martedì 13 dicembre 2016

Fare la pace con la Russia per fare la guerra alla Cina: la strategia dei sovranisti italiani "oltre destra e sinistra" che controllano il Cremlino e la Casa Bianca






 Pechino a Trump: «Principio Unica Cina non è in discussione»
La battaglia del Pacifico. Il presidente eletto Usa alla Fox: «Non sono vincolato, a meno che i cinesi non siano disposti a venirci incontro sul commercio» Manifesto 13.12.2016, 23:59
Il presidente eletto degli Stati uniti Donald Trump e la Cina ingaggiano un nuovo duello dialettico a distanza. Le relazioni tra i due paesi, in attesa di una loro ridefinizione formale, stanno affrontando un periodo di grande incertezza sul quale pesa e non poco la «leggerezza» con la quale Donald Trump affronta questioni di politica estera particolarmente «sensibili» per la controparte cinese.
Domenica, durante un’intervista a Fox News Sunday, il miliardario fresco di vittoria elettorale è tornato a parlare della sua telefonata con la presidente di Taiwan, Tsai Ing-wen. E le sue parole hanno finito per scatenare una furiosa reazione da parte di Pechino, anche perché Trump non è intervenuto solo sulla questione legata all’isola che la Cina considera ancora oggi «ribelle», aumentando, anzi, la portata del suo intervento a questioni commerciali e non solo.
«Non capisco perché dovremmo essere vincolati dalla politica dell’unica Cina, salvo che non si faccia un accordo con la Cina che ha a che fare con altre cose», ha detto Trump ai microfoni di Fox, specificando: «Non voglio che la Cina mi dia ordini su chi posso o non posso sentire al telefono», sostenendo inoltre che, contrariamente a quanto circolata sulla stampa americana, del colloquio con la presidente di Taiwan era stato informato una o due ore prima e che quindi non era stato pianificato con settimane di anticipo.
POCO IMPORTA A PECHINO, perché quello che conta è quanto ha sostenuto il futuro presidente degli Stati uniti. La reazione della Cina, ufficialmente, è stata dura ma ferma. Il portavoce del ministro degli esteri Geng Shuang ha espresso «grande preoccupazione» sulla ridefinizione dell’alleanza tra i due paesi, tornando a sottolineare come il concetto di «Unica Cina» non sia in discussione, ma sia, anzi, il vero e proprio «caposaldo» delle relazioni tra i due paesi.
POSIZIONE MENO SFUMATA e decisamente più muscolare quella dell’organo di stampa del partito comunista cinese, il Global Times. Sul quotidiano ha parlato un esperto di politica estera, Li Haidong secondo il quale Donald Trump sarebbe diplomaticamente «immaturo» perché «forse non riflette a fondo sui temi della diplomazia…Dovremmo fargli capire l’importanza e la complessità delle relazioni sino-americane ed impedire che venga manipolato da alcune forze conservatrici». Ma il quotidiano in lingua inglese si è spinto anche più in là. In un editoriale dal titolo «La politica dell’Unica Cina non è in vendita», ha avvisato il neo presidente americano: «Se Trump abbandona la politica relativa al concetto di Unica Cina e continua a sostenere pubblicamente l’indipendenza di Taiwan e a vendere arbitrariamente armi a Taiwan, la Cina non avrà più alcun motivo di collaborare con Washington sugli affari internazionali, contenendo forze ostili verso gli Stati uniti».
IN RISPOSTA ALLE PROVOCAZIONI di Trump, «Pechino potrebbe offrire sostegno, perfino assistenza militare, ai nemici degli Stati uniti». Non proprio un ramoscello d’ulivo, considerando che Trump nell’editoriale viene descritto come «un bambino ignorante in tema di relazioni internazionali». E al di là delle intemperanze verbali – e va specificato che tra Trump e i media più nazionalisti cinesi ci aspetta un periodo di scontri verbali molto intensi anche nell’immediato futuro – sia a Pechino sia a Washington serpeggia preoccupazione per la piega presa nei rapporti tra la nuova amministrazione e la leadership cinese. Secondo alcuni osservatori, come ad esempio Simon Tisdall sulle colonne del Guardian, Donald Trump starebbe scegliendo di giocare la «carta Nixon» al contrario.
QUELL’AVVICINAMENTO degli Usa alla Cina, voluto da Nixon anche per isolare ulteriormente l’allora Unione sovietica, sarebbe interpretato al contrario da Donald Trump, il quale sembra più propenso a riavvicinarsi a Mosca, «strappando» così con Pechino. Lo confermerebbe la tentazione di Trump a nominare l’ex dirigente Exxon Mobil Rex Tillerson alla segreteria di Stato. Si tratterebbe, nel caso, di una persona che viene data come «vicina» a Vladimir Putin. Una nomina eventualmente, cui non sembra rispondere con altrettanto peso la decisione di mandare come ambasciatore americano in Cina un uomo gradito a Pechino (e vecchio amico dell’attuale leader Xi Jinping), scelta che era parsa rasserenare un clima che, evidentemente, continuerà a essere teso ancora a lungo.

Pechino minaccia Trump “Mette a rischio gli affari” 
Proteste dopo le parole del tycoon sulla fine della politica dell’Unica Cina Il governo: principio non negoziabile. I media: ignorante come un bimbo 

Cecilia Attanasio Ghezzi  Busiarda 13  12 2016

Pechino protesta ufficialmente. Si dice «seriamente preoccupata» della messa in discussione, durante un’intervista domenica alla Fox News, del principio di «un’unica Cina» da parte di Donald Trump. Un principio che nel corso degli anni è stato semplificato in tre negazioni: gli Stati Uniti non devono appoggiare l’indipendenza taiwanese, né alcuna soluzione che preveda la creazione di «due Cine» e neppure l’ammissione dell’«isola ribelle» agli organismi internazionali. Il presidente eletto ha platealmente messo in discussione questi principi, come fosse merce di scambio: «Non so perché dovremmo rispettare la politica di “una sola Cina” in mancanza di un accordo con essa su molte altre questioni».

Per ora il ministro degli Esteri cinesi ribadisce semplicemente il punto: «Il principio di “un’unica Cina” è la base politica per uno sviluppo sano delle relazioni sino-americane». Ovvero, se si mette in dubbio, non ci sarà spazio per alcuna discussione. Perché, come tuona più direttamente il quotidiano di stato «Global Times» in un’editoriale, «non è negoziabile». E Trump è - sempre secondo il giornale - «ignorante come un bambino». Altrimenti non si capisce perché la Repubblica popolare dovrebbe preferire «la riunificazione pacifica» al «prendere Taiwan con la forza».
Pechino si sfila il guanto ma non schiaffeggia. Fintanto che il tycoon non è ancora presidente manda segnali sghimbesci, ma inequivocabili. Così è da intendersi l’esercitazione dell’aviazione militare cinese sullo stretto che separa il Giappone sudoccidentale e Taiwan e ancor di più le parole di Wang Jianlin, l’uomo più ricco della Repubblica popolare che ha stretti rapporti con la famiglia del presidente Xi Jinping. «Ho investito più di dieci miliardi di dollari negli Stati Uniti, dove impiego più di ventimila persone», ha minacciato chi dirige l’impero Wanda. «Se qualcosa va storto potrebbero perdere il lavoro. Detto ciò, deve essere chiaro che l’industria cinematografica in lingua inglese per crescere conta sul mercato cinese. Terremo d’occhio l’attitudine del signor Trump».
«Isolare o penalizzare la Cina non servirà a fare gli interessi dell’America» ha commentato James Zimmerman, a capo della Camera di commercio statunitense in Cina. La bilancia commerciale tra i due Paesi è di 558 miliardi di dollari e come se non bastasse la Repubblica popolare detiene più obbligazioni del tesoro americano di qualsiasi altra nazione. Si tratta di un valore pari a 1190 miliardi di dollari. Ancor meno farà gli interessi di Taipei che esporta in Cina due quinti di tutto quello che produce per un valore che si aggira sui 130 miliardi di dollari all’anno. C’è una ragione per cui nessun presidente Usa - o presidente eletto - ha avuto contatti diretti con un leader taiwanese in quasi quarant’anni.
L’ultimo risale al 1979, quando alla guida degli Stati Uniti c’era Jimmy Carter. Era un mondo diverso, la Repubblica popolare usciva da un periodo di isolazionismo e cominciava a sperimentare quello che poi sarebbe passato alla storia come «il socialismo con caratteristiche cinesi». Nessuno avrebbe messo in discussione la leadership globale statunitense. Oggi si parla di un multipolarismo in cui il delicato equilibrio tra le due potenze economiche si fa garante della stabilità mondiale così come la conosciamo. 
Fino al 20 gennaio Trump potrà continuare a lamentarsi in tv «della svalutazione e delle tasse di importazione». Potrà accusare pubblicamente la Cina di «costruire fortezze nel Mar cinese meridionale che non dovrebbe costruire» e di «non aiutare affatto con la Corea del Nord». Ma se continuerà da presidente, c’è da star certi che Pechino passerà dalle parole ai fatti. E per gli Usa sarà un «reality check».
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Trump, schiaffo alla Cina “Io non accetto ordini” 
Il presidente-eletto: non sarò vincolato alla solita politica su Pechino 

Francesco Semprini  Busiarda 12 12 2016
Irriverente con la Cia, severo con la Cina e revisionista sull’ambiente. È un Donald Trump a tutto campo quello apparso ieri nel salotto domenicale di Fox News per un’intervista fiume. Ad aprire è stata la questione Cia e le accuse di boicottaggio delle elezioni presidenziali da parte di Mosca in favore di Trump. «Non ci credo, è ridicolo», ha detto il presidente eletto accusando i democratici di usare la questione solo come un’altra giustificazione per la sconfitta di Hillary Clinton. Trump non si oppone alla decisione di Obama di una revisione da parte dell’intelligence dei cyber attacchi durante la campagna elettorale. Sostiene tuttavia che «non si dovrebbe dire solo “Russia”. Si dovrebbero indicare anche altri Paesi, e forse altri individui». Sembra inoltre chiaro che i rapporti con l’intelligence non sono dei migliori come dimostra la reiterata diserzione del presidente eletto ai briefing degli 007. «Sono una persona intelligente, non ho bisogno di sentire la stessa cosa con le stesse parole ogni giorno per i prossimi otto anni», ha detto Trump aggiungendo di aver chiesto agli autori dei briefing di fargli sapere «se qualcosa cambia». Forse le cose cambieranno quando alla Cia arriverà il nuovo capo Mike Pompeo nominato da Trump. 
Le attenzioni di «The Donald» si sono poi concentrate sulla Cina e in particolare sulle critiche per la telefonata fatta alla presidente di Taiwan. Mossa questa contraria alla consuetudine della «politica unica» col Dragone. «Non voglio che la Cina mi dia ordini», dice Trump precisando che del colloquio «molto cordiale» con la presidente di Taiwan era stato informato una o due ore prima e che non era stato pianificato con settimane di anticipo, come ipotizzato da alcuni media. Il presidente eletto va oltre e annuncia che «non sarà vincolato» alla politica di una sola Cina fin quando Pechino non farà concessioni sul commercio. Le critiche alla cina si sono poi allargate anche a politica valutaria, attività nel Mar cinese meridionale e alla sua posizione sulla Corea del nord. Chi di Cina se ne intende è Henry Kissinger che con Trump ha avuto un recente incontro alla luce del quale ieri ha precisato che il tycoon è una personalità «senza precedenti nella storia moderna degli Stati Uniti, ma evitiamo di giudicarlo in base alla retorica della sua campagna elettorale». «Lasciamo alla nuova amministrazione la possibilità di presentare le sue politiche internazionali», ha proseguito il premio Nobel ed ex segretario di Stato Usa parlando da Oslo. 
Sul fronte ambientalista Trump ha promesso di voler riesaminare meglio l’accordo di Parigi, che non deve mettere gli Usa in una situazione di «svantaggio competitivo con altri Paesi», come la Cina. E ha ribadito il suo scetticismo sul cambio climatico: «Nessuno realmente sa». Decisioni a breve arriveranno anche sugli oleodotti Keystone e Dakota. 
Infine il capitolo conflitto di interessi, che ha promesso di risolvere affidando la gestione dei suoi affari ai tre figli maggiori e ai manager.
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Tutti gli uomini del presidente Putin alla Casa Bianca 

Con Tillerson e Flynn cresce il peso del Cremlino nel team Trump. Ma i repubblicani protestano

FEDERICO RAMPINI I RITRATTI DEI DUE LEADER A MOSCA Rep
NEW YORK. L’Ordine dell’Amicizia, una delle massime onorificenze del governo russo, gliel’ha conferito personalmente Vladimir Putin. Come biglietto da visita per un futuro segretario di Stato americano, è inconsueto. Ma il capo del colosso petrolifero Exxon Mobil è uno dei più importanti investitori stranieri in Russia. È anche uno strenuo avversario delle sanzioni. Se si conferma la nomina di Rex Tillerson alla guida della diplomazia americana, la fisionomia dell’Amministrazione Trump diventa sempre più netta. Fra i caratteri distintivi: l’alto numero di generali (senza precedenti), la presenza di finanzieri legati alla banca Goldman Sachs, e la lobby petrolifera che allunga le mani perfino sull’agenzia per l’ambiente. Ma se arriva Rex Tillerson al Dipartimento di Stato c’è un’altra “rete” che colpisce per la sua forza: gli amici di Vladimir Putin. Tanto che il capogruppo democratico al Senato, Chuck Schumer, chiede l’apertura di un’indagine parlamentare sul «possibile coordinamento tra la campagna Trump e il Cremlino». Evocare un “coordinamento”, è un passo più avanti rispetto alle accuse della Cia sulle ingerenze pro-Trump degli hacker manovrati da Mosca.
La colonna putiniana dentro il nuovo esecutivo ha già un peso massimo. Il generale Michael Flynn, che Trump ha scelto come il suo National Security Advisor, sarà l’uomo più influente nel suggerire al nuovo presidente le grandi scelte strategiche, dalla politica estera alle questioni militari. Flynn è un raro caso di militare americano filo-russo. Una volta pensionato, accettò di tenere conferenze a pagamento in Russia e divenne un commentatore regolare per il network di propaganda putiniana Russia Today ( Rt). In un ricevimento organizzato a Mosca dalla Rt, Flynn venne fotografato seduto a fianco a Putin, proprio mentre le relazioni tra l’America e la Russia erano ai minimi storici per via di Crimea, Ucraina, sanzioni.
Il caso Flynn non è isolato. Gran parte della campagna elettorale di Trump fu diretta da Paul Manafort, che era stato per sei anni il consulente di Viktor Yanukovich, il leader putiniano in Ucraina. Un altro influente consigliere di Trump sulla politica estera, Carter Page, è legato al colosso energetico Gazprom, longa manus economica di Putin. Infine ci sono i legami affaristici diretti fra lo stesso Trump e la Russia. Lungamente indagati dai media americani durante la campagna elettorale, questi legami passano in parte attraverso la filiale immobiliare Trump Soho, finanziata dal fondo d’investimento (Bayrock) e dall’affarista Tevfik Arif, un kazako nell’orbita di Putin; e con il georgiano Tamir Sapir anche lui nella galassia degli oligarchi vicini a Putin. Trump ha sempre negato che ci fossero conflitti d’interessi. Ha buon gioco a farlo: per quanto possa sembrare strano, non esiste legge che regoli i conflitti d’interessi per un presidente degli Stati Uniti. Un po’ più complicata appare invece la posizione di Tillerson. Se il chief executive di Exxon Mobil sarà scelto come futuro segretario di Stato, lui dovrà passare un’audizione al Senato. Dove molti senatori repubblicani sono tutt’altro che rassegnati a veder crescere l’influenza di Putin. Proprio ieri una dichiarazione congiunta di quattro senatori bi-partisan, due repubblicani e due democratici presidenti di commissioni, ha annunciato l’apertura di un’indagine parlamentare sulle ingerenze russe nella campagna elettorale.
La fitta ragnatela delle influenze russe nella squadra Trump, può suggerire anche un’interpretazione dello “schiaffo” alla Cina. Ieri il presidente eletto ha rivendicato la telefonata dello scandalo con la presidente di Taiwan: «Non vedo perché devo essere vincolato dal principio “una sola Cina”, a meno che la Cina sia disposta a venirci incontro sul commercio. La presidente di Taiwan mi ha chiamato, non sta alla Cina dettarmi se posso accettare una chiamata». La sterzata prefigura un cambio di strategia rispetto alle linee guida bi-partisan che hanno orientato l’atteggiamento di Washington verso Pechino negli ultimi 40 anni. Si può arrivare a immaginare che Trump tenti l’operazione opposta a quella di Richard Nixon: riavvicinamento con la Russia, per indebolire la Cina che è il vero rivale.
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L’infinita saga della famiglia Le Pen Marine e Marion, è lite sull’aborto 
Botta e risposta tra la candidata alle presidenziali del Front National e la nipote Opposte le strategie: conquistare gli indecisi e “riscattare i valori tradizionali” 

Leonardo Martinelli  Busiarda 12 1 22016
Marine contro Marion: si complica la situazione al Front National, dove la sfida tra le due Le Pen si fa sempre più esplicita. Da una parte la candidata alle presidenziali del prossimo maggio e, dall’altra, la nipote, legatissima al nonno e patriarca Jean-Marie (che con la figlia Marine ormai non si vede più). La rivalità fra le due donne nasconde un contrasto più profondo, tra due strategie politiche: quella di Marine Le Pen, che vuole recuperare voti tra gli astensionisti (molti i delusi della sinistra), parlando di disoccupazione, uscita dall’euro, difesa dei diritti sociali. Mentre la priorità della nipote resta «difendere l’identità nazionale» e riscattare i valori tradizionali.
Lunedì scorso Marion Maréchal-Le Pen ha puntato il dito sul «rimborso integrale e illimitato dell’aborto» da parte della sanità pubblica. Subito dopo Florian Philippot, vicepresidente del Front National e il consigliere più ascoltato di Marine, aveva detto riguardo a Marion che «è sola, isolata sul tema all’interno del partito». E la zia, in diretta tv mercoledì su Tf1, aveva rincarato la dose: «Non voglio rimettere in discussione il diritto all’aborto». Ormai, però, il centralino della sede nazionale dell’Fn era già stato bombardato di telefonate di simpatizzanti per difendere Marion. «È Philippot che si isola, dicendo che lei è isolata», ha sottolineato Gilbert Collard, deputato Fn (come la giovane Le Pen) e a lei vicina.
Ebbene, ieri la bionda Marion è ritornata all’attacco in un braccio di ferro inedito per un partito dalla gerarchia interna rigida e rispettata. «Vi assicuro che non sono né minoritaria né isolata nel Front National - ha sottolineato la Maréchal Le Pen al «Journal de Dimanche» - e da Florian Philippot avrei voluto più rispetto». Ha ricordato come la sua posizione sull’aborto fosse «la stessa difesa con coraggio da Marine nel 2012», alle precedenti presidenziali. «E, quando si definisce la linea del Front National e si decide un cambiamento strategico, lo si fa nelle istanze previste dal partito, non da soli su Bfm-Tv». Che è la principale televisione francese all news, sulla quale Philippot l’aveva attaccata.
Sempre più imbarazzata, Marine Le Pen è ritornata ieri a difendere la sua posizione attuale sull’aborto, rivendicando la libertà di poter cambiare opinione e giustificando l’incidente così: «Cerco di riunire persone con convinzioni diverse». In ogni caso, da tempo si capiva che qualcosa non andava più fra lei e la nipote: Marion non si era neppure palesata all’inaugurazione il 16 novembre scorso del quartier generale della campagna elettorale di Marine, subito dietro l’Arco di trionfo. Intanto, la giovane appariva sempre più irrequieta da quando François Fillon ha vinto le primarie della destra con un cocktail di conservatorismo, cattolicesimo rivendicato e liberalismo economico, molto vicini alle ricette di Marion Maréchal-Le Pen. Insomma, lei cerca di rincarare la dose e attacca da destra Fillon. Marine Le Pen, invece, consigliata da Philippot, lo aggredisce da sinistra, criticandolo perché «ultraliberista». Ancora ieri lo ha attaccato «perché vuole privatizzare la sanità e il nostro sistema di sicurezza sociale, così da aprire un nuovo mercato per il suo amico Henri de Castries». È il principale consigliere economico del candidato della destra, uno dei più potenti manager francesi, fino a pochi mesi fa amministratore delegato del colosso dell’assicurazione Axa. Ecco, di questi temi Marine Le Pen vuole discutere in campagna. Niente di più.
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Nel quartier generale di Marine Le Pen 
Icone pop dominano sui muri dell’ufficio dove si organizza la campagna del Fn per le presidenziali. Lo slogan è “In nome del popolo”, il simbolo una rosa blu “Nel linguaggio dei fiori significa rendere possibile l’impossibile”, spiega la leader Il suo obiettivo: sdoganare il partito d’estrema destra e conquistare l’Eliseo Alla scoperta dei piani del Front National per conquistare Parigi

ANAIS GINORI Rep
MENO di due chilometri. Il nuovo quartier generale di Marine Le Pen è al civico 262 di rue du Faubourg Saint-Honoré. Il palazzo dell’Eliseo è al numero 55 della stessa via. L’Escale, lo scalo, così è stato ribattezzato l’appartamento affittato dal Front National per organizzare la campagna delle presidenziali. «Facciamo una sosta prima di arrivare alla destinazione finale», ci racconta la padrona di casa, che ha concluso una dieta non solo mediatica in vista della maratona dei prossimi mesi. Appare dimagrita, sorridente, non fuma più, si sente pronta. «Chiamatemi solo Marine», ripete più volte.
L’INGOMBRANTE cognome è stato cancellato dai volantini. Sui manifesti non c’è neppure quella fiamma tricolore generosamente donata al partito- fratello dal Movimento sociale italiano. Era il lontano 1972. Il Front National nasceva dall’improbabile unione di ex collaborazionisti, neofascisti, aspiranti golpisti, nostalgici dell’Algeria francese. In breve: i reietti, gli sconfitti dalla Storia.
Quarantacinque anni dopo, quel partito di vetero-antagonisti non è più fuori ma dentro al sistema. Ed è convinto di non essere in ritardo ma piuttosto in anticipo sulla Storia. Mentre cammina negli uffici dell’ottavo arrondissement, passando davanti a icone pop sui muri, da Brigitte Bardot a Clint Eastwood, Le Pen rivendica di essere stata una delle prime a puntare sul «rifiuto della globalizzazione, dell’ultra-liberismo selvaggio, la cancellazione delle frontiere». «Notiamo con piacere che sempre più cittadini, anche all’estero, si stanno mobilitando sugli stessi temi. E pardon — aggiunge — ma non abbiamo aspettato Trump per criticare le élite ».
In nome del popolo, è lo slogan scelto. Una rosa blu, il simbolo della campagna elettorale. Una sintesi politica: il fiore dei socialisti, il colore della destra. Addio alle vecchie categorie del Novecento. «Nel linguaggio dei fiori — spiega Le Pen — la rosa blu significa rendere possibile l’impossibile ». Giovani militanti porgono vassoi con biscottini dipinti di blu, si brinda a champagne. Gli altri giornalisti presenti ridono alle battute di “Marine” in un’atmosfera rilassata. La nuova classe dirigente del Fn si è trasferita dalla banlieue di Nanterre al nuovo “Scalo” nella Parigi più chic. Molti sono uomini con meno di quarant’anni. Florian Philippot, l’ideologo, il “guru” secondo alcuni. David Rachline, l’uomo-macchina, direttore della campagna elettorale. Lei non ne ha ancora cinquanta, aveva tentato una breve e inconcludente carriera da avvocato, poi una tardiva vocazione politica forse dovuta solo al fatto che l’erede designata, la primogenita Marie-Caroline, si è sposata con un sostenitore del rivale del padre, Bruno Mégret.
Ore 20.15 del 7 maggio 2017. «Cari compatrioti, oggi si scrive una nuova pagina della Storia e a scriverla sarà la Francia, non Bruxelles o Washington...». Già due anni fa, Raphaël Glucksmann aveva immaginato in un pamphlet il discorso di investitura pronunciato dalla leader del Fn. Le Pen all’Eliseo? Le Pen alle riunioni del G7, custode dei codici nucleari? La domanda non è più tabù. Nel 2011 “Marine” è arrivata alla guida del partito con un solo obiettivo. “Dédiaboliser”, dimostrare che il Fn non è il demonio. Noi diremmo: sdoganare. Missione in gran parte riuscita. «Nei comizi del Front National non vedi più teste rasate, svastiche, è sparito il folclore di una volta», nota lo storico Jean-Yves Camus. «Al massimo capita di sentire qualche coro “Padroni a casa nostra” ».
Marine Le Pen, che ama definirsi “patriota”, può essere considerata di estrema destra? «Se significa essere neofascisti o anti-democratici, la definizione è sbagliata — risponde Jérôme Fourquet, direttore dell’istituto di sondaggi Ifop — perché è una leader che rispetta le istituzioni della République, il suffragio universale, non sogna il colpo di Stato». «Se invece — prosegue Fourquet — si osservano le basi dei suoi discorsi, dal nazionalismo al ritorno dell’autorità, alla contrapposizione popolo/ élite, allora s’inserisce in una tradizione di estrema destra». L’offerta politica resta centrata su immigrazione, sicurezza e contro un presunto “nemico interno”, gli stranieri. «È il marchio di fabbrica del Fn — sottolinea Camus — Marine può accontentarsi di ribadirlo ogni tanto». Come quando la leader Fn sostiene che i figli di sans papiers non potranno più frequentare la scuola pubblica o che vuole dare la “priorità nazionale” ai francesi disoccupati nelle liste di collocamento.
Per mostrarsi come possibile forza di governo il Fn organizza da settembre “assemblee tematiche” su sanità, ecologia, agricoltura, terza età. Le proposte raccolte vanno a nutrire la stesura del programma di “Marine Présidente” che sarà presentato a fine gennaio. Alle presidenziali del 2012, aveva ottenuto il 17,9% delle preferenze al primo turno. Questa volta, oscilla nelle previsioni tra il 26 e il 30%. E al ballottaggio? Pascal Perrineau è direttore del Centre d’étude de la vie politique française (Cevipof). «In alcuni sondaggi Le Pen è oltre il 40%. Da quella soglia in poi, diventa tutto possibile», osserva il politologo. «Il contesto nazionale e internazionale è favorevole. Nelle democrazie occidentali il meccanismo dell’alternanza sembra logoro. La gente — conclude Perrineau — ha voglia di provare qualcosa di diverso ». La svolta del Fn non è stata indolore. Marion Maréchal-Le Pen, che incarna la vecchia linea “identitaria”, rivale di quella più nuova e “sovranista” promossa da Philippot, risulta momentaneamente battuta. La nipote di Marine non era all’inaugurazione in Faubourg Saint-Honoré e non ha mai partecipato al comitato ristretto per la campagna elettorale. Ma nell’unica dinastia politica del Paese c’è sempre il sospetto di un abile gioco di ruoli.
Fino a qualche anno fa, i Le Pen vivevano ancora insieme sulle alture di Saint-Cloud, con vista mozzafiato su Parigi. Il patriarca, le tre bionde figlie, i nipotini, nel castello donato da un ricco militante. Nel 1976 il lascito del costruttore Hubert Lambert ha trasformato in milionario Jean-Marie Le Pen, cresciuto da una vedova di pescatori bretoni. Con il suo patrimonio personale, è ancora lui a finanziare le casse del Fn, nonostante la rottura con la figlia, l’espulsione dal partito, le cause in tribunale. «Può sempre ripensarci, sono pronto a fare la pace», ci racconta Le Pen senior, 88 anni, negli uffici di Montretout. La sua società Cotelec ha concesso un prestito di 6 milioni al partito da lui fondato per lanciare la campagna delle presidenziali. Le banche francesi continuano a rifiutare aperture di credito al Fn. I soldi sono l’unico vero punto debole di una struttura ormai ben organizzata. Nelle precedenti elezioni, Marine Le Pen ha fatto ricorso a società intestate a storici sodali, come l’ex picchiatore di estrema destra e imprenditore Frédéric Chatillon, ora sotto inchiesta. Il partito ha ottenuto prestiti da alcuni istituti finanziari collegati alla Russia. Nuove richieste sono in corso presso altri istituti di credito stranieri. La normalizzazione che si osserva in una parte dell’elettorato francese non vale negli ambienti finanziari. Non basta cambiare indirizzo.
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Così il Front è diventato National 

2 Viaggio a Hénin-Beaumont il feudo di Marine Le Pen nel Nord della Francia Da qui ha lanciato la riscossa del Fn conquistando il voto degli operai. Con l’ambizione di radicarsi in tutto il Paese

ANAIS GINORI Rep 13 12 2016
DALLA NOSTRA INVIATA HÉNIN-BEAUMONT
LA STATUA di Jean Jaurès è al centro dell’ufficio del sindaco, accanto a un enorme mazzo di gigli. Non è un caso. Il leggendario esponente socialista, fondatore dell’Internazionale operaia, strenuo pacifista assassinato alla vigilia della prima guerra mondiale, è l’idolo dichiarato di uno dei collaboratori più fidati di Marine Le Pen. «Perché vi stupite? Jaurès faceva analisi politiche giuste per la sua epoca. Purtroppo il partito socialista di oggi non ha niente a che spartire con quello di allora». Steeve Briois appare cordiale, persino timido. Il primo cittadino di Hénin-Beaumont, 30 chilometri da Lille, è cresciuto politicamente con Le Pen. Sono quasi coetanei. Insieme hanno conquistato la loro prima vittoria elettorale quando era ancora papà Jean-Marie a comandare. L’erede nata e cresciuta a Parigi era in cerca di un feudo dove candidarsi. Briois l’ha portata nel suo Nord depresso, nella terra del grisou che evoca le antiche lotte narrate in Germinal da Émile Zola.
«È stata subito adottata dalla gente perché è sincera, ama il popolo», spiega Briois, il nipote di minatori che ha trasformato la ragazza borghese nella Madonna dei poveri. Di elezione in elezione, la regione un tempo rossa ha stinto verso il blu fino al 2014, quando Briois ha vinto le amministrative contro i socialisti. «Il busto di Jaurès era stato dimenticato in un sottoscala». L’estrema destra ha portato via così un pezzo di storia della gauche, mettendo a nudo divisioni e malaffare dei dirigenti locali. E ha trovato il suo laboratorio politico, tra disoccupazione al 20%, famiglie che vivono di sussidi, imprese che delocalizzano, fabbriche che chiudono.
Un terzo dell’elettorato Fn appartiene oggi a quella che un tempo si chiamava classe operaia. «Non c’era posto migliore per ambientare la nostra battaglia contro la globalizzazione», osserva Briois. Il nuovo Fn vuole essere portavoce della “France des Invisibles” — i forgotten men di Donald Trump — per superare la divisione tra destra e sinistra. E sostituirla con quella che Le Pen teorizza ormai da tempo: da una parte il mondialisme, chi ancora sostiene le magnifiche sorti della globalizzazione,
dall’altra il souvrainisme, i promotori di un ritorno ai confini, ai poteri nazionali.
Hénin-Beaumont è uno degli undici comuni finora conquistati dal Fn. Da quando Marine ha preso il potere nel 2011 è riuscita a decuplicare il numero di eletti locali (da meno di duecento a quasi 2mila). Sempre poco rispetto ad altri partiti, siamo a 98mila per la destra e 67mila per la sinistra, ma è una progressione rapida e il segnale dell’ambizione di radicarsi in tutto il Paese, far diventare il Front davvero National. E dimostrare in piccolo la propria capacità di governare. I sindaci del partito sanno di essere sotto stretta osservazione. «I nostri nemici dicono che con noi sarà una catastrofe, ci sarà la guerra civile, e invece, guardate: viviamo in pace», commenta Briois che vuole fare cose “normali” come tagliare le tasse, inaugurare scuole, risparmiare sull’illuminazione pubblica, creare più posti negli ospizi, attrezzare la città di videocamere di sorveglianza.
Poca ideologia, molto pragmatismo. La linea politica è questa. E non ammette deroghe. Ogni tanto è permesso lanciare un messaggio ai militanti. Briois ha fatto così sloggiare dal centro i volontari di Secours Populaire e ha firmato un manifesto dei “comuni con zero migranti”. La città che amministra, 28mila abitanti, non accoglierà neppure uno dei rifugiati che il governo sta redistribuendo per tutto il Paese. «All’inizio li chiamavano clandestini, poi migranti ora rifugiati. Ma non è vero che scappano tutti dalle guerre», nota il sindaco. «E quelli che davvero fuggono sono uomini poco coraggiosi. Se il mio paese venisse attaccato — prosegue il ragionamento — cercherei di difenderlo».
Con l’obiettivo dichiarato di allargare la sua base elettorale, Le Pen continua a mandare nuovi missionari in terre ostili. Jordan Bardella è un studente in geografia che abita nel famigerato “93”, il dipartimento in cui si concentrano le banlieue a Nord di Parigi con record di povertà e criminalità. Aveva 10 anni quando nel 2005 scoppiò la rivolta delle periferie e il governo dovette decretare il coprifuoco. Appena compiuta la maggiore età, Bardella ha preso la tessera del Fn. «Un terzo dei nuovi iscritti ha meno di 30 anni. Siamo il partito più votato dai giovani », ricorda. Bardella ha fondato il collettivo “Banlieues Patriotes” con la benedizione di Le Pen. «Vogliamo parlare ai musulmani, agli immigrati: il bisogno di sicurezza, di autorità, vale anche per loro», racconta il figlio di italiani arrivati in Francia negli anni Sessanta mentre fa volantinaggio al mercato rionale di Villemonble, non lontano da Saint-Denis, città ancora governata dal partito comunista. I vecchi dirigenti del Pc sono accusati di aver chiuso un occhio sulle derive dei salafisti, le moschee in mano ai predicatori estremisti, in cambio della pace sociale. «In alcuni quartieri — dice Bardella — le ragazze non possono più uscire in minigonna, sono costrette a indossare il velo, ad accettare matrimoni combinati». La leader del Fn ha scritto una “lettera aperta alle donne di banlieue”, denunciando la «grave regressione in corso». Salvo sorprese, potrà anche vantarsi di essere l’unica donna candidata alle prossime presidenziali.
( 2 — continua La prima puntata è stata pubblicata lunedì)

Viaggio nel Front National 3
Da ditta di famiglia a partito 
Inaugurando sezioni e reclutando nuovi manager Le Pen ha strutturato il vecchio Fn per portarlo dall’opposizione al governo. E ha persino aperto un think tank per formare l’élite dirigente

ANAIS GINORI Rep 14 12 2016
PARIGI UNA VOLTA le riunioni di partito si facevano all’ora dell’aperitivo nella villa di Montretout e a seguire festa danzante nel grande parco con vista sulla capitale. Per capire quanto sia cambiata l’atmosfera in quello che un tempo era un piccolo circolo famigliare, a modo suo appagato della nicchia politica che rappresentava, bisogna entrare nell’ufficio di Jean-Lin Lacapelle. Dopo aver lavorato per multinazionali come Danone, Cadbury e L’Oréal, il manager di quarantotto anni è stato assunto nel gennaio scorso da Marine Le Pen. La sua missione: professionalizzare il vecchio movimento di estrema destra e portarlo alla vittoria. «Dobbiamo conquistare credibilità », dice il nuovo segretario nazionale per le federazioni. Indica una mappa cosparsa di spilli rossi. «Il mio Tour de France».
Dalla primavera scorsa, non si è più fermato. «Ero a Marsiglia ieri, riparto questo pomeriggio per la Manica, domani sarò a Nantes, e poi nel Calvados». Lo hanno soprannominato il “tagliatore di teste”. Noi diremmo: il rottamatore. Ha già cacciato e sostituito un terzo dei segretari su quasi cento federazioni. «Alcuni non avevano più le competenze richieste per un partito che deve puntare al 50% delle preferenze». Un repulisti in pochi mesi dentro al Front National. Lacapelle parla di “naturale ricambio”. «C’erano segretari allo stesso posto da vent’anni. Abbiamo bisogno di sangue fresco. Nelle aziende private — continua Lacapelle — si cambia ogni tre, quattro anni. E i manager migliori li riconosci da un dettaglio: preparano la propria successione».
L’ex dirigente L’Oréal è una macchina da guerra. «Quando sono arrivato c’erano intere zone del paese senza sezioni o con poca azione militante». Lui ha ordinato di aprire presidi ovunque, volantinare, organizzare eventi pubblici, alimentare i social e siti web con reazioni, comunicati. «Se un cittadino digita su Google Front+-National+nome di una Città deve trovare subito un telefono da chiamare». È una corsa contro il tempo, le elezioni sono tra cinque mesi. «Non abbiamo le sovvenzioni pubbliche dei nostri avversari. Siamo un partito con pochi dipendenti stipendiati, cresciuto solo grazie ai volontari». Cosa spinge un manager come lui a rinunciare al salario di una multinazionale? «Perché so che Marine vincerà», risponde Lacapelle, amico personale della leader e militante del Fn sin dagli anni Ottanta.
La ditta famigliare si è trasformata in un partito strutturato, pesante, che vanta oggi 83mila iscritti. Erano appena 22mila quando è arrivata la giovane Le Pen con l’obiettivo di traghettare il Front National dall’opposizione al governo. «Stiamo già preparando il programma dei primi cento giorni», annuncia Jean Messiha, diplomato a Sciences Po e l’Ena, alto funzionario del ministero della Difesa e adesso portavoce de Les Horaces. Il nuovo think tank, battezzato col nome di un’antica famiglia di patrioti romani, è formato da un centinaio di membri tra
grand commis, ex funzionari di ministeri, magistrati, avvocati. Tutti vogliono restare anonimi per timore di ripercussioni sul proprio lavoro. «C’è ancora un forte ostracismo nell’establishment sul Fn», ammette Messiha, figlio di egiziani coopti emigrati in Francia. Les Horaces rappresenta un paradosso per un partito che si professa anti-élite. «In verità — puntualizza il portavoce — Marine si batte contro il tradimento delle élite che non sono più al servizio del popolo». Ogni mese, i membri del gruppo incontrano la candidata all’Eliseo in riunioni segrete. «Il nostro lavoro — spiega Messiha — si struttura in gruppi tematici per fornire alla Presidente relazioni su problematiche e possibili soluzioni».
L’altro cantiere aperto è quello per i candidati alle elezioni politiche previste un mese dopo le presidenziali. Nelle selezioni è obbligatorio passare una prova orale davanti a una commissione. Non è il politburo ma poco ci manca. Per ogni nome proposto scatta un’inchiesta interna che esamina fedina penale, profili sui social, articoli o citazioni sul web. «Non è una polizia segreta», si difende Lacapelle. «È prassi normale quando si recluta, anche nel privato fanno così». Le Pen non si può più permettere gaffe o provocazioni com’è capitato in precedenti elezioni. Per chi supera le prime tappe, c’è una pre-candidatura da confermare entro primavera. «È un’altra regola del management — commenta Lacapelle — stabilire un periodo di prova, mettere un po’ di pressione e osservare la reazione».
I 577 pre-candidati sotto esame nei loro collegi elettorali vengono indottrinati da un bollettino mensile firmato dal segretario generale del Fn, Nicolas Bay. In una delle ultime comunicazioni si raccomanda di «essere beneducati, aperti al dialogo e non esitare ad allontanare militanti che non sanno controllare i nervi». Il vice- presidente Florian Philippot diffonde invece una sintesi settimanale sulla posizione del partito su alcuni temi di attualità, proponendo argomenti dialettici, un breviario pronto all’uso. La scuola di formazione del partito, l’Institut de formation nationale, è stata da poco riaperta. L’aveva creata nel 1989 Bruno Megret, sodale di Jean-Marie Le Pen con l’ambizione di rendere professionale il Front National. Ma il patriarca, in fondo, stava bene così. E Megret fu condannato alla scissione nel 1998, senza sapere che, anni dopo, un’altra Le Pen avrebbe ripreso molte delle sue iniziative.
( 3 - continua Le puntate precedenti sono state pubblicate lunedì e martedì)
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Il tabù delle alleanze 4 Se Marine Le Pen supererà il primo turno, dicono i sondaggisti, verrà sconfitta al ballottaggio. Per vincere occorre che il Fn si coalizzi con la destra. Come spiega Bruno Mégret, l’uomo della scissione con Jean-MarieANAIS GINORI Rep 15 12 2016
A Vitrolles, nel sud, sua moglie aveva tentato di instaurare la “preferenza nazionale” negli incentivi sociali alle famiglie. L’indignazione sollevata da quella proposta aveva costretto i coniugi Mégret alla marcia indietro. «Favorire i francesi nei sussidi pubblici è ciò che propone adesso il Fn», osserva l’ex politico, che si è ritirato a vita privata e parla di rado con i giornalisti. Gran parte dell’attuale gruppo dirigente del Fn è composto da ex
mégretisti, come Nicolas Bay, segretario del partito, o Louis Alliot, vice-presidente e compagno di Marine Le Pen. Anche Philippe Olivier, uomo di fiducia del dissidente, è tornato nei ranghi. Era stato cacciato con la moglie Marie-Caroline, primogenita di Jean Marie. «Detto questo, non credo Marine arriverà all’Eliseo», commenta Mégret che critica una leader «senza colonna vertebrale ideologica ». Nessuna vittoria possibile senza alleanze, spiega colui che si era battuto per accordi con la destra. La Presidente, invece, ripete di voler far da sola. «In un sistema tripolare finisce sempre due contro uno. Il Front National — conclude Mégret — dovrebbe avere il coraggio di dire chiaramente che il suo elettorato è a destra, non a sinistra».
A cinque mesi dal voto, Marine Le Pen sembra avere davanti a sé una strada spianata grande quanto un boulevard. A seconda degli istituti, potrebbe ottenere tra il 25 e il 30% al primo turno delle presidenziali. Il suo problema è il dopo. Come guadagnare oltre venti punti, arrivando alla soglia del 50% per entrare all’Eliseo? La leader Fn potrebbe uscire vittoriosa dal primo turno del 23 aprile, poi essere sconfitta al ballottaggio del 7 maggio, magari con un risultato onorevole, intorno al 45%. E poi, sempre per l’inerzia del sistema, finirebbe umiliata alle elezioni politiche con meno dei 15 deputati (su 577), senza poter neppure formare un gruppo parlamentare.
È lo scenario più prudente, ipotizzato da Jérôme Fourquet, direttore dell’istituto di sondaggi Ifop. «La crescita del Fn è stata spettacolare: dal 2012 a oggi è passato dal 18 al 28%. Ma in alcuni elettorati, artigiani, operai, disoccupati, il partito fa già il pieno, con picchi del 40%. È difficile andare oltre quella soglia». La candidatura di François Fillon è una cattiva notizia per Le Pen, anche se lei nega. «Fillon — nota Fourquet — può spostare voti in bilico tra destra conservatrice e Fn». Il politologo Nicolas Lebourg, membro dell’Observatoire des radicalités politiques, è meno ottimista. «Non credo più alla teoria del soffitto di cristallo: se esistesse davvero non si sposterebbe di volta in volta», taglia corto. «Alla presidenziale c’è un unico grande collegio elettorale, quindi la logica è molto diversa dalle altre elezioni. Il Fn andrà a cercare voti nelle aree sociali dove è meno forte».
Lo spettro che si aggira tra i dirigenti del Fn è quello dell’elettore castoro. Lo chiamano proprio così nei loro report interni. Spunta tra il primo turno e il ballottaggio per costruire una diga contro l’estrema destra, anche a costo di votare per l’avversario politico, com’è accaduto alle regionali del dicembre scorso. Marine e la nipote Marion erano arrivate in testa in due regioni ma alla fine sono state battute. «Sappiamo già che dopo il primo turno si scatenerà un clima isterico contro di noi», prevede il vice-presidente Florian Philippot ricordando le parole dell’ex premier Manuel Valls che ha paventato il “caos”, la “guerra civile” con l’arrivo del Fn al potere. «Ci sono elettori che hanno timori, sono in buona fede. Sono loro che dobbiamo convincere ». Lo slogan che appare sui nuovi manifesti è stato inventato proprio da Marine. “La France apaisée”, la Francia pacificata.
David Rachline racconta un aneddoto. Durante un viaggio in treno, il sindaco di Fréjus e attuale direttore della campagna elettorale per le presidenziali, chiacchiera con un controllore figlio di immigrati. «All’improvviso mi dice che è d’accordo con le nostre idee ma che se vinceremo, lui sarà cacciato dalle Ferrovie, quindi non ci voterà mai. Sono queste leggende che ci impediscono di vincere». Rachline assicura che il Fn non vuole trattare in modo diverso “Abdel, Patrick o David”. «Dobbiamo fare in modo che Marine venga giudicata per le sue idee, non in base a caricature». Dietro le quinte, il giovane senatore, appena 29 anni, fa capire che il discorso delle alleanze non è più tabù. «Governeremo con una maggioranza che non sarà solo del Fn», spiega, evocando convergenze con “eletti e quadri di altri partiti” su alcuni aspetti, come il “patriottismo economico”. Le Pen non vuole presentare una squadra di possibili ministri, una sorta di governo-ombra. Sarà libera di trattare e promettere al momento più opportuno, allargando forse lo sguardo oltre il suo recinto politico. «È la candidata del popolo — conclude Rachline — non di un partito. Mettetevelo bene in testa».
( 4 - continua. Le puntate precedenti sono state pubblicate lunedì, martedì e mercoledì)
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La battaglia delle idee Dai media di propaganda e contro-informazione alle trasmissioni tv: il Fn è riuscito a imporre una nuova egemonia culturale Il trittico “Islam-Insicurezza-Immigrazione” oggi domina il dibattitoANAIS GINORI Rep 16 12 2016
NON ESISTE miglior termometro per misurare la febbre che attraversa il paese, per scrutare la miscela esplosiva che si propaga in un unico fuoco. Il video di un’aggressione in banlieue mischiato alla predica di un imam. La notizia di un allarme bomba in una chiesa di campagna accanto alle foto dell’ultimo sbarco di migranti. Nessun organo istituzionale, nessun partito politico può vantare una platea virtuale così estesa. Con la sua visione apocalittica,
Fdesouche. com è il secondo sito di comunicazione politica più popolare di Francia, oltre 4,5 milioni di visitatori al mese, superato solo da Égalité et réconciliation, fondato dell’ideologo ultrareazionario Alain Soral (8,1 milioni di visitatori).
Lanciato dieci anni fa in sordina, Français de souche, francesi purosangue, è ormai diventato megafono della propaganda dell’estrema destra. Concentrato sul trittico Islam-Immigrazione-Insicurezza, è un aggregatore di notizie, spesso non verificate, che propone un’altra narrazione del reale rispetto a quella dei media mainstream. Facile pensare al sito americano Breitbart che nella sua visione del mondo “post-verità” ha contribuito alla vittoria di Donald Trump. «Attenzione, però, Marine Le Pen è troppo furba per appoggiare Fdesouche », racconta David Doucet, autore con Dominique Albertini del saggio La Fachosphère, analisi di voci e gruppi che alimentano il sostrato culturale del Front National. La leader non è azionista di riferimento di Fdesouche, ma ne riceve un chiaro dividendo culturale e politico. «È un mezzo per liberare sentimenti un tempo tabù, di rafforzare paure, agitare spauracchi», commenta Doucet. Si è rotta quella che i sociologi chiamavano la “spirale del silenzio”. «Prima — osserva l’autore — quando avevi un’opinione minoritaria, stavi zitto. Adesso puoi osare affermarlo in pubblico. E magari sperare di diventare maggioritario».
Forse Le Pen non arriverà all’Eliseo, ma ha già vinto la battaglia delle idee. Il trittico Islam-Immigrazione-Insicurezza, marchio di fabbrica del Fn da anni, monopolizza il dibattito. Alcune proposte del Fn, come revocare la nazionalità ai cittadini accusati di terrorismo, sono state addirittura riprese dalla sinistra. La saggistica più di successo è quella di intellettuali apocalittici come Eric Zemmour o Philippe de Villiers, grazie al passaparola nella “fascio-sfera” in Rete. Sta emergendo una nuova egemonia culturale. «Ogni volta si sposta l’asticella di ciò che è lecito dire», nota Doucet. Il discorso di Marine non è più così scioccante, può persino apparire moderato rispetto al contesto nel quale si muove.
Il Front National è stato il primo partito ad avere un sito, nel lontano 1996, per sopperire all’ostracismo dei media ufficiali. Il webmaster era un giovane militante, si chiamava Pierre Sauterel. È il fondatore di Fdesouche. Il Fn ha conservato il suo vantaggio, batte tutti gli altri partiti con oltre 1 milione di visitatori mensili. Marine fa un uso smodato dei social network. «Abbiamo sempre cercato una relazione diretta, senza intermediari, con gli elettori. Spesso è anche un modo di rettificare informazioni, smentire accuse che circolano», racconta Florian Philippot, vice-presidente alla strategia e alla comunicazione. Le Pen è anche la personalità politica più popolare su Facebook — oltre 1,1 milioni di “like” — ed è sempre attiva su Twitter. Ha persino un profilo con pseudonimo @enimar68 (il soprannome che le aveva dato il padre e la sua data di nascita) che utilizza per sfogarsi liberamente.
Il “cordone sanitario” dei media intorno al cognome Le Pen è sparito. A lungo, i fondatore Fn è stato considerato un reietto, al bando da trasmissioni radio, tv. I grandi quotidiani ne parlavano solo se proprio necessario. Era prima dell’arrivo di Marine, diventata ospite fissa di talk show, persino di trasmissioni di alleggerimento come Ambition Intime: seduta su un divano bianco ha confessato ricordi d’infanzia e l’amore per i gatti. L’epoca è cambiata e le capacità comunicative della leader Fn hanno travolto le antiche riserve. Qualche argine rimane.
Libération copre l’attualità del Fn con giornalisti specializzati e, in vista delle presidenziali, anche un “osservatorio” alimentato da esperti e politologi. Ma lo storico quotidiano della gauche continua a non pubblicare interviste con Le Pen. «Non vogliamo offrirle anche questo pulpito», spiega il direttore Laurent Joffrin. Una posizione di retroguardia? «Ce lo domandiamo spesso in redazione, ma finora pensiamo sia giusto così, non vogliamo rilasciare al Fn una patente di conformità ai valori della République ». Anche il quotidiano belga Le Soir non pubblica testi a domanda e risposta con Le Pen: solo citazioni all’interno di articoli. Diversa la scelta di Le Monde che ha già fatto numerose interviste con la leader del Fn ma non ha accetta di ospitare suoi commenti. «Riteniamo che ci sia sempre bisogno di contestualizzare e decifrare la retorica Fn», osserva il direttore Jérôme Fenoglio. La velocità del Nuovo Mondo mette in crisi vecchi principi del giornalismo. A giugno il
New York Times ha pubblicato in prima pagina un articolo sul Brexit firmato dalla leader del Fn. Titolo: «La primavera dei popoli è inevitabile».
( 5 - fine. Le puntate precedenti sono state pubblicate tra lunedì e ieri)
PARIGI
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Maxi-intesa mediterranea Eni e Russia soci nel gas 
Al gruppo 1,6 miliardi per il 30% del giacimento egiziano Zohr L’acquirente è Rosneft nel cui capitale entrano Glencore e Qatar 

Luigi Grassia  Busiarda 13 12 2016

Il risiko mondiale del gas muove miliardi e ridisegna le mappe globali dell’energia, con l’Eni a recitare un ruolo da protagonista. Sul piano strettamente economico, il gruppo italiano incassa un assegno da un miliardo e 575 milioni di dollari (corrispondente quasi alla stessa cifra in euro) vendendo alla russa Rosneft una quota del 30% nella concessione di Shorouk, nel Mar Mediterraneo di fronte all’Egitto, dove si trova il gigantesco giacimento di gas Zohr, che è stata la più grande scoperta di metano negli ultimi anni. L’incasso di 1,575 miliardi di dollari include la somma di 1,125 miliardi per la vendita vera e propria del 30% delle azioni e di 450 milioni a titolo di rimborso pro-quota da parte di Rosneft degli investimenti fatti dall’Eni per la ricerca e lo sviluppo del giacimento di Zohr. Altre centinaia di milioni potrebbero arrivare in futuro se Rosneft farà valere l’opzione di acquisto di un ulteriore 5% di partecipazione alle stesse condizioni.

La Rosneft è una compagnia petrolifera controllata a maggioranza dallo Stato russo ma quotata in Borsa e sul punto di aprirsi ancora di più al mercato con l’ingresso al 19,5% di un consorzio composto dall’anglo-svizzera Glencore e dal fondo sovrano del Qatar.
L’operazione Eni-Rosneft è importante per le casse dell’Eni ed è stata premiata in Borsa con un +3,72% del titolo, spinto anche dalla risalita dei prezzi del petrolio dopo l’accordo dell’altro giorno fra Paesi Opec e non-Opec sul taglio della produzione. Ma al di là del flusso di denaro verso l’Eni, la cessione del 30% si fa notare perché l’acquirente non è un gruppo qualsiasi ma è la Rosneft, e questo inaugura una nuova stagione di alleanze italo-russe nell’energia. Troppo presto forse per ricamare ipotesi sul nuovo corso internazionale che sta per essere avviato da Donald Trump, futuro presidente filo-russo degli Stati Uniti, e dal numero uno filo-russo della Exxon come segretario di Stato, ma la coincidenza è suggestiva.
Al momento la Russia fornisce all’Italia un terzo del metano che consuma, ma le collaborazioni fra aziende dei due Paesi non sono molte. In anni recenti il gruppo Eni ha liquidato tutte le attività che aveva in Russia, anche per via delle sanzioni internazionali (che adesso scricchiolano); due importanti accordi di ricerca di petrolio e gas nel Mare di Barents e nel Mar Nero fra Eni e Rosneft sono sospesi in attesa che si chiarisce la situazione politica. Un’altra società italiana, la Snam, possiede l’84% del gasdotto Tag che da Baumgarten, in Austria, porta al confine italiano di Tarvisio il metano russo in arrivo con il gasdotto Broterhood. Acquirente di questo gas è l’Eni. Tempo fa il presidente russo Putin aveva invitato le aziende italiane a partecipare al raddoppio del gasdotto Nord Stream nel Mar Baltico; nel caso che ci fossero sviluppi, potrebbero entrare in gioco la Snam come gestore e la Saipem come costruttore, ma non è arrivata alcuna risposta e si tratta di pure speculazioni. Per l’energia italiana in Russia il quadro si completa con l’Enel che vi ha quattro centrali elettriche e il 49% di una società di vendita.
Tornando alla cessione di Zohr, l’Eni detiene il 90% della concessione di Shorouk di cui fa parte Zohr. L’altro 10% è stato ceduto di recente alla Bp.
Si tratta di una procedura consueta. Spiega una nota del gruppo Eni, in linguaggio un po’ involuto: «L’operazione rientra nella strategia di “dual exploration” che consiste nel perseguire, in contemporanea al rapido sviluppo delle riserve scoperte, la loro parziale diluizione, al fine di anticipare la monetizzazione del loro valore». In parole povere si tratta di cercare nuovi giacimenti e poi venderne delle quote per incassare qualcosa subito.
Con questa nuova transazione gli incassi complessivi dell’Eni negli ultimi quattro anni grazie alla strategia di «dual exploration model» salgono a 6,3 miliardi di dollari.
Il giacimento di gas naturale di Zohr è stato scoperto dall’Eni nell’agosto del 2015 ed è il più grande del Mediterraneo, con un potenziale complessivo a 850 miliardi di metri cubi di metano, il che porta le riserve egiziane a un totale di 2950 miliardi di metri cubi. Nello scorso mese di febbraio è stato completato l’iter delle autorizzazioni per lo sviluppo di Zohr, mentre il primo metano utile ai fini commerciali dovrebbe uscire entro la fine del 2017. 
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Così l’Italia apre al Cremlino le porte del Mare Nostrum 
Tutto torna in discussione, dal nostro sostegno a Sarraj in Libia ai rapporti con Al Sisi, finora condizionati dalla tragedia di Regeni 

Stefano Stefanini  Busiarda 13 12 2016

Per l’Eni, la cessione a Rosneft del 30% della concessione di Zohr, nell’offshore dell’Egitto è una botte di ferro, economica, politica e strategica. Per la Russia è il biglietto d’ingresso nel gioco energetico del Mediterraneo. Per l’Italia è un cambio di scena alla porta di casa. Il governo Renzi non poteva non esserne informato; Gentiloni dovrà trarne le conseguenze.

La mossa dell’Eni dimostra che la diversificazione geografica perseguita dalla società italiana non sacrifica il rapporto privilegiato con la Russia, anzi ne allarga gli orizzonti ad aree terze, specie in Africa. Rosneft, che non si muove senza luce verde del Cremlino, piazza la bandiera russa nelle acque del Mediterraneo alla congiunzione fra Medio Oriente e Nord Africa. Non troppo lontano, la Russia ha stabilito una solida presenza militare nelle basi siriane di Latakia e Tartus; comunque vada a finire la tragedia siriana non sloggerà. 
Appena riuscirà ad estrarsi dal psicodramma della crisi di governo, Roma dovrebbe domandarsi cosa significhi per l’Italia l’accordo fra Eni e Rosneft. La casella energetico-commerciale è fuorviante. L’operazione non poteva avvenire senza l’accordo, a livello politico, sia di Mosca che del Cairo. Se Roma non vuole accreditare il vecchio adagio che la politica estera italiana si fa fra Piazzale Mattei e San Donato Milanese, il neo-ministro degli Esteri Angelino Alfano dovrà affrontare rapidamente le implicazioni dell’ingresso russo nella nostra periferia mediterranea. Che non sono solo energetiche, ma fortemente politiche. Tirano in ballo sia i rapporti con l’Egitto sia la crisi libica.
L’Eni incassa, a un buon prezzo secondo gli analisti, i dividendi delle propria esplorazione e conserva la maggioranza di Zohr. A Bruxelles, Claudio Descalzi ha appena confermato al vicepresidente della Commissione, Maros Sefcovic, il contributo articolato dell’Eni all’Unione dell’energia attraverso i gasdotti dal Nordafrica, i rigassificatori - e il rapporto con la Russia, di cui l’Europa «ha bisogno, come la Russia ha bisogno di noi». L’Eni di Descalzi è diplomatica e diversificata ma non tanto diversa da quella di Paolo Scaroni. Il rapporto con Mosca rimane centrale. Anzi, può passare dal bilaterale Italia-Russia al mercato energetico globale dove l’Eni, con un’aggressiva politica di esplorazione, è più avanti dei giganti russi ancorati alle radici territoriali. Per la Russia l’accesso, sia pure minoritario, al bacino di Zohr è gioco, partita, incontro. Sulla scia dell’intervento in Siria, Mosca si sta costruendo una presenza mediterranea che non aveva dagli Anni 70. Sul piano militare non è una passeggiata, come dimostra la controffensiva di Isis a Palmira, e porta sulla coscienza l’aver lasciato che Assad faccia terra bruciata ad Aleppo. Diventa importante allargare il raggio d’azione, politico e geografico. 
Il Medio Oriente sente sulla pelle il ritorno russo, spalleggiato dall’Iran e non osteggiato da Israele. Nella totale incertezza sulla politica dell’amministrazione Trump, nell’inesistenza politica dell’Ue, la Russia naviga col vento in poppa. Ha già un buon rapporto con l’Egitto di Al Sisi; la crisi libica, dove entrambi appoggiano il generale Khalifa Haftar, le apre le porte del Nord Africa. Dove la dimensione energetica è dominante. L’accordo fra Eni e Rosneft le consente di metterci un piedino. Il Mediterraneo è stato a lungo un lago strategicamente occidentale. L’equilibrio si è incrinato per la tempesta perfetta di crisi siriana e libica, Stato islamico, terrorismo e migrazioni di massa, generando una pressione da Sud che la sponda Nord fa fatica a contenere. Adesso si aggiunge il terzo incomodo: una Russia ferocemente anti-terrorismo e affiliati, ma non compiacente verso Occidente ed Europa.
Questo il quadro cui il nuovo governo italiano deve cominciare a pensare. La nostra linea di appoggio al governo di Al Sarraj a Tripoli era in sintonia con Washington. Se la nuova amministrazione si disimpegna, rischiamo di trovarci isolati, mentre aumentano i sostenitori di Haftar. Si può ancora vedere in Al Sarraj il catalizzatore di una sfuggente unità nazionale o bisogna spingerlo a un compromesso? Quanto possiamo ancora tenere congelato il rapporto con l’Egitto? La tragica fine di Giulio Regeni resta un serio problema, ma l’incomunicabilità con il Cairo, dove non abbiamo ambasciatore da cinque mesi, è un lusso che non possiamo permetterci. Altrimenti il ministro Alfano scoprirà che la politica estera si fa a Piazzale Mattei anziché alla Farnesina.
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“Per Mosca un’operazione geopolitica che non ha senso economico” 
Guy Caruso, analista di intelligence energetica: “L’intesa è una conseguenza di Trump, finisce l’ostilità verso Putin” 

Paolo Mastrolilli  Busiarda 13 12 2016

«Io penso che dietro a questo accordo ci sia qualcosa di più grande». Guy Caruso, analista dell’«Energy and National Security Program» al «Center For Strategic and International Studies», una vita passata ad occuparsi di energia prima alla Cia, e poi come amministratore della «Us Energy Information Administration», non si ferma al comunicato stampa. Secondo lui, i dettagli dell’accordo con cui l’Eni ha ceduto a Rosneft il 30% del giacimento di gas al largo dell’Egitto nascondono progetti più ampi.

Perché ha questa opinione?
«Cominciamo a fare un’analisi basata sul presupposto che si tratti solo di affari. Una compagnia russa, dove il gas naturale abbonda, spende oltre un miliardo di dollari per acquistare una partecipazione del 30% in un giacimento nel Mediterraneo. D’accordo, potrebbe trattarsi solo di questo. In termini puramente numerici, però, non ha molto senso. Non siamo neppure sicuri che ci sarà abbastanza domanda per tutto questo gas, che comunque alla Russia non manca».
Allora di cosa si tratta? Una manovra geopolitica per mettere un piede nel Mediterraneo?
«Questa forse è una motivazione migliore, ma spiega l’operazione solo in parte. Infatti la Russia, soprattutto grazie all’intervento in Siria, ha messo molto più di un piede nel Mediterraneo. È vero che l’Egitto ha un ruolo strategico diverso, ma il 30% di partecipazione ad un simile progetto non offre a Mosca una grande leva. Sì, è utile per essere presenti nella regione, ma non in maniera così determinate».
Allora quale può essere la ragione di fondo dell’operazione?
«Non posso saperlo con certezza, ma sospetto che sia legata ad un generale riallineamento nel mondo dell’energia. Dalla Libia all’Iraq, dall’Ucraina a Israele, sono in corso molti movimenti, ma il più grande di tutti è probabilmente il ritorno dell’Iran sul mercato, dopo l’accordo nucleare. Non mi stupirei se questa intesa fosse parte di uno scambio che riguarda il riassetto dell’intero scacchiere energetico, oltre al business specifico dell’Egitto e alla volontà del Cremlino di mettere un altro piede nel Mar Mediterraneo».
Donald Trump non è ancora entrato in carica come presidente degli Stati Uniti, ma ha detto con chiarezza che intende rilanciare il dialogo con la Russia. Secondo lei le relazioni stanno già mutando?
«Diciamo che fino a qualche tempo fa qualunque intesa con Mosca veniva vista con sospetto, se non apertamente osteggiata. La crisi ucraina, con le sanzioni che ha generato, dominava le relazioni con Putin, e tutto veniva visto attraverso quella lente. Ogni passo verso il Cremlino, dunque, era considerato come una potenziale minaccia. Ora il clima sta cambiando. Non so se questo si possa già mettere in relazione alla mossa compiuta dall’Eni, ma nei prossimi mesi ci troveremo ad operare quanto meno in una fase più fluida». BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

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