sabato 3 dicembre 2016

"Di un governo non potremo che valutare i singoli atti": se vince il Sì la sinistra cercherà di ricostruire una coalizione di centrosinistra con il PD. Se vince il No invece pure


Alcuni tra i responsabili della meritata fine della sinistra italiana durante una vacanza n un parco a tema del Chiapas specializzato nel fornire agli occidentali intense esperienze vissute dal sapore rivoluzionario. Prima di diventare ricchi - almeno alcuni - e potersi permettere vacanze più decenti [SGA].



Fratoianni: «Dopo il voto uniremo la sinistra del No» 
Il deputato di Sel-Si. «Bocciare la riforma, poi al via la fase congressuale. Ma chi dice Sì ha un’altra idea di democrazia. Serve una legge proporzionale. Non votiamo la finanziaria in corso di approvazione. Di qualsiasi governo futuro non potremo che valutare i singoli atti» 

Daniela Preziosi Manifesto ROMA 3.12.2016, 23:59 
«Questa campagna è stata due cose insieme. È stata brutta perché il governo ha utilizzato la Costituzione per dividere del paese. E invece dovrebbe essere il massimo strumento di inclusione. Una scelta consapevole di cui dovrebbe vergognarsi. Ma è il segno di questo governo: l’idea della politica come un ring in cui l’odore del sangue è il metro del successo». È duro il giudizio di Nicola Fratoianni, deputato di Sinistra italiana, su Renzi. Eppure la campagna referendaria che ieri si è chiusa – lui ovviamente è schieratissimo per il No – «è stata anche un’occasione di revitalizzazione della sinistra e del popolo democratico che della Costituzione ha fatto lo strumento di riappropriazione della propria dignità. E della partecipazione». 

Se vincesse il No però il dividendo politico rischia di essere diviso fra destre radicali e 5 stelle. La sinistra non è stata davvero una protagonista del dibattito. Sbaglio? 

Questo lo può pensare chi guarda solo le tv e i grandi media. Io ho girato il paese e ho visto una mobilitazione straordinaria delle sinistre. Qualunque sia l’esito del voto, e naturalmente lavorando alla vittoria del No fino all’ultimo, a questa mobilitazione dobbiamo dare una risposta. 

Nel fuoco della campagna referendaria voi avete affrontato lo scioglimento di Sel e la preparazione del congresso del vostro nuovo partito. Dal 5 dicembre cosa proporrete? 

Dal 5 dicembre si apre a tutti gli effetti la fase congressuale di Sinistra italiana. Ma già da oggi noi proponiamo l’idea di un «No costituente». Al popolo della sinistra che avrà votato No proponiamo di mettere insieme le energie per costruire un cambiamento radicale del paese. Il No e il Sì non sono la stessa cosa. Il No è il frutto di un’altra idea di società. La sinistra del Sì vuole una democrazia senza popolo, senza partecipazione e senza conflitto sociale. Dal No dobbiamo costruire un elemento di rivolta. 

Vuol dire che secondo lei chi avrà votato Sì sarà fuori dal congresso? 

Discuteremo con tutti. Ma il punto è il giudizio su come siamo arrivati fino a qui.E anche il giudizio su Renzi: c’è chi pensa che sia un accidente nella storia del Pd e che la sua uscita di scena sia di per sé la soluzione. Intendiamoci, prima se ne va meglio sarà. Ma non basta. Il tentativo di costituzionalizzare l’idea di una democrazia senza popolo è il frutto della lunga stagione in cui la sinistra socialdemocratica ha rinunciato a cambiare il mondo, a mettere in discussione il capitalismo e il neoliberismo. Invece da lì dobbiamo ripartire. Come fanno tutte le sinistre del mondo, da Sanders a Corbyn a Pablo Iglesias a Tsipras. 

Come sa, fra voi c’è anche chi non si rassegna all’idea che quelli della sinistra del Sì debbano essere dati tutti per ’persi’. I sindaci, per esempio. 

Ci confronteremo con la massima trasparenza. Ma voglio dire una cosa: la sinistra del No è molto più ampia di Sinistra italiana. 

Prodi voterà sì. Perché? 

Dalle sue parole la riforma costituzionale non esce affatto bene, ma poi si lascia risucchiare da un ragionamento tipico: più che un sostegno al Sì la sua è una preoccupazione per il No. Se vince il No, è il ragionamento, arrivano i barbari, i populisti. È vero l’opposto: le destre vincono quando falliscono le politiche economiche di quelli che si definiscono sinistra e invece fanno aumentare le povertà e l’esclusione sociale. 

Sta dicendo che Prodi è un padre delle politiche neoliberiste? 

No, ma dobbiamo fare i conti con la storia della sinistra di questo paese. Il Pd a un certo punto ha pensato che il campo del neoliberismo fosse l’unico praticabile e che là dentro al massimo si trattava di fare qualche operazione di maquillage. Il tempo del riformismo è finito. Perfino Bersani ora dice di voler fare i conti con la fine di quella stagione. 

Se vincesse il No quale governo proporrebbe il suo gruppo parlamentare, o quale sarebbe disposto a sostenere? 

Ne discuteremo tutti assieme. C’è la necessità di riscrivere la legge elettorale. Io penso che serva una legge proporzionale per mettere mano alla crisi della rappresentanza cresciuta negli anni del maggioritario. 

Votereste un governo Renzi con il mandato di fare la finanziaria e la legge elettorale? 

Di un governo non potremo che valutare i singoli atti. Intanto siamo contrari alla finanziaria in corso di approvazione. Per noi le priorità sono quelle di ordine sociale: investimenti pubblici, lavoro, messa in sicurezza del territorio. Qualunque sia la natura del governo che verrà, lo giudicheremo su questo.

Referendum e il facile gioco tra massimalismo e riformismo
Riforme. Non importa se un teorema è vero o falso, importa solo se è comodo o scomodo, utile o dannoso. Marx parlava di «economia volgare», oggi tocca alla storiografia
Paolo Favilli
«Distorsioni cognitive», così Michele Prospero (il manifesto, 24 novembre) ha chiamato gli effetti dell’ «impressionante» schieramento mediatico messo in campo, in particolare nel settore televisivo, per orientare verso il si l’esito del referendum. Non esiste, però, ambito sottratto alla tentazione delle «distorsioni cognitive» quando si ritiene tale risultato necessario alla conservazione di un assetto politico essenziale allo «stato di cose presente». Così anche settori appartenenti alla «scienza come professione», come la storiografia, si prestano a svolgimenti in termini di narrazione «volgare».
«Economia volgare» è espressione marxiana, utilizzata in particolare ne Il Capitale. Usando tale espressione Marx non si riferisce alla grande tradizione dell’economia classica. Nonostante la concezione marxiana del sapere economico diverga radicalmente da quella di Smith e Ricardo, il pensatore di Treviri ritiene i loro scritti vera opera di scienza, apportatori di conoscenza reale. Economisti «volgari», invece, erano coloro che pensavano «non si trattava più di vedere se quel teorema vero o no, ma se utile o dannoso, comodo o scomodo».
In una disciplina come quella storica che, soprattutto nella sfera contemporaneistica, ha uno statuto scientifico piuttosto debole, e che si presta facilmente ad uso politico immediato, il «meccanismo» descritto da Marx ha trovato un largo e facile uso. La narrazione ideologica basata su storiografia «volgare» emerge con tutta naturalezza, quando, come nell’occasione dell’attuale scontro referendario, le ragioni dell’opportunità politica si fanno stringenti. Emblematico, ad esempio, il caso dell’editoriale di Galli della Loggia nel Corriere della Sera del 5 novembre. Della Loggia sostiene che uno dei punti chiave della «doppia battaglia» sul referendum sia la «battaglia forse ultima e decisiva (..) di una guerra civile iniziata tanto tempo fa all’interno della Sinistra italiana tra riformisti e rivoluzionari». Tra una «sinistra massimalista (…) antiriformista a valenza estremistica» e la sinistra «riformista». La «cultura» del suddetto coacervo «massimalista» sarebbe nata «nelle viscere del ribellismo italiano» e poi, nel secondo dopoguerra sarebbe «cresciuta e alimentata nell’ambito della Sinistra comunista».
In storiografia, ed anche nella sua utilizzazione giornalistica, non si giudicano modelli astratti, bensì la loro corrispondenza con lo stato delle fonti e della letteratura consolidata.
Galli della Loggia usa termini (cioè concetti) come «massimalismo», «rivoluzionarismo», «estremismo», «ribellismo», pressoché come sinonimi, all’interno di un lungo percorso che ripete sempre se stesso. Medesima cosa per «riformismo». Fonti e letteratura consolidata ci parlano di un’altra realtà. Al di là della scelta del modello, il presupposto irrinunciabile per qualsiasi analisi storica consiste nella capacità di «distinzione», cioè nella rigorosa contestualizzazione sia dei concetti che dei fatti. Non c’è alcuna traccia che la base argomentativa dell’editoriale in questione abbia come presupposto un’operazione del genere. I concetti/categorie non sono mai storicamente determinati, si presentano invece come categorie eterne, quasi novelle categorie dello spirito, divisive tra bene e il male. In sostanza il giornalista (un tempo specialista della disciplina storica) dice ai suoi lettori: volete voi soggiacere all’eterno massimalismo, estremista, velleitario, inconcludente, ecc., oppure volete scegliere la ragionevolezza del buon senso? Esattamente la modalità, del tutto propagandistica, con cui è formulato il quesito referendario.
Di quali segnali sono indicatori fenomeni di tal genere?
Ancora Prospero in un bell’articolo dello stesso 5 novembre, sul manifesto, parla dei «moderni regimi monoclasse» come elemento causale della «pochezza dei ceti politici reclutati in occidente», della loro estraneità alla cultura del «leggere le istorie».
Ebbene la «monoclasse» dei regimi politici si integra perfettamente (il rapporto è biunivoco) con una narrazione che espunge dalla vicenda della lunga contemporaneità le radici profonde, economiche, sociali, culturali, politiche della storia delle classi subalterne.

Il contesto in cui opera con facilità la storiografia «volgare» è quello reso particolarmente fluido dal ritorno in forze del «plebeismo» non soltanto nei ceti subalterni, ma anche nei ceti, in senso lato «borghesi». Sulla funzione della sinistra rappresentata dal PCI nel secondo dopoguerra le interpretazioni storiografiche sono del tutto aperte e legittime. È difficile però non concordare sul fatto che uno sforzo particolare del partito di Togliatti fosse indirizzato proprio ad una imponente operazione pedagogica: quella di trasformare la plebe in popolo. L’eliminazione del «ribellismo» ne è stato un aspetto consustanziale. Sostenere che la «cultura del ribellismo» sia «cresciuta e alimentata» nel Pci è «retorica senza prova». Prova, invece, di storiografia «volgare».


“Se vota il Sud vinciamo noi” Il risiko finale della sinistra Pd: riaprire i giochi o la scissione
Una partita nella partita si gioca domani nelle urne I ribelli dem sfidano il premier e il mondo berlusconiano si smarca dal No del Cavaliere

GIOVANNA CASADIO Rep
ROMA. «La storia è maestra ma non ha scolari». Bersani butta lì una citazione di Gramsci in casa di Oscar Farinetti, l’amico di Renzi e fondatore di Eataly a Serralunga D’Alba, nel Cuneese. La sera della vigilia del voto, prima del silenzio elettorale, il leader della fronda dem, l’ex segretario schierato per il No, si astiene dalla campagna elettorale. «Mantengo un impegno preso molto tempo prima che venisse convocato il referendum costituzionale, non faccio campagna». Premette. Parla di globalizzazione, di establishment, di «lavoro che dobbiamo riprenderci in mano», di come gira il mondo di questi tempi. Però è un ponte verso il “dopo”: «Io e Farinetti la pensiamo diversamente sulla riforma costituzionale, ma non per questo non ci frequentiamo», ha spiegato Bersani. Alla fine ci sta anche un brindisi con un Nebbiolo: «Splendida annata».
Ma nel Pd diviso tra il Sì e il No il clima è pesante, senza tregue. La fronda del No non vuole sentirsi chiamare fronda, sa che si gioca a sua volta il tutto per tutto. “Dopo” o si riapre la partita interna oppure c’è la scissione in vista. «Stiamo difendendo la Costituzione, ci sono militanti del Pd che ci ringraziano ». I dem del No non hanno avuto neppure la delega dal partito per fare i rappresentanti di lista. E quindi se la sono fatti dare da Sinistra italiana. Migranti politici per un giorno. Per ora. Alla vigilia del voto di domenica, i rapporti tra Renzi e la sinistra dem sono al lumicino. Il ministro Delrio fa sapere che Renzi se vince il No si dimette? «Un atteggiamento irresponsabile da parte di Renzi che trasforma il referendum sulla Carta in un plebiscito su di sé». È lo sfogo di Roberto Speranza, l’altro leader dem del No. Speranza, dopo la manifestazione a Napoli di giovedì con De Magistris, ieri mattina alle 5 era ai cancelli della Fiat di Melfi a fare volantinaggio.
I dem del No si sparpagliano nella tana di Renzi, in Toscana. Chiara Geloni, che è stata portavoce di Bersani, ex direttore della tv del partito, è a Pontassieve, il paese del premier, a chiudere una manifestazione del No. Stefano Di Traglia, il collaboratore e amico di Bersani, ieri sera era sul palco con Landini. Tanto per infiammare queste ore, Michele Emiliano, il governatore della Puglia, dem per il No, invia due lettere alle Procure di Taranto e Milano per capire se i soldi promessi da Renzi per l’Ilva ci sono davvero oppure no. Rivendica: «Parlo di cose concrete, non tutto è referendum ». Accanitamente contro il PdR, il Pd di Renzi, Massimo D’Alema ieri sera chiude la campagna elettorale a Lecce chiama raccolta il Sud: «Se il Mezzogiorno va a votare è certa la vittoria del No. Se Renzi si dimette, il capo dello Stato non avrà difficoltà a sostituirlo». Chiunque vinca, frondisti e lealisti del Pd, sanno che la posta in gioco è forte. Il bersaniano Gotor chiude ieri sera a Udine «con gli amici e i compagni di sempre, l’Anpi, la Cgil, l’Arci…».. Susanna Camusso, la segretaria della Cgil lancia un appello con il presidente dell’Anpi Carlo Smuraglia e con la presidente dell’Arci, Francesca Chiavacci: «Votate No, è la nostra Carta fondamentale, la riforma avrebbe effetti disastrosi». Affollano la festa del Fatto, Anna Falcone con Alessandro Pace del Comitato del No. Adesioni da Sabrina Ferilli a Monica Guerritore.


Giddens: “Ma a sinistra non tutto è perduto Mai imitare i populisti”
L’INTERVISTA. IL TEORICO DELLA TERZA VIA DI BLAIR

DAL NOSTRO CORRISPONDENTE LONDRA.
«La globalizzazione non scomparirà, la rivoluzione digitale comporta opportunità oltre che rischi, i progressisti non pensino che la Brexit e l’elezione di Trump siano la fine del mondo». È il messaggio di Anthony Giddens, teorico della Terza Via, ex direttore della London School of Economics, per un 2016 che volge al termine fra timori e nuove sfide. Alla vigilia del referendum in Italia, mentre in Francia si riapre la corsa all’Eliseo per un candidato socialista, il grande sociologo inglese ha un messaggio di speranza: «Non tutto è perduto».
Professore, si aggira per il mondo, parafrasando Marx, lo spettro del nazional-populismo?
«Bisogna essere cauti nell’analizzare l’accaduto come una svolta epocale. Vi hanno influito non pochi fattori contingenti. Nelle presidenziali americane Hillary Clinton ha vinto il voto popolare con 2 milioni di voti di vantaggio: il sistema elettorale ha portato Trump alla Casa Bianca, ma la netta maggioranza degli americani non ha ceduto alla sirene di nazionalismo e populismo. Se al posto di Hillary ci fosse stato il vicepresidente Biden, probabilmente avrebbero vinto i democratici. Nel referendum britannico sarebbe bastato che 600mila persone su oltre 30 milioni di elettori votassero diversamente perché la Brexit fosse sconfitta. Se il leader laburista Corbyn si fosse battuto con più convinzione per l’Europa, la Gran Bretagna sarebbe rimasta nella Ue».
La globalizzazione è responsabile per le vittorie della Brexit e di Trump?
«La globalizzazione ha creato un enorme processo di sviluppo nei Paesi emergenti.
Una nazione come la Cina, che fino a non molto tempo fa aveva un problema di denutrizione di massa, oggi ha il problema dell’obesità.
Molto tempo prima delle vittorie della Brexit e di Trump, in Europa e negli Stati Uniti si parlava dell’esigenza di un programma di reindustrializzazione per aiutare la classe operaia bianca a ritrovare un’identità e un salario. Ma non per questo occorre schierarsi per il protezionismo, contro l’immigrazione e mettere sul banco degli imputati la globalizzazione».
Eppure varie stime sostengono che la rivoluzione digitale farà scomparire il 40 per cento dei posti di lavoro.
«La rivoluzione digitale viene spesso analizzata dal punto di vista economico, ma la sua forza trasformatrice sono le comunicazioni. Il primo smartphone risale a neanche dieci anni fa e oggi sulla terra ce ne sono già 2 miliardi. Chiunque può trovare gratis informazioni sul Web. I progressi che questa rivoluzione sta rendendo possibili vengono appena intravisti. Il potenziale positivo è ancora inimmaginabile».
Il Web è tuttavia complice dell’avvento della “post-verità”, parola dell’anno secondo l’Oxford Dictionary.
«È la svolta più significativa annunciata dal voto per la Brexit e per Trump. La gente riceve informazioni non verificate da media non tradizionali. Un leader politico può dialogare direttamente con l’elettorato aggirando giornali e televisioni. I fatti vengono messi sullo stesso piano delle menzogne. Oggi tutti i movimenti populisti vedono nel Web un alleato. Anche l’Isis usa la rivoluzione digitale per diffondere una visione distorta dell’Islam. È il fenomeno più allarmante con cui oggi la democrazia deve fare i conti».
E la sinistra cosa deve fare? Predicare il ritorno al socialismo o insistere sulla Terza Via, il riformismo da lei teorizzato con Blair?
«Né l’uno, né l’altro. Il centrosinistra ha bisogno di nuove idee. Quelle che andavano bene 20 anni fa non sono più adeguate a un mondo irriconoscibile rispetto al 1996. Ma non credo che la risposta si trovi in idee ancora più vecchie di 20 anni fa, come il socialismo».
Dove trovarla, allora?
«In una serie di dati di fatto. La globalizzazione non scomparirà solo perché qualcuno se ne sente danneggiato. La rivoluzione digitale comporta rischi ma anche opportunità, sta a noi coglierle. Il mondo ha compiuto più progressi negli ultimi decenni che nella sua intera storia precedente. Le forze progressiste governano ancora in numerosi Paesi, dall’Italia al Canada, mentre quelle di centrodestra, dal governo pro-Brexit di Theresa May a Donald Trump, saranno in grande difficoltà a mantenere le loro populistiche promesse. La sinistra non deve lasciarsi spaventare né scimmiottare il nazionalpopulismo».
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