chissà, magari dopo anni ed anni di precarietà, sarà proprio quel docente a far si che si rientrerà in quel 6% degli attuali assegnisti che riusciranno ad ottenere un posto di lavoro a tempo indeterminato. Perché di fatto l’instaurazione di un rapporto feudale col barone di turno costituisce l’unica via disponibile per proseguire nella carriera universitaria.
Gli accordi informali di divisione delle risorse e delle posizioni, costituiscono il principale sistema di regolazione dei flussi lavorativi nell’accademia. E i docenti, tanto più sono potenti, quanto più sono gli attuatori della disciplina del lavoro gratuito. Il «baronato» non è una recrudescenza di un sistema feudale passato.
L’ISTITUZIONALIZZAZIONE del lavoro gratuito in ambito accademico di fatto è, almeno in parte, l’assunzione a livello normativo di una prassi già ampiamente diffusa, che è appunto quella di offrire i propri servizi al barone di turno per poter procedere nella carriera accademica. È il riconoscimento definitivo della mitologica figura del «portaborse». Il giovane che da ancor prima di laurearsi si offre come tuttofare al servizio di un docente. Una figura che nella nostra accademia è sempre esistita. E che ora, semplicemente, viene assunta a livello formale. E se parliamo di un rapporto di servitù, l’espropriazione dei frutti del proprio lavoro senza alcun compenso è condizione necessaria e conseguenza ovvia di questo rapporto. Nulla di strano.
QUEL CHE È ACCADUTO a Firenze non è un caso isolato. In molte situazioni è una prassi. Del resto, un tesista, un tirocinante, non è riconosciuto come un lavoratore. Si sta formando, nonostante svolga all’atto pratico tutte le ricerche. E dunque, perché dovrebbero in qualche modo comparire sulla pubblicazione del proprio tutor? Questa è la cruda realtà dei nostri atenei. Mentre il governo getta fumo negli occhi parlando di meritocrazia, e i potentati accademici continuano ad attestarsi su una difesa corporativa di una presunta autonomia che si è di fatto tradotta nell’autonomia di amministrare l’accademia come fosse un bene privato. Studenti e precari compresi.

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