martedì 6 dicembre 2016

"Cercare le mediazioni per raggiungere i compromessi possibili" scacciato l'usurpatore la sinistra pronta a tornare a compilare le liste elettorali di coalizione


Corriere della Sera
Corriere



Il governo conta, ma dobbiamo ricominciare dall’opposizione 
Dopo il referendum. Se non vogliamo che domenica sia stata una vittoria di Pirro, il vero impegno per la sinistra comincia adesso. Il governo è importante, ma superato lo slogan «se andremo al governo faremo...». Dobbiamo fare subito, laddove siamo

Luciana Castellina Manifesto 6.12.2016, 23:59 
Evviva. Le vittorie, da un bel pezzo così rare, fanno bene alla salute. E poi questa sulla Costituzione non è stata una vittoria qualsiasi, come sappiamo, nonostante le contraddittorie motivazioni che hanno contribuito a far vincere il No. 
La cosa più bella a me è comunque sembrata la lunghissima campagna referendaria. 
Contrariamente a quanto è stato detto – «uno spettacolo indecente», «una rissa», ecc. – quel che è accaduto contro ogni attesa è stato un rinnovato tuffo nella politica di milioni di persone che non discutevano più assieme da decenni. Come se si fosse riscoperta, assieme alla Costituzione, anche la bellezza della partecipazione. 
In questo senso mi pare si possa ben dire che contro il tentativo di ridurre la politica alla delega ad un esecutivo che al massimo risponde solo ogni cinque anni di quello che fa si sia riaffermata l’importanza dell’art.3, quello in cui si riconosce il diritto collettivo a contribuire alle scelte del paese. Pur non formalmente toccato dalla riforma Boschi, è evidente che la cancellazione della sua sostanza era sottesa a tutte le modifiche proposte. Evviva di nuovo. 
Per noi sinistra il vero impegno comincia adesso. 
Non vorrei tuttavia turbare i nostri sogni nel sonno del dovuto riposo dopo questa cavalcata estenuante e però credo dobbiamo essere consapevoli che per noi sinistra il vero impegno comincia adesso. 
Quella che abbiamo combattuto non è stata infatti solo una battaglia per difendere la nostra bella democrazia da una deplorevole invenzione di Matteo Renzi: abbiamo dovuto impedire che venisse suggellata un’ulteriore tappa di quel processo di svuotamento della sovranità popolare, che procede, non solo in Italia, ormai da decenni. E che il nostro No non basterà di per sè, purtroppo, ad arrestare. 
Viene da lontano, si potrebbe dire dal 1973, quando all’inizio reale della lunga crisi che ancor oggi viviamo, Stati Uniti, Giappone e Europa,su sollecitazione di Kissinger e Rockfeller, riuniti a Tokio, decretarono in un famoso manifesto che con gli anni ribelli si era sviluppata troppa democrazia e che il sistema non poteva permettersela. Le cose del mondo erano diventate troppo complicate per lasciarle ai parlamenti, ossia alla politica, dunque ai cittadini. 
E’ da allora che si cominciò parlare di governance (che è quella dei Consigli d’amministrazione prevista per banche e per ditte) e ad affidare via via sempre di più le decisioni che contano a poteri estranei a quelli dei nostro ordinamenti democratici, cui sono state lasciate solo minori competenze di applicazione. 
Abbiamo protestato contro molte privatizzazioni, poco contro quella principale: quella del potere legislativo. 
Qualche settimana fa Bayer ha comprato Monsanto: un accordo commerciale, di diritto privato. Che avrà però assai maggiori conseguenze sulle nostre vite di quante non ne avranno molte decisioni dei parlamenti. 
Ci siamo illusi che la globalizzazione producesse solo una catastrofica politica economica – il liberismo, l’austerity – e invece ha stravolto il nostro stesso ordinamento democratico. Mettendo in campo per via estralegale quello che dal Banking Blog è stato definito l’acefalo aereo senza pilota del capitale finanziario, impermeabile alla politica. 
Per svuotare il potere dei parlamenti, un po’ ovunque, ma in Italia con maggiore vigore, sono stati delegittimati, anzi smontati, quegli strumenti senza i quali quei parlamenti non avrebbero comunque più potuto rispondere ai cittadini: i partiti politici, addirittura ridicolizzati e resi “leggeri”, cioè inconsistenti e incapaci di costituire l’indispensabile canale di comunicazione fra cittadini e istituzioni. 
Si sono via via annullate le principali forme di partecipazione, o, quando non è stato possibile, sono stati recisi i legami che queste tradizionalmente avevano con una rappresentanza parlamentare. 
Se adesso vogliamo che la vittoria del No non sia di Pirro dobbiamo ricominciare a costruire la sostanza della democrazia, e cioè la partecipazione 
Se adesso vogliamo che la vittoria del No non sia di Pirro dobbiamo ricominciare a costruire la sostanza della democrazia, e cioè la partecipazione, i soggetti sociali – ma anche politici – in grado di non renderla pura protesta o mera invocazione a ciò che potrebbe fare solo un governo. 
Dobbiamo cioè uscire dall’ossessione governista che sembra aver preso tutta la sinistra, e cominciare a ricostruire l’alternativa dall’opposizione. 
La democrazia è conflitto (accompagnato da un progetto), perchè solo questo impedisce la pietrificazione delle caste e dei poteri costituiti. Se non trova spazi e canali, diventa solo protesta confusa, manipolabile da chiunque. 
Tocca a noi aprire quei canali, costruire le casematte necessarie a creare rapporti di forza più favorevoli; e poi, sì, cercare le mediazioni (che non sono di per sé inciuci) per raggiungere i compromessi possibili (rifiutando quelli cattivi e lavorando per quelli positivi). 
Del resto, non è stato forse proprio per via delle lotte e dell’esistenza di robusti canali e presenze parlamentari che fino agli anni ’70 siamo riusciti ad ottenere quasi tutto quanto di buono oggi cerchiano di difendere coi denti, dall’opposizione e non perchè avevamo un ministricolo in qualche governo? 
Dobbiamo fare subito, laddove siamo. 
Non voglio dire che un governo non sia importante, vorrei solo superassimo l’ossessione che si incarna negli slogan elettorali: «Se andremo al governo, faremo…». Dobbiamo fare subito, laddove siamo. 
Nella mia penultima iniziativa referendaria, a Gioiosa Jonica (in piazza come non si faceva da tempo) una splendida cantante locale è arrivata a concludere: con la canzone che ben conosciamo “Libertà è partecipazione”. 
Propongo divenga l’inno della nostra area No. (E speriamo anche che quest’area preservi l’unità di questi mesi).

Il piano di rottura del premier sconfitto 

L’idea confidata a tre dei suoi: arrivare al voto a febbraio, da candidato, con il governo dimissionario 

Fabio Martini  Busiarda
Al piano nobile di palazzo Chigi mancano pochi minuti al Consiglio dei ministri che Matteo Renzi non avrebbe mai voluto celebrare, perché si tratta di dimettersi e di sciogliere le righe, ma in un capannello di pochi ministri il capo del governo intrattiene i suoi interlocutori con un ragionamento inatteso e spiazzante: «Per come si è svolta la campagna referendaria e poi il voto, io credo che quel 40% “appartenga” tutto al Pd. Il Sì ha ottenuto più di 13 milioni di voti e quindi circa 2 milioni in più rispetto a quelli ottenuti alle Europee. Per questo vi dico che a noi potrebbe convenire puntare ad elezioni anticipate, da fare il prima possibile. Con quale governo? Con questo!». A chi, come Dario Franceschini, obiettava la fattibilità di un piano così hard, Renzi ha aggiunto: «Possiamo fare un quarto governo non eletto? E quanto all’ Italicum sub-iudice della Corte Costituzionale, potremmo recepirne le indicazioni ed andare subito al voto». 
Quello che si muove dietro le quinte è un Matteo Renzi molto più inquieto, “irregolare” e dirompente rispetto a quello apparso l’altra sera, 75 minuti dopo la chiusura delle urne referendarie. Con quel discorso da “statista” che aveva preso atto della volontà contraria degli elettori e lo aveva fatto con tratti di umanità che non aveva mai lasciato trasparire, a dispetto dei consigli dei guru della comunicazione. Dunque, un Renzi così tosto da ipotizzare uno scenario davvero di rottura: rimuovere la sconfitta referendaria e presentarsi da candidato premier alle elezioni anticipate col governo dimissionario. Uno scenario da brivido per tutti quei notabili del Pd che vedono in Renzi l’unico responsabile della batosta e infatti, se il piano del capo del governo si concretizzasse, le obiezioni di Dario Franceschini sarebbero destinate a trasformarsi in scontro. Se non cambieranno le cose, la linea di Renzi è chiara: domani la direzione del Pd sarà chiamata a votare un documento col quale si chiedono «elezioni prima possibile».
Perché oramai il disegno di Renzi è tracciato ed è quello di arrivare come candidato premier alle prossime elezioni Politiche, da celebrare il prima possibile. Mission da conseguire con ogni possibile escamotage. Dimettendosi anche da segretario del Pd. Un gesto clamoroso e plateale. per rifarsi una “verginità” e presentarsi al momento “giusto” all’appuntamento delle Primarie. L’”opzione-Cincinnato” è stata illustrata ieri mattina da Renzi nel colloquio con il Capo dello Stato, che ha usato tutte le perifrasi possibili per dissuaderlo. Con successo, pare. Anche perché Renzi ha capito che uscire di scena e rientrarci potrebbe risultare troppo macchinoso.
E d’altra parte una volta uscito da palazzo Chigi, per riconquistarsi la candidatura, per Renzi ci sarebbe una sola strada: vincere le Primarie del Pd. E per vincerle, può essere utile un accordo con l’ala “democristiana” del Pd. Le truppe di quest’area sono controllate dal ministro dei Beni culturali Dario Franceschini, che ha cominciato a dire in queste ore che «se si dovesse fare un governo politico», si dovrebbe tener conto di chi ha un peso dentro il partito. Cioè lui medesimo. Ma Renzi sa che da Franceschini non potrà mai venire un impegno formale a dimettersi, una volta fatta la legge elettorale. Renzi ha un rapporto personale migliore col ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio, più cattolico che ex democristiano, le cui quotazioni ieri sono molto salite ma che deve scontare l’ostilità sorda di Franceschini. Per la guida di un governo politico di breve durata corre il ministro Paolo Gentiloni, che avrebbe l’aplomb ma è troppo vicino a Renzi per poterla spuntare. Ecco perché, nel gioco dei veti contrapposti, potrebbero riprendere quota i candidati (ieri in caduta) ad un governo breve: il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan e il presidente del Senato Pietro Grasso.

Cresce il pressing dei renziani “Partito blindato e voto subito” 

I fedelissimi frenano sul congresso: finirebbe a cazzotti. Bersani: “A lui dico: stai sereno” 

Carlo Bertini  Busiarda
I veleni scorrono a fiumi nel Pd, sui social, sui cellulari, nei capannelli: «Se Renzi lascia al governo Franceschini, Delrio o Orlando, un minuto dopo si trova da solo nel partito, da noi funziona così», sibilano acidi gli uomini di Bersani. In tivù D’Alema non è da meno: «I rottamati da Renzi a cui non è stata concessa neanche una dignitosa sepoltura hanno dimostrato di saper dare filo da torcere», ghigna l’ex premier. La partita interna si fa dura assai. Per questo il primo pressing, quello più discreto e più energico, lo ha esercitato l’altra notte, non in solitaria, Dario Franceschini: fermando Renzi - così raccontano - dall’istinto di dimettersi anche da segretario del Pd. Un istinto che il leader ha tenuto a freno ma che preoccupa i peones di ogni ordine e grado, terrorizzati di restare nella barca che fa acqua senza timoniere.
Il secondo pressing lo hanno esercitato quelli del «giglio magico», fiorentini come Davide Ermini e Andrea Marcucci, spalleggiati pure dai franceschiniani, per spingere Renzi verso una rivincita, una ricandidatura alle politiche, per non buttare alle ortiche il patrimonio di voti conquistato. Tanto che il tweet lanciato ieri pomeriggio da Luca Lotti, braccio destro del premier, fa tornare il sorriso ai depressi: quel «ripartiamo dal 40%» citando il 40% dei voti alle primarie perse con Bersani nel 2012, e il 40% delle europee del 2014, fa capire bene l’antifona. Il leader non molla, anzi è pronto a giocare il secondo tempo, quelle delle politiche, convinto di potercela fare. 
Ma il maremoto nel Pd può essere un ostacolo. Tanto che i pasdaran, come Alessia Morani, vorrebbero andare al voto subito in primavera, a marzo se possibile, senza farsi scavalcare da Salvini e Grillo che vogliono le urne senza passare dal via di una nuova legge elettorale. Un ragionamento che tradotto porta dritto ad un’altra forzatura, quella di votare senza fare prima il congresso Pd, quindi senza mettere in gioco la leadership di Renzi. Con la scusa che ora il clima è tale che «se andassimo al congresso finirebbe a cazzotti», dice al telefono un dirigente ad un altro big della stessa regione rossa. A dare l’idea di quanto poco siano tollerati i compagni del No dai gruppi al comando in circoli e sezioni: il rischio di congressi provinciali scossi da risse non solo verbali e scambi di insulti è quantomai concreto.
Ma a parte il congresso, che molti invece considerano obbligato prima del voto, i renziani concordano sul bisogno di blindare il partito: ovvero di non darlo via ad un «reggente» che traghetti il Pd nel rapporto col governo e fino alle assise, «perché in quel caso non daresti più le carte e sarebbe rischioso». 
La Direzione di domani si terrà in questo clima. Se Bersani ora dice «prima il Paese e poi il partito», senza premere per un congresso anticipato, «non facciamo il suo gioco, mettiamo in sicurezza il governo e facciamo un confronto serio nel Pd, non un votificio», può esser preso in parola da chi nell’entourage del premier questo congresso lo farebbe dopo le elezioni politiche: magari per non dare alla minoranza l’occasione per potersi contare e avere poi diritto a quote precise nelle liste elettorali. Quel che emerge, al di là della voglia di rappresaglia dei renziani, è che neanche la sinistra scalpiti per un congresso a gennaio: chiedete a Renzi un passo indietro dalla segreteria? «No, chiediamo che il Pd cambi rotta sulle questioni sociali», risponde Roberto Speranza dopo un colloquio con Bersani. Piedi di piombo, è la linea dell’ex leader, andare di corsa ai gazebo non serve, c’è tempo, non si voterà in primavera. Poi però punge: «Un messaggio per Matteo? Stai sereno». D’Alema suona lo stesso spartito: «Se Renzi si dimettesse dovremmo fare il congresso ora in un clima avvelenato. Dovremmo invece cercare un terreno di ricomposizione delle nostre forze». 
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Ma Matteo ora è tentato dall’anno sabbatico “Voglio togliermi di torno” 

Renzi: nel Pd mi chiedono di restare. Sms a Merkel: “Non torno indietro” 

Francesco Bei  Busiarda
«Devo staccare. Voglio prendermi una vacanza con Agnese». E’ passata una notte e Matteo Renzi ha sbollito solo in parte la rabbia e la delusione per il risultato del referendum. Chiamato al Colle, il capo dello Stato lo avvolge con lunghi ragionamenti sulla stabilità e lo sostiene cercando di frenarne la tentazione di mollare tutto e subito.
Mollare - oltre la poltrona a palazzo Chigi anche quella da segretario del Pd – questo è il vero desiderio del premier. Il quale confida a Mattarella qual è adesso il suo sogno segreto: «Mi piacerebbe staccare per davvero, prendermi un sabbatico, magari un anno negli Stati Uniti, ma i miei amici del Pd non me lo permettono». 
Le pressioni del Presidente alla fine fanno breccia sul capo del governo. Che quando scende dal Quirinale riferisce ai suoi di essersi piegato. «Io sinceramente avrei evitato, non sarei rimasto un minuto di più, ma è un fatto di serietà istituzionale e prima di tutto viene l’Italia. Non voglio passare per uno che fa i capricci, un bambino viziato che se ne va con il broncio. Quindi proseguiamo fino alla legge di stabilità». La garanzia che Renzi riesce a strappare a Mattarella è che anche il Capo dello Stato si adopererà con il presidente Grasso affinché l’iter della Finanziaria in Senato sia il più rapido possibile e si arrivi all’approvazione definitiva entro una manciata di giorni. Senza tornare alla Camera. 
Renzi lo ripete ai suoi dopo essersi congedato nel pomeriggio dai ministri con un brindisi a palazzo Chigi. «Il mio obiettivo è togliermi subito di qui. Sembra assurdo ma non riesco ad andarmene. Di solito i miei predecessori facevano le barricate per restare, io invece voglio togliermi di torno e non ce la faccio». La soluzione è il compromesso raggiunto con il Capo dello Stato, una soluzione a tempo. Costretto suo malgrado a restare in carica, in realtà Renzi si comporta come se già fosse uscito da quel portone. E il primo segnale è stato quello di cancellare tutti gli appuntamenti previsti nei prossimi giorni, atteggiandosi di fatto a premier dimissionario. Ma tra l’intenzione e la realtà ci passa in mezzo il Parlamento e le procedure della sessione di Bilancio. Perché se è vero che Mattarella ha garantito di dare una mano, la verità è che nessuno può impedire al Senato di emendare in lungo e in largo la legge approvata da Montecitorio. E’ il bicameralismo perfetto, bellezza, e gli italiani in maggioranza hanno mostrato di averlo in gran conto. Se la Finanziaria dovesse subire rilevanti modifiche, come ad esempio chiede Forza Italia con i suoi capigruppo (“via i bonus, le mance elettorali, i miliardi regalati senza coperture”), la legge dovrebbe tornare alla Camera e allora addio al progetto di lasciare palazzo Chigi già entro la fine di questa settimana. Renzi ne è consapevole: «Le opposizioni, se vogliono che me ne vada subito, mi devono dare una mano». Quanto alla legge elettorale per il Senato o alle modifiche da fare all’Italicum, pure da concordare con le opposizioni, il premier fa spallucce: «Io non me ne occupo, con quelli non parlo, ci penserà il Parlamento». Insomma, il morale è ovviamente sotto i tacchi, ma appena gli si nominano gli avversari Renzi torna Renzi: «Voglio vedere adesso cosa riusciranno a fare». Dei progetti per il futuro, di cosa accadrà al partito, è ancora presto per parlare. Al momento i pochi di cui si fida veramente lo stanno martellando con un mantra: «Sei a capo di un fronte riformista che si riconosce nella tua leadership. Un fronte che, con questo referendum, ha dimostrato di avere la maggioranza relativa del paese». E’ quello che ha scritto Luca Lotti nel suo tweet: «Abbiamo vinto col 40% nel 2014. Ripartiamo dal 40% di ieri!». Non sarà facile, l’idea di ritirarsi dalla scena pubblica lo sta davvero solleticando. Un piccolo segnale lo si è colto ieri quando, nella riunione più ristretta a palazzo Chigi, si è parlato delle consultazioni al Quirinale. E Renzi ha detto chiaro e tondo che non ha molta voglia di stare ancora sotto i riflettori. «Non so se andrò io, preferirei mandare i vicesegretari. Vediamo, l’importante è che non sembri uno sgarbo al capo dello Stato». 
Quello che al premier ha fatto piacere è il sostegno che sta arrivando in queste ore sia al Pd che a palazzo Chigi da tanti cittadini che gli chiedono di «non mollare» e lo ringraziano per essersi speso senza riserve in campagna elettorale. Nulla ovviamente che possa far dimenticare quella massa enorme di elettori che gli ha votato contro. «Abbiamo commesso errori, non c’è dubbio, non possiamo prendercela con chi vota». Nella lunga giornata di ieri il centralino di palazzo Chigi ha smistato anche molte telefonate di leader europei che volevano esprimere personalmente il loro rammarico per le dimissioni. Alcuni provando anche a convincerlo a restare. Con Angela Merkel invece ogni formalità è superata da tempo, i due si stimano e si sono scambiati i rispettivi cellulari. Così «Angela» già nella serata di domenica, con uno scambio di sms, ha saputo dal diretto interessato quello che sarebbe accaduto: «Non torno indietro». 
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La madrina della riforma sconfitta anche a casa sua 
Francesca Schianchi  Busiarda
«Ce l’abbiamo messa tutta. Abbiamo fatto il massimo, ma è andata così. Grazie a tutti per il lavoro che abbiamo fatto insieme». Alle 8 del mattino più pesante della sua carriera politica, la ministra delle Riforme Maria Elena Boschi è al ministero. L’abito grigio come l’umore, il sorriso teso, saluta i collaboratori che hanno lavorato con lei alla riforma. 
E’ stata una notte difficile. Gli ultimi sondaggi riservati arrivati sul suo tavolo, nei giorni scorsi, parlavano di una sconfitta col 45-46 per cento. Ma l’affluenza oltre il 65 per cento ha cambiato le carte in tavola. Domenica notte, mentre Renzi annunciando le dimissioni evita di ringraziarla dopo che proprio lei ha dato il nome alla legge, al quartier generale del Pd la ministra aspetta i risultati definitivi in compagnia dei vicesegretari, del ministro Franceschini, di qualche deputato. Assiste in un silenzio teso rotto solo da laconici commenti consolatori alle proporzioni della débâcle, la delusione è tanta, c’è anche un po’ di commozione: persino la sua Laterina, il comune in provincia di Arezzo in cui è cresciuta, è andato al No, anche se per una manciata di voti.
E’ il volto della riforma, la madrina che per anni ci ha lavorato in Parlamento. Prima astro nascente del governo, poi la vicenda Banca Etruria fa precipitare il suo indice di gradimento. Lei sparisce dalle tv, ma non dagli incontri sul territorio: chiusi i voti nel Palazzo, comincia a girare come una trottola per promuovere il «suo» nuovo Senato, migliaia di chilometri per l’Italia e fino giù in Sudamerica. Nella notte del voto non commenta, ma è un silenzio pesante. Arrivata al ministero, ieri, butta giù qualche riga da scrivere su Facebook. Il commento che tutti le chiedono, e che lei evita di rilasciare alle telecamere quando scende per andare brevemente a Palazzo Chigi. «Peccato. Avevamo immaginato un altro risveglio: istituzioni più semplici in Italia, Paese più forte in Europa. Non è andata così. Ha vinto il no, punto», ammette la sconfitta. «Adesso al lavoro per servire le istituzioni. Mettiamo al sicuro questa legge di bilancio. Poi pubblicheremo il rendiconto delle tante cose fatte da questo governo. A tutti i comitati, a tutti gli amici e le amiche che ci hanno dato una mano, grazie. Decideremo insieme come ripartire, smaltita la delusione». Come ripartirà è la domanda che tutti si fanno. Mesi fa, quando ancora pensavano servisse personalizzare, si era unita a Renzi ad annunciare l’abbandono della politica in caso di sconfitta. Poi però non ne ha più parlato.
Nel tardo pomeriggio partecipa al Consiglio dei ministri. L’ultimo, della ministra più in vista del governo.

“Non hanno vinto i populisti è stata una risposta civile” 

Monti: Renzi ha sbagliato a voler scambiare i bonus con il consenso 

Marco Zatterin  Busiarda
«Questa non è una vittoria del populismo, né delle posizioni antieuropee». Alla fine, nel giorno dopo il No che ha archiviato la riforma costituzionale e il governo Renzi, Mario Monti tiene a dire proprio questo, vuole spiegare che la consultazione di domenica non è quello che si legge sui giornali internazionali. Il professore ex premier ed ex commissario Ue ha speso buona parte della giornata al telefono, lo hanno chiamato colleghi nuovi e vecchi. «Sicuramente è un risultato inatteso nella dimensione – concede -. Però è vero che molti personaggi della politica e della finanza internazionale fanno fatica a capire il suo effettivo significato». Gli elettori, assicura, «hanno solo bocciato un progetto mal concepito». 

Se non è populismo, cos’è?
«È la risposta civile di un Paese che ha voluto stare al gioco democratico e che, alla domanda sulla riforma della Costituzione, ha dato la risposta che riteneva fosse adeguata per il quesito, con molti Sì e moltissimi No. Gli elettori hanno respinto la personalizzazione dello scontro. Molti - come me - hanno espresso un voto negativo in quanto convinti che questa riforma costituzionale non avrebbe migliorato la governance dell’Italia ma l’avrebbe peggiorata».
Politica o no, Renzi ha deciso di lasciare.
«Ho affermato in più occasioni che non c’era ragione per cui dovesse dimettersi in caso di vittoria del No. Il risultato è stato tuttavia talmente netto che capisco rispetto la sua decisione».
C’è un diffuso allarme populismo in Europa. Molti politici, e commentatori, temono che l’Italia possa perdere la rotta della stabilità.
«Il populismo è certo una minaccia anche per noi, ma non è corretto dire che domenica i populisti abbiano vinto in Italia e perso, questo sì è vero, in Austria e vinto in Italia. Nel No italiano c’erano milioni di populisti, ma anche milioni di non populisti e filo-europei. L’Italia di domenica, non cesso di spiegarlo ai miei interlocutori internazionali, non è il seguito di Brexit e Trump. Anche gli sconquassi finanziari che il mondo temeva non si sono avuti, almeno per ora».
Questi errori di previsione sono dunque colpa della politica e di chi ci osserva?
«C’è una iperreattività degli analisti stranieri. Quando Renzi - che ho molto apprezzato nella sua fase iniziale soprattutto per la riforma del mercato del lavoro - si è dato l’obiettivo prioritario di modificare la costituzione, ha cambiato anche l’impostazione della strategia di governo. È diventato decisamente più populista pure lui. L’uso sempre più frequente del disprezzo verso l’Unione europea ha portato il presidente del Consiglio a giocare con il fuoco nei confronti dell’opinione pubblica. Non sorprende allora che l’Italia sia rapidamente diventato il Paese in Europa con la più alta percentuale di cittadini che si dicono favorevoli ad un’uscita dalla Ue. I cittadini ascoltano i governanti, soprattutto quelli che come Renzi hanno grandi capacità di comunicazione. Ascoltano e il loro atteggiamento nei confronti della Ue non può non esserne influenzato».
Oltre a criticare aspramente la Ue, Renzi ha in effetti promesso molto in campagna elettorale.
«Non solo promesso, ma dato. Una volta entrato nell’ottica del referendum, il presidente del Consiglio ha largheggiato in trasferimenti e bonus per acquisire consenso. Il fatto che per la prima volta gli italiani abbiano risposto con un voto prevalentemente negativo alla sollecitazione al consenso venuta dalla spesa pubblica è qualcosa che deve farci pensare, in chiave positiva».
Perchè in chiave positiva?
«Pensi se con i bonus si fosse vinto il referendum, quali effetti ciò avrebbe avuto sulle scelte future della politica. Avrebbe eretto a sistema questo tipo di politica! Invece, se qualcosa è cambiato nella mente di noi italiani a questo riguardo, saremmo di fronte alla “riforma strutturale” più importante di tutte: la gente non ha votato sulla base delle erogazioni ricevuto o promesse».
Il No è l’espressione del partito della rivolta. Di chi ha perso la fiducia e non trova un posto, della paura davanti alla forbice fra ricchi e poveri che si allarga.
«Non credo che tutti i No fossero espressione di rivolta. Comunque il problema c’è ed è gigantesco. Non solo italiano. In Italia è reso più drammatico dal non riuscire a trovare un cammino di crescita. Il governo Renzi ha fatto alcune cose per la crescita, poi ha rivolto altrove i suoi sforzi, per esempio facendo poco per ridurre le rendite attraverso una maggiore concorrenza. Sono convinto che accanto alla crescita occorra un obiettivo di più equa distribuzione del reddito e della ricchezza. Per questo non credo che sia stato sensato togliere l’Imu, l’unico elemento di imposta patrimoniale che c’era in Italia. Non lo è stato neppure dare vari bonus invece che ridurre il cuneo fiscale».
Il dramma sono i giovani che non sentono di avere un futuro.
«Non so se abbiano votato No al referendum per questo. Vedo che sono alienati dal processo politico. Hanno grande attivismo, ed è bello, nel volontariato e nel sociale. Ma osservo un distacco crescente dalla politica che può essere pericoloso. Nasce qui la crisi della politica nella nostra società, nasce nell’inseguimento del consenso. La leadership a parole diventa sempre di più una followership dei sondaggi. Non credo che possa dare speranza ai giovani chi non guarda con realismo la realtà. Renzi è stato un ottimo coach per il Paese, all’inizio. Poi qualcosa è cambiato, forse perché è prevalsa la ricerca del consenso». 
Adesso che succede?
«Non credo che dovranno esserci elezioni anticipate. Né governi tecnici. Serve un governo politico, con un presidente del Consiglio che non dovrebbe essere così difficile trovare, nel governo uscente o nella maggioranza».
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Euroscettici in festa Bruxelles teme l’effetto domino 

Nel 2017 si vota in Olanda, Francia e Germania 

Marco Bresolin  Busiarda
Non c’è lo choc brutale che aveva caratterizzato il risveglio post-Brexit. Ma l’esito del referendum italiano ha comunque scosso l’intera Europa. Quella delle istituzioni e quella delle capitali, che ora vedono l’incertezza politica aleggiare su uno dei Paesi fondatori dell’Unione. E si teme il rischio «contagio»: sia sul fronte economico-finanziario, in caso di ripercussioni sul sistema bancario, ma anche e soprattutto su quello politico.
Nell’arco del 2017 i test elettorali metteranno alla prova Paesi come Olanda, Francia e Germania. E proprio Berlino non nasconde, accanto al suo «dispiacere» (Angela Merkel dixit), le sue «preoccupazioni». Questo il sentimento espresso ieri da Frank-Walter Steinmeier, attuale ministro degli Esteri tedesco e possibile prossimo Presidente. Ieri, come altri suoi colleghi europei, anche lui ha telefonato alla Farnesina per chiedere informazioni sugli sviluppi politici italiani. Dalla Grecia Steinmeier ha ammesso che questo risultato «non è certamente un contributo positivo in uno dei momenti più difficili per l’Europa». 
Negli ultimi otto mesi, quattro referendum hanno provocato altrettante scosse a Bruxelles. Prima il voto olandese, che ad aprile ha rigettato l’accordo di associazione Ue-Ucraina. Poi lo strappo della Brexit a fine giugno, che ha aperto una pagina ancora tutta da scrivere. Più contenuti gli effetti concreti della consultazione popolare in Ungheria sulle quote di rifugiati: la quasi totalità dei votanti ha espresso il suo disappunto contro Bruxelles, che però si è salvata sul filo del rasoio perché non è stato raggiunto il quorum. Ora, nel quarto referendum del 2016, è stata la volta dell’Italia. «Ma questo voto era sulla Costituzione italiana, non sull’Europa» mette le mani avanti un portavoce della Commissione. Vero, così come è vero che l’endorsement esplicito a Renzi arrivato da Bruxelles, unito al profilo euro-scettico di gran parte dei movimenti a sostegno del No, ha fatto in modo che nelle urne divampasse anche un effetto anti-europeo. Rovinando così la festa per il risultato delle presidenziali in Austria, dove il verde Van der Bellen ha sconfitto il candidato di estrema destra Norbert Hofer grazie a una campagna pro-Ue. Poteva essere il segnale del cambio di marcia, ma le notizie arrivate poche ore dopo da Roma hanno azzerato tutto.
La caduta di Renzi è l’ennesimo sintomo di incertezza che attraversa il Vecchio Continente. Ed è proprio per questo che da Bruxelles tutti si affrettano a scacciare i fantasmi. «Non diventerà una crisi europea», dice il commissario Pierre Moscovici (Affari Economici). Sarà, ma intanto i nemici dell’Unione festeggiano: «È un colpo di martello contro l’euro e l’establishment pro-Ue - esulta il leader dello Ukip, Nigel Farage -. L’Unione sta barcollando da una crisi all’altra». Tra le tante reazioni post-voto, l’unico esecutivo che guarda avanti e ha espresso la sua «volontà di lavorare a stretto governo con il prossimo governo italiano» è quello britannico. E forse non è un segnale rassicurante. BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

“Non credo al voto di protesta Ha vinto la passione politica” 
Francesco Grignetti  Busiarda
Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica, a 74 anni s’è impegnato a fondo nella campagna referendaria per il No. Su questo risultato ci contava. Anche lui, però, è rimasto sorpreso dal record di affluenza. «Da Sciacca a Pordenone, ad ogni iniziativa trovavo sempre più gente. Che ci fosse molta voglia di capire, era evidente. Ma non mi aspettavo neppure io una partecipazione così straordinaria». 
Che cosa è accaduto, la gente ha riscoperto il valore della Costituzione?
«No, il voto è stato essenzialmente politico dopo che il presidente del Consiglio ha gettato sul piatto la sua carica e anche il suo ruolo di ispiratore di questa riforma, che io ritenevo sbagliata. Gli italiani a quel punto hanno reagito alla doppia sfida: chi perché gli era contrario politicamente, chi perché non voleva che modificasse a quel modo la Costituzione». 
Dietro l’alta partecipazione c’è dunque una somma di ragioni?
«Su tutte, la chiave politica. Molti hanno votato per sostenere questo governo e molti altri per farlo cadere. Chi era contro, si sa. Ma c’è stato anche un elettorato del Pd, specie dell’ex Margherita, che si è mobilitato a difesa. Mi spiego così i numeri altissimi del voto in Trentino, Toscana, Emilia-Romagna, come anche il record di Firenze». 
E quanto ha inciso la difesa della Costituzione?
«Ha giocato un ruolo. Io non ho condiviso certi allarmi sul rischio di una deriva autoritaria. È indubbio, però, che in parte dell’elettorato questo timore c’era. E comunque il segno generale di questa riforma, dall’abolizione delle Province al principio di supremazia dello Stato sulle Regioni (un principio che aveva irritato moltissimo in Veneto, per dire, dove sono gelosi della loro autonomia), a un Senato residuale e di consiglieri regionali, ecco questo segno generale era la compressione degli spazi elettivi. A quest’impostazione gli italiani hanno detto no. Nel voto, c’è chi legge soprattutto il disagio sociale. Ci credo poco. L’alta partecipazione ci dice altro, una fortissima voglia di partecipazione». 
Altro che fuga dalla politica.
«Assolutamente. Se prendiamo l’affluenza misera alle Regionali dell’Emilia-Romagna nel 2014, scesa al 37%, non possiamo certo tirare la conclusione che gli emiliani e i romagnoli siano diventati indifferenti alla politica. Quel voto era un astensionismo di protesta, tutto qui. E infatti, con il 75,9%di domenica, le percentuali tornano a livello delle Politiche del 2013, che in Emilia-Romagna videro votare l’82% degli elettori». 
Professore, detto di questa voglia di partecipazione, certo non fuga dalla politica, che cosa si aspetta dalle prossime elezioni politiche? Alti o bassi numeri di affluenza?
«Se avremo una legge elettorale che permette all’elettore di esprimersi pienamente, se non ci saranno liste bloccate che mortificano le scelte, mi aspetto la solita Italia appassionata. E se avremo davanti un anno politico decente, prevedendo un testa a testa tra il Pd e il M5S, mi aspetto una fortissima mobilitazione dei rispettivi elettorati, che soprattutto non vorranno far vincere l’avversario». 
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La protesta dei ragazzi senza futuro 
Massimiliano Panarari  Busiarda
Un rifiuto fragoroso pronunciato dai più giovani. Nell’esito referendario che ha travolto Renzi sono state le giovani generazioni, con i disoccupati, ad avere fatto da volano al No con la percentuale «bulgara» tra il 70 e l’80%. La cifra comunicativa della personalizzazione giocata dal più giovane premier della storia repubblicana non ha suscitato identificazione in positivo con gli esponenti delle classi anagraficamente più vicine a lui. 
E Renzi non è riuscito a convertire in speranza quella paura che si è fortemente radicata nei più giovani (e in un ceto medio in rivolta). Inizialmente, c’era anche stata un’apertura di credito nei suoi confronti, e poteva contare sulla simpatia di alcuni (sebbene non maggioritari) settori giovanili conquistati dalla narrativa della rottamazione (che si equilibravano con altri strati radicali della popolazione giovanile a lui avversi). Ma si è spinto troppo in là, all’insegna di una corsa sempre più solitaria, senza che agli annunci e alle politiche concrete corrispondesse un miglioramento significativo della vita della maggioranza dei più giovani alle prese con un drammatico slalom tra stage, precariato e promesse non mantenute all’interno di un contesto che, secondo vari specialisti, si avvia nella direzione a tinte foschissime di una jobless society (una società senza lavoro). E, nell’attuale scenario postpolitico e antipolitico, non c’è storytelling che tenga: ci si attende velocemente la realizzazione delle aspettative suscitate, e se ciò non accade, si genera, ancor più rapidamente, una disillusione che si traduce in un rigetto durissimo.
Per cercare di completare il quadro va considerato il consenso del Movimento 5 Stelle presso queste fasce anagrafiche, proprio perché interpreta al meglio la sfiducia e il fastidio nei confronti di un «sistema» da cui si sentono respinti. E un ruolo lo hanno giocato sicuramente anche le «camere dell’eco» internettiane e i social, in cui la propaganda sul «golpe renziano» ha evidentemente sortito il suo effetto su vari ragazzi che ne sono assidui frequentatori.
Ma il punto di fondo rimane il disagio sociale, e l’assenza di prospettive per le giovani generazioni a cui la politica non sa trovare soluzioni adeguate. Nel suo prontuario per le campagne elettorali, il celebre pubblicitario Jacques Séguéla affermava che «si vota sempre per il futuro e mai per il passato». E l’esito del referendum rappresenta precisamente la testimonianza del fatto che i giovani si sentono svalorizzati e ritengono di non avere un futuro come evidenzia l’istantanea livida e grigia del 50esimo «Rapporto Censis». 
L’American dream declinato per tutti i Paesi occidentali consisteva anche – e, forse, soprattutto – nell’idea della mobilità e dell’ascensore sociale, che qui da noi si scontrava già (a parte qualche finestra di opportunità apertasi, e richiusasi, nei decenni scorsi) con una rigidità di fondo e una situazione ingessata con taluni tratti da «Antico regime». Il sogno si è spento, e i nodi arrivano al pettine. La protesta, passata attraverso questo massiccio voto reattivo, va ascoltata con grande attenzione e preoccupazione, perché uno spettro si aggira per l’Italia (e non solo), e ha il volto terreo ed emergenziale della «questione giovanile».


Ma il leader vuole elezioni subito “Non lascio questa arma a Grillo” 
Affiora la diversa strategia di Quirinale e premier. Quest’ultimo teme di “far la fine di Bersani per aver appoggiato Monti” Strigliata di Mattarella sull’annuncio notturno in tv della scelta di lasciare

GOFFREDO DE MARCHIS Rep
FOLLE idea, rilancio immediato, contropiede costruito sul 40 per cento del Sì per giocarsi l’ennesima partita della vita. Il disegno prende corpo in un vertice del Pd a Palazzo Chigi. Intorno al tavolo Matteo Renzi, Luca Lotti, Maria Elena Boschi, Maurizio Martina e Matteo Orfini. L’asse sinistra-renziani doc.
SONO i sostenitori delle elezioni anticipate, della ripartenza volante sulla base dei 13 milioni di italiani fedeli alla riforma. Il premier pensa che si possa andare al voto politico «a gennaio-febbraio». Praticamente dopodomani. Ma come? Con l’Italicum alla Camera, dopo le correzioni della Corte costituzionale, e il proporzionale con sbarramento al Senato. «Non lascio la bandiera delle elezioni anticipate a Grillo e agli altri. Se lo facciamo il Pd è morto, fa la fine che ha fatto dopo aver appoggiato il governo Monti», è il grido di battaglia di Renzi.
Piano azzardato, ma che il braccio destro Lotti certifica con un tweet all’arrembaggio: «Abbiamo preso il 40 per cento nel 2012 e nel 2014. Ripartiamo dal 40 per cento preso domenica ». Il piano è definito. Sarebbe Renzi a portare il Paese al voto da presidente del Consiglio dimissionario. Ma il Quirinale non accetterà mai un vuoto di potere lungo due mesi. Allora, Renzi potrebbe addirittura non dimettersi più, rimanere in carica poche settimane per arrivare al traguardo dell’urna. Nessuna successione. No a governicchi, governi tecnici, men che meno un nuovo premier dem. Sono incompatibili con l’obiettivo inquadrato nel mirino: le urne. E i giochi nel Pd? Al suo partito, il segretario proporrà di trasformare il congresso in primarie per la premiership di centrosinistra, come quelle che incoronarono Romano Prodi nel 2005. Lui sarebbe in pista, ovviamente.
Una corsa a perdifiato piena di ostacoli e che ha già trovato un muro nel presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Ieri Renzi e il capo dello Stato si sono visti due volte. La prima di mattina per un colloquio informale dopo la pesante sconfitta referendaria della notte. La seconda nel pomeriggio. Doveva essere l’appuntamento delle dimissioni. Dimissioni rinviate. Mattarella infatti ha chiesto al premier di concludere l’iter della legge di bilancio. «Intendo rispettare le indicazioni del capo dello Stato - spiegherà poi Renzi ai suoi collaboratori -. Se non lo facessi sarei un bambino viziato. Appena approvata la manovra, però, me ne vado. Non so se accadrà venerdì o martedì prossimo. Dipende anche dall’atteggiamento dell’opposizione». Primo round al Quirinale, prima frenata. Dal Colle filtra anche la speranza che la pausa di riflessione serva al segretario a ponderare le mosse.
Renzi infatti espone al presidente della Repubblica il suo progetto. Gli fa capire che «se tutti dicono andiamo a votare il Pd non può essere l’unico partito a opporsi. Significa suicidarsi politicamente». Mattarella è perplesso. Non ha apprezzato il messaggio televisivo nella notte di domenica: «Chi la chiude la legge di stabilità?». Non è contento dell’accelerazione, chiede il contributo sostanziale del «partito che ha 400 parlamentari» a trovare la via d’uscita nell’interesse del Paese. Non è una lite, ma una strapazzata sì.
Il Quirinale, beninteso, giudica «legittima» l’ipotesi di andare subito al voto. «Se il Pd chiede le elezioni, non saremo certo noi a organizzare ribaltoni, non metteremo all’angolo Renzi ». Mattarella tuttavia non condivide l’ipotesi di febbraio. Non vede i tempi tecnici. Va aspettata la Consulta sull’Italicum, è possibile che dopo sia necessario correggere la legge ovvero che la sentenza dei giudici non sarà autoapplicativa. E l’idea di sciogliere le Camere è l’ultimo dei suoi pensieri. Insomma, prima della partita con cui Renzi vuole rimettersi in gioco si svolgerà un confronto vero tra il leader del Pd e il Colle.
Tocca al Pd la parola finale. Ai suoi equilibri, alla resa dei conti. Se arrivera una “sfiducia” al segretario difficile da immaginare oggi, la pallina di un incarico per Palazzo Chigi cadrà probabilmente nel campo di Dario Franceschini. Ormai i ponti tra il premier e il ministro della Cultura sono rotti, anche se ieri ci sono state prove di dialogo. I franceschiniani hanno portato un’offerta ai renziani. «Lasciamo che nasca un governo Franceschini. Dario tiene uniti i gruppi parlamentari e il partito. Non ha intenzione di candidarsi a premier nel 2018. Renzi fa il congresso, lo vince e si ripresenta alle elezioni ». Questo il messaggio. In cambio, per Franceschini si dovrebbero aprire le porte della presidenza del Senato o della Camera, sempre che i dem abbiano i numeri sufficienti a rivendicarle. La maggioranza sarebbe sempre la stessa e il titolare della Cultura ha i contatti giusti per parlare con Forza Italia della nuova legge elettorale. Può mettere in sicurezza il sistema.
Non è la strada di Renzi, che si gioca ancora una volta l’osso del collo. «Le elezioni subito? Dipendono dal Pd. Chiederà le elezioni o chiederà altro?», dice il premier sibillino. Una sfida in piena regola, organizzata sull’onda di una sconfitta. La direzione è stata rinviata da oggi a domani proprio in vista di uno scontro a viso aperto. L’esito del referendum appare incontestabile: è stata soprattutto una sconfitta di Renzi. In queste condizioni può essere lui a dare le carte con la mossa più complicata della politica italiana, cioè chiedere lo scioglimento del Parlamento? Ecco perchè il percorso ha bisogno di altre 24 ore di tempo. È cominciato ieri con l’adesione di Orfini e Martina. Ma il Pd è sotto shock. Parlamentari e ministri s’interrogano sul futuro, non è detto che siano disposti a seguire Renzi fino alla fine.
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Partito e alleanze, ecco il piano Renzi Ma il Pd esplode: “Follia votare subito” Crepa nel patto di sindacato interno: Orfini e Martina favorevoli all’accelerazione, Franceschini e Orlando no. Il premier: “Resto segretario solo con mandato pieno”. E offre un patto ad AlfanoTOMMASO CIRIACO Rep
ROMA. Esplode il patto di sindacato che governa il Pd. Perché se Matteo Renzi ha voglia di tuffarsi nell’avventura del voto immediato, gli azionisti di maggioranza del partito si rivoltano. Non gradisce forzature Dario Franceschini, né digerisce blitz Andrea Orlando. «A Matteo l’ho spiegato - confidava ieri proprio il ministro dei Beni culturali, incontrando i suoi fedelissimi - noi lo sosterremo alla segreteria, ma lui rinunci all’idea di tornare subito alle urne. Vada avanti, senza strappi». Esattamente l’opposto del piano del premier. Che invece può già contare sulla lealtà di Matteo Orfini e Maurizio Martina. E così, a un soffio dalla direzione del Pd di domani, largo del Nazareno rischia la balcanizzazione.
Il momento esatto in cui il barometro inizia a segnare tempesta è ieri, quando il leader convoca Luca Lotti e Maria Elena Boschi, Orfini e Martina. Non Franceschini, né Orlando. Un nuovo gabinetto di guerra, per fissare un unico traguardo: elezioni subito. La foto ricordo dei commensali diventa in un attimo il bignami dei nuovi equilibri. «Mercoledì dirò che resto segretario - annuncia Renzi - ma solo a patto di ottenere un mandato pieno dalla direzione». Tra i paletti, anche la richiesta di carta bianca sulla riorganizzazione del Pd. Come? Facendo leva sulla “regola del 40%”. «Il mio 40%».
È il nuovo programma politico del premier, quello sintetizzato dal tweet ispirato da Renzi e pubblicato nel pomeriggio sull’account di Lotti. «Tutto è iniziato col 40% nel 2012. Abbiamo vinto col 40% nel 2014. Ripartiamo dal 40% di ieri!». Si ricomincia allora dal bottino che la propaganda renziana considera frutto esclusivo dello sforzo del capo. E che significa soprattutto una cosa: «Io ci sono, non mi ritiro a Rignano».
La data della resa dei conti è già fissata per domani. Non è detto che sia l’unica, perché tra le ipotesi allo studio c’è anche quella di riaggiornare la riunione al termine delle consultazioni del Quirinale. Il premier, però, chiarirà subito di non essere disposto a restare ostaggio del risiko interno al Pd. «Ho quarant’anni e una sola faccia. E questa faccia non la perdo certo per qualche capo corrente». Certo, chiederà un patto a tutti gli azionisti interni della maggioranza che governa il partito. Ma non accetterà compromessi al ribasso.
Più che un gioco del cerino, si rischia un braccio di ferro. Franceschini e Orlando contano su nutrite truppe parlamentari. E di fronte a un clamoroso scenario di rottura interna, potrebbero siglare un patto per portare il ministro della Giustizia a sfidare Renzi alla segreteria. Scenari ancora prematuri, che il lavorio diplomatico degli ambasciatori renziani intende scongiurare. «Con Orlando non ci sarà alcun problema. E alla fine anche Dario - giurano - voterà con noi» Martina e Orfini, invece, hanno già deciso. Staranno con Renzi, puntando alla golden share della nuova era renziana. Insieme possono contare sul 12% dei membri della direzione. Meno della somma di Franceschini (20%) e di Orlando (4%), ma comunque abbastanza per consentire al 40% renziano di controllare l’assemblea. Né può cambiare le sorti della sfida il 25% di Gianni Cuperlo e Pierluigi Bersani.
La leadership del partito, si diceva. Nello schema renziano non sono previste tappe intermedie prima del voto. Niente congresso, insomma, al massimo primarie che incoronino il candidato premier. Un dato che allarma chiunque voglia insidiare Renzi, visto che sarebbe proprio il segretario a compilare le liste elettorali. Da lidi assai distanti, l’ha capito anche Angelino Alfano. Lui nel Pd non è di casa, ma potrebbe aspirare a diventare uno dei soci fondatori del “partito del 40%”. Glielo ha spiegato ieri proprio Renzi, consapevole che la pattuglia parlamentare di Ncd può decidere il destino della legislatura. L’ex berlusconiano ha chiesto garanzie per la futura alleanza, e si è preso un giorno per decidere. Oggi, davanti ai gruppi di Camera e Senato, indicherà la sua proposta per il futuro. Con o contro Renzi, questo è il dilemma.
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La bandiera del 40 per cento e quell’intreccio governo-dem Il premier è un combattente ferito e tutt’altro che rassegnato. Ma il partito rischia di non sopportare un’altra sfidaDI STEFANO FOLLI Rep
LA STORIA del giorno dopo si muove su due piani. Il primo è istituzionale e vede il presidente Mattarella prodigarsi per raffreddare gli animi. Il colloquio privato di ieri mattina con Renzi è stato logicamente il passaggio più importante della giornata. C’era il rischio concreto che lo “stress” accumulato dal presidente del Consiglio fosse foriero di qualche incidente ovvero complicasse le procedure della crisi. Il Capo dello Stato ha voluto rendersi conto di persona delle intenzioni del presidente del Consiglio e il chiarimento gli ha permesso di replicare il precedente di Napolitano nel 2011. Allora il premier Berlusconi andò al Quirinale per annunciare le dimissioni — si era nel pieno della tormenta dello spread —, ma le formalizzò un paio di giorni dopo, una volta approvata la legge di bilancio. L’anno dopo lo stesso schema fu adottato da Mario Monti.
La storia si ripete. Renzi è di fatto dimissionario, ma lo sarà sul piano formale solo dopo l’approvazione della manovra finanziaria, comunque entro pochi giorni. È il primo passo per uscire dal pantano in fretta, senza aprire vuoti di potere e soprattutto senza spaventare i mercati. Una strategia tanto più necessaria nel momento in cui l’Eurogruppo solleva obiezioni alla legge di stabilità: il che impone all’Italia di rispondere quanto prima con un governo nel pieno delle sue funzioni. Questo scenario istituzionale rivela, come si è detto, l’impronta di Mattarella. È la sua mossa iniziale per placare gli animi e avviare un’opera di riconciliazione nazionale. Viene meno l’idea di un rinvio di Renzi alle Camere — ormai il premier è destinato a lasciare Palazzo Chigi — e si intuisce la rotta immaginata dal Capo dello Stato, fondata sul presupposto che una maggioranza in Parlamento esiste e non è stata disarticolata dal disastro referendario.
Tuttavia siamo solo ai primi passi di una vicenda complicata. Che è tale perché esiste un secondo piano, quello politico, intrecciato con il primo. È il livello in cui si muove Renzi, combattente ferito ma tutt’altro che rassegnato. Il presidente del Consiglio e segretario del Pd ieri ha taciuto, ma i suoi collaboratori hanno parlato in modo piuttosto chiaro. La tesi ricorrente riguarda quel 40 per cento di Sì che viene attribuito tout court al premier come patrimonio elettorale ormai acquisito. Non c’è più il Pd, se non sullo sfondo. C’è un partito personale che siede sul 40 per cento di Sì. Non è una sorpresa per chi ha seguito la lunga campagna renziana, individuando il vero obiettivo del referendum trasformato in plebiscito. Ma è vero che questa accelerazione crea un altro elemento di frattura all’interno del centrosinistra, nonché fra politica e istituzioni.
Per due ragioni. La prima, rende in prospettiva più fragile l’esecutivo che dovrà nascere. Mattarella lo vuole solido e in grado di interloquire con l’Europa, Renzi si preoccupa invece che non lo sia troppo: sa bene che in quel caso le correnti del Pd lo userebbero contro di lui, magari cominciando dal negoziato parlamentare con Berlusconi e altri sulla nuova legge elettorale. Per l’ex premier diventerebbe più difficile condurre il gioco e convincere gli italiani che lui è sempre il deus ex machina. Renzi ha bisogno di restare al centro della scena e di continuare l’eterna campagna di opinione in vista del voto politico, molto prima della scadenza della legislatura. Ma il governo deve essere debole e tale da non coinvolgere troppo il Pd. Un “governo amico”, si sarebbe detto un tempo.
L’altra ragione porta direttamente nel cuore del Pd. Se Renzi intende sventolare la bandiera del 40 per cento in faccia ai suoi avversari, è plausibile che il partito si spacchi in modo clamoroso e definitivo. Parlare e agire da vincitore dopo una battaglia persa significa gettare molta benzina sul fuoco. Difficile che stavolta la sinistra si lasci annichilire. Intanto si vedrà domani nella direzione quale sarà il clima. Ma Renzi non sembra per ora nell’ordine di idee di svolgere una seria autocritica e di lavorare all’unità interna. Quindi i due piani, istituzionale e politico, rischiano di collidere. La strada del governo e lo psicodramma Pd s’intrecciano. Tenerli separati richiederebbe un leader nel pieno del suo potere, non reduce da una disfatta.
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La metamorfosi  Da rottamatore a “potente” il premier ha perso la simpatiaIl volo di Stato per andare a sciare, lo scandalo Banca Etruria: scivolate che hanno trasformato la parabola dell’innovatore nel simbolo di una nuova nomenklaturaFRANCESCO MERLO Rep
AVESSE incontrato se stesso due anni fa, Renzi si sarebbe autorottamato senza pietà. Dalla Smart all’aereo di Stato, dal selfie al fotografo personale, dalla pizza con Blair al “bollito non bollito” di Bottura con Hollande e la Merkel, la sua è infatti la storia di uno spavaldo dell’antipotere che è diventato un potente spavaldo, la parabola del guascone del 2014 («Mi sento come Al Pacino nel film Ogni Maledetta domenica ») che si è gonfiato di boria nel 2016 («Sono cattivo, arrogante e impulsivo»).
Gli spostamenti progressivi del potere hanno dunque trasformato il simpatico giovanotto che sfacciatamente voleva impadronirsi del mondo («Ho l’ambizione smisurata, non lo smentisco ») nel più scorbutico dei vecchi antirenziani che si compiacevano di essere uomini di mondo, «uno di quei polli di batteria» di cui il “renzidiprima” voleva a tutti i costi non rispettare le regole: «Non starò mai alle loro regole, le regole di una generazione che ha già dato tutto quello che poteva dare».
Il “renzidipoi” è invece quello che nel Capodanno del 2015 andò a sciare con la famiglia prendendo l’aereo di Stato sino ad Aosta e poi l’elicottero sino a Courmayeur. Si giustificò così: «Per protocollo di sicurezza», che è lo scudo linguistico di un privilegio. Il renzidiprima, il 18 febbraio 2014, al contrario diceva: «No, guardate, a me la scorta non mi garba, non la voglio, grazie. La mia scorta è la gente ». E tutti a replicargli «ma non si può...». Con la Giulietta bianca era salito al Quirinale e contro “il protocollo di sicurezza” montava sopra i treni: «Non voglio dare al Paese l’impressione di un uomo che una volta al governo cambia status, immagine, stile. Non posso e non voglio passare dalla bicicletta all’auto blu. Io sono di Rignano! ».
Ma ecco la questione amletica: quando quel ragazzo, che sembrava agli italiani simpatico e sanguigno, con quegli incredibili pantaloni attillati e il giubbotto di pelle a chiodo in opposizione ideologica, è diventato anche lui nomenklatura? Si sa, ogni rivoluzione mangia i suoi figli. Ebbene, quando Renzi si è auotomangiato? Quando Renzi ha smesso di fare il Renzi? E ancora: si diventa nomenklatura a poco a poco, oppure a scatti, o la sua era solo demagogia; oppure forse, c’è stato, nei mille giorni del potere, un momento fatale che ha cambiato il renzidiprima nel renzidipoi?
Di sicuro aveva ancora una fame da lupo («A 38 anni sono pronto per fare tutto») il renziediprima quando, il 13 luglio del 2013, andò di nascosto e di mattina presto a trovare la Merkel, che di lui disse: «Questo ragazzo mi incuriosisce». Due anni dopo, il 23 gennaio 2015, con una conferenza stampa napoleonica il renzidipoi esibì la Merkel ai giornalisti nella Galleria dell’Accademia di Firenze ai piedi del David: «Consiglio alla Germania di adottare la legge elettorale che noi abbiamo fatto in 11 mesi». E promise: «Come a Michelangelo era bastato togliere il marmo in eccesso così faremo anche noi con il processo di riforme, toglieremo la burocrazia in eccesso».
E però, ad ogni slittamento dall’immagine di bullo bellimbusto, come il famoso Fonzie televisivo, a quella del boiardo di Stato con busto al Pincio, come La Marmora e Ricasoli, era come se i peli dell’ambiguità italiana si spostassero dalla faccia di D’Alema a quella di Renzi. E oggi il No che lo rottama dimostra che la metafora dei baffi ha traslocato: imago animi vultus. Dunque sono traslocate le ambiguità, le mille trame attribuite, i presunti inciuci, gli affari, le ombre cinesi, il petto gonfio, il mezzo sorriso, persino il passo che da saltellante si è fatto marziale.
E forse il momento fatale, quel momento che tutto riassume e tutto trasforma in Storia, è stato il suicido di Luigino D’Angelo, il 28 novembre del 2015, il sessantottenne pensionato — di sinistra — a cui la Banca Etruria aveva azzerato i risparmi, 110mila euro investiti in spazzatura finanziaria. Renzi non pregò sulla sua tomba, non andò ad abbracciare la vedova, la signora Lidia Di Marcantonio («Solo Berlusconi mi ha mandato un bellissimo telegramma, lo Stato ci ha girato le spalle»). Renzi si chiuse a Palazzo Chigi, e non fece quel che il renzidiprima avrebbe fatto — prima di ubriacarsi con il 41 per cento dei consensi — : carezze economiche e belle parole ai pensionati, la promessa di riformare le banche, non dico i versi di Ezra Pound sull’usura e neppure le metafore di Brecht o gli aforismi di Kraus, o i disegni di Otto Dix, ma le parole di Obama del 2010 contro «gli speculatori banditi»: «Mai più salvataggi a spese dei consumatori». E invece il New Deal del renzidipoi fu… il salvataggio delle banche già fallite.
Ed è passata un’epoca da quando Renzi, giocando con il suo iphone faceva un autoscatto goffo e scriveva “io” sotto una faccia gonfia e nessuna messa a fuoco. Era l’8 settembre del 2014. Confrontate quell’immagine con quell’altra, per esempio, del 29 ottobre del 2016, realizzata dal fotografo personale Tiberio Barchielli. È insieme a Zuckerberg lungo i corridoi di Palazzo Chigi, tra mappamondi e arazzi. Il renzidipoi ama infatti le eccellenze, i cantieri finiti, i nastri da tagliare, i viadotti riedificati a tempo di record e subito richiusi dopo la sua visita.
Era ben più vero e più popolare lo scapestrato che a Firenze, indossando l’elmetto giallo, saliva sulle ruspe, rispetto allo statista in visita alla Ferrrari il 31 agosto 2016, alla Ferrero il 14 settembre 2016, alla Lamborghini e poi alla Philip Morris il 23 settembre 2016, all’Hitachi di Pistoia il 13 ottobre 2016, alla ex Fiat di Cassino il 24 novembre 2016… Ma fotografandolo ormai abitualmente in pose che sanno di pensiero, il bravo Barchielli ce lo mostra nella verità più cruda: il renzidipoi è un personaggio ormai immaginario, il vezzoso involucro del potere, la metamorfosi è compiuta. E forse tutto è cominciato quel giorno a Siracusa, il 5 marzo del 2014, quando — ricordate? — in una scuola di borgata, vicina alla chiesa di Lucia, santa e sempre più cieca, Renzi accettò l’accoglienza servile dei bambini che, istruiti dai maestri, gli cantarono “facciamo un salto / battiam le mani / muoviam la testa/ facciam la festa”. Ecco, noi allora intuimmo la metamorfosi. Scrivemmo infatti: «Se fosse stato ancora lo stesso che, appena eletto segretario, scelse come inno “Resta ribelle” dei Negrita, Renzi avrebbe certamente intonato “prendi una chitarra e qualche dose di follia / come una mitraglia sputa fuoco e poesia”. E, con l’incitamento a contestare e a irridere i maestri, avrebbe rifiutato quei miagolii che dai maestri erano stati imposti: “presidente Renzi/ da oggi in poi / ovunque vai / non scordarti di noi”».
Ecco, c’era già il renzidipoi nel renzidiprima, l’evoluzione non fa salti, la metamorfosi è il bruco che non può non farsi farfalla, è l’uomo che non può che farsi scarafaggio. Viene dunque da lontano la sconfitta del renzidipoi. Ma non è la sconfitta dello stil novo “da Dante a Twitter” (che è il suo libro del 2012), ma è semmai il No al twittume che lo circonda, alla petulanza del circoletto social che, per esempio, produsse il ciaone ai tempi del referendum “No trivelle” (17 aprile 2016), la pacchianeria del vincitore renziano che dimostrò di non sapere vincere con quello sbotto di scherno che ricordava le corna di Gassman quando, sulla spider, sorpassava strombazzando.
E però, poiché nella fine c’è sempre la perfezione dell’inizio, l’altro ieri Renzi ha dimostrato di saper perdere, di essere ancora un capo nel Paese dei maggiordomi e dei militanti ossessivi. Domenica notte, con accanto Agnese che lo rendeva elegante, Renzi ha provato che si può vincere perdendo. Sia pure per il tempo di un discorso, il renzidiprima infatti ha avuto la meglio sul renzidipoi.
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