Il baronato che espropria studenti e tirocinanti
UNA VICENDA paradigmatica, quella dello sfruttamento del lavoro degli studenti, perché con la progressiva sottomissione dell’accademia alle richieste del «mondo del lavoro» si è avuta la proliferazione di stages e tirocini curriculari. Praticamente, un regalo ad aziende ed istituzioni pubbliche in crisi (università in primis) che possono così contare su un continuo ricambio di manodopera gratuita, priva di diritti e tendenzialmente docile. Docile perché la logica dei tirocini universitari, che soprattutto nelle facoltà scientifiche consistono di fatto nello svolgimento del proprio lavoro di tesi, è assolutamente interna a quella che viene da più parti definita come una vera e propria «economia della speranza».
LA SPERANZA, per lo studente universitario al termine della propria carriera è proprio quella che il tirocinio, il lavoro gratuito e servile, possa costituire un sacrificio necessario, nella fase di passaggio dall’università al mondo del lavoro. Un sacrificio volto a iniziare a ritagliarsi un proprio piccolo spazio. A fare esperienza, a farsi conoscere. Nello specifico della carriera accademica, magari a trovare da subito un barone cui offrirsi anima e corpo. Perché è consapevolezza diffusa il fatto che all’università, in un contesto di generale espulsione del personale precario, tutto quel che resta è in effetti «puntare sul cavallo giusto». Offrirsi a quel particolare docente che si dice disponga dei mezzi economici e delle influenze adatte per offrire una prospettiva almeno sul medio periodo. E chissà, magari dopo anni ed anni di precarietà, sarà proprio quel docente a far si che si rientrerà in quel 6% degli attuali assegnisti che riusciranno ad ottenere un posto di lavoro a tempo indeterminato. Perché di fatto l’instaurazione di un rapporto feudale col barone di turno costituisce l’unica via disponibile per proseguire nella carriera universitaria.
Gli accordi informali di divisione delle risorse e delle posizioni, costituiscono il principale sistema di regolazione dei flussi lavorativi nell’accademia. E i docenti, tanto più sono potenti, quanto più sono gli attuatori della disciplina del lavoro gratuito. Il «baronato» non è una recrudescenza di un sistema feudale passato.
L’ISTITUZIONALIZZAZIONE del lavoro gratuito in ambito accademico di fatto è, almeno in parte, l’assunzione a livello normativo di una prassi già ampiamente diffusa, che è appunto quella di offrire i propri servizi al barone di turno per poter procedere nella carriera accademica. È il riconoscimento definitivo della mitologica figura del «portaborse». Il giovane che da ancor prima di laurearsi si offre come tuttofare al servizio di un docente. Una figura che nella nostra accademia è sempre esistita. E che ora, semplicemente, viene assunta a livello formale. E se parliamo di un rapporto di servitù, l’espropriazione dei frutti del proprio lavoro senza alcun compenso è condizione necessaria e conseguenza ovvia di questo rapporto. Nulla di strano.
QUEL CHE È ACCADUTO a Firenze non è un caso isolato. In molte situazioni è una prassi. Del resto, un tesista, un tirocinante, non è riconosciuto come un lavoratore. Si sta formando, nonostante svolga all’atto pratico tutte le ricerche. E dunque, perché dovrebbero in qualche modo comparire sulla pubblicazione del proprio tutor? Questa è la cruda realtà dei nostri atenei. Mentre il governo getta fumo negli occhi parlando di meritocrazia, e i potentati accademici continuano ad attestarsi su una difesa corporativa di una presunta autonomia che si è di fatto tradotta nell’autonomia di amministrare l’accademia come fosse un bene privato. Studenti e precari compresi.
Nessun commento:
Posta un commento