giovedì 15 dicembre 2016

Forconi e bidoni, Sinistra Boldrina e Sinistra Referenda




La sinistra storica italiana ha perso il suo ultimo treno nel 2007. Quando, a fronte del V-Day dei grillini e dunque di una fase politica già sostanzialmente chiara nelle sue linee fondamentali, segnate da uno scontro frontale per la contesa della piccola borghesia in crisi, si dimostrò incapace di comprendere ciò che stava accadendo. E mentre il suo elettorato e persino una parte dei suoi militanti e dei suoi quadri passavano da quella parte - persone culturalmente assai poco formate e politicamente ancora meno affidabili, va detto a nostra ulteriore colpa -, tutte le forze organizzate in quel campo rimasero a guardia di quel vero e proprio bidone che erano il governo Prodi e più complessivamente il Centrosinistra.
Quando poi, tra il 2011 e il 2012, molti compagni si impegnarono in una discussione di altissima scuola sulla natura del movimento dei Forconi e sull'opportunità di avvicinarsi - perché è successo anche questo, nessuno lo dimentichi -, lo psichiatra era già intervenuto da tempo ma ormai era tardi e nemmeno il TSO sarebbe più stato efficace.
Che il coma sia irreversibile lo conferma il fatto che adesso - come se la spallata a Renzi fosse il segno di un paese che va dove piacerebbe a noi - sembra tornare in auge una grande novità: la strategia referendaria. E tutti guardano con malriposta eccitazione al quesito sul Jobs Act tramite il quale la CGIL intende riconquistare il PD per dar vita a una formula politica originale e inaudita nella sua genialità: un nuovo Centrosinistra.
Un altro coniglio dal cilindro, un'altra scorciatoia, un altro spreco di idealismo volontaristico. Un'altra imminente tranvata sui denti, perseguita con passione scientifica. Tutto pur di evitare quel lavoro ventennale di coerenza, ricucitura e radicamento la cui rovente urgenza ci guarda dritto dritto nelle palle degli occhi [SGA].

Lo spauracchio Nonna Rangeri

E Renzi detta la linea “Il governo non ha agenda il Jobs Act è intoccabile” 

Nel Pd la tentazione di cambiare la riforma del lavoro ma l’ex premier: non si può dire “abbiamo scherzato” 
Amedeo La Mattina  Busiarda
«Il Jobs Act non si tocca. Reintrodurre l’articolo 18 sarebbe come dire “ragazzi abbiamo scherzato”. Il giorno dopo arriverebbe un downgrading per l’Italia dalle agenzie di rating». Matteo Renzi mette uno stop ad ogni ipotesi di rivedere la legge che è stata una delle bandiere dei suoi oltre mille giorni di governo. Una revisione che potrebbe disinnescare la bomba ad orologeria del referendum chiesto dalla Cgil con 3,3 milioni di firme raccolte e sul quale l’11 gennaio si pronuncerà la Corte Costituzionale. Nessuno però dubita che ci sarà il via libera della Consulta, dopo quello della Cassazione. 
Per Renzi si tratterebbe di andare incontro ad una seconda prova referendaria alla testa di un nuovo fronte che questa volta sarebbe del No all’abrogazione del Jobs Act. Il rischio sarebbe di una seconda sconfitta nell’arco di pochi mesi dopo quella del referendum costituzionale. Una catastrofe che renderebbe velleitaria ogni ipotesi di rivincita alle elezioni politiche. Certo, confida Luca Lotti, si potrebbe adottare il «modello trivelle» quando a quel referendum Renzi puntò tutto sull’astensione, facendo mancare il quorum. Con l’aria che tira, un’operazione ad altissimo rischio. Ci sarebbe l’altra strada che viene accarezzata una parte del Pd (sicuramente dalla sinistra Dem) ovvero provare a modificare il Jobs Act, svuotandolo. Facile farlo per i voucher, molto più difficile per l’articolo 18. In ogni caso sarebbe una sconfessione di un architrave del renzismo. E infatti da Pontassieve l’ex premier dice no ad una marcia indietro.
Dario Franceschini, che vorrebbe allungare al massimo la vita governo Gentiloni, non crede che l’obiettivo di Renzi sia di andare a elezioni entro giugno anche per evitare il referendum. Obiettivo che invece viene confermato dallo stesso ex premier, sfidando centinaia di deputati e senatori di prima nomina che vorrebbero arrivare quantomeno a settembre per traguardare quei fatidici 4 anni, 6 mesi e 1 giorno che farebbero maturare loro il diritto all’indennità pensionistica. Ma al di là di questi aspetti «prosaici», c’è un punto politico: Renzi ha fretta. «Sapevo che il referendum ci sarebbe caduto addosso - ha ricordato ai suoi colonnelli rimasti a Roma - e ora andare al voto è ancora più necessario». Del resto, è il suo ragionamento, qual è l’agenda del governo Gentiloni? «Un po’ di roba, ma non c’è un’agenda impegnativa», ha detto ai suoi più stretti collaboratori che lo hanno sentito al telefono in queste ore. 
Il ministro del Lavoro Giuliano Poletti ha confessato che se si vota prima del referendum il problema viene risolto. Poi ha fatto una goffa retromarcia. E nel primo Consiglio dei ministri dopo la fiducia del Parlamento ha ammesso di avere fatto «una scivolata personale». Ma intanto la frittata è stata fatta. In ogni caso Poletti ha detto quello che pensa Renzi. «Ha ragione Poletti, ma gli è sfuggita», ha commentato al telefono con i vertici del Pd. L’ex premier non vuole farsi inchiodare da coloro che puntano al vitalizio ed essere crocifisso da Grillo e Salvini: avrebbero un’altra lancia velenosa da scagliargli addosso. 
Il leader Pd pensa invece a rimettersi in moto al più presto. In questi giorni va a fare la spesa, porta i figli a scuola, ha il tempo di farsi una corsa, ma sta pure scrivendo quella che lui definisce una «relazione corposa» per l’assemblea nazionale del Pd che si svolgerà domenica prossima. Una relazione per rilanciare la sua azione politica in vista del congresso e la sua ricandidatura alla segreteria. Un discorso duro per mettere con le spalle al muro la sinistra dem. Altro, dicono i suoi colonnelli, che fare marcia indietro o impelagarsi nelle beghe romane dalle quali vuole tenersi lontano. Eppure non smette di alimentare la suspence sulle sue vere intenzione. Mollare la politica e prendersi un periodo di riposo? Racconta di ricevere offerte di lavoro milionarie anche da parte di aziende private. E a 41 anni la tentazione di ricominciare un’altra vita, da un’altra parte è forte. C’è una cosa che non riesce a mandare giù: non gli viene riconosciuto da diversi osservatori il merito di avere fatto del bene al nostro Paese.


Poletti: “Votare in primavera per evitare il referendum” 

Il ministro e la paura dei quesiti della Cgil per abrogare il Jobs Act “Elezioni anticipate scenario probabile”. Poi corregge: “Uno scivolone” 
Alessandro Di Matteo  Busiarda
Elezioni anticipate anche per evitare il referendum sul Jobs Act: da un paio di giorni se ne parla talmente con insistenza, nel Pd, che il ministro del Lavoro Giuliano Poletti non ha avuto esitazioni quando i giornalisti gli hanno chiesto di commentare il rischio di un bis della sconfitta dello scorso 4 dicembre: «Se si vota prima del referendum il problema non si pone. Ed è questo lo scenario più probabile». 
Parole che hanno scatenato un putiferio, anche dentro al Pd, e che Poletti ha provato a minimizzare: «Non ho invocato il voto anticipato, ho solo fatto l’ovvia constatazione: qualora si andasse ad elezioni politiche anticipate, la legge prevede un rinvio dei referendum». In consiglio dei ministri, poi, Poletti si è giustificato parlando di «scivolata personale» e assicurando che non si trattava di una uscita concordata. 
Il fatto è che la «scivolata personale» riprende, appunto, un ragionamento che già da martedì scorso ricorreva nelle conversazioni di tutti i dirigenti Pd nei corridoi del Parlamento: «Sui voucher possiamo anche intervenire con una legge prima del referendum - ragionava un autorevole esponente - ma la parte sull’articolo 18 non si può correggere. A quel punto, meglio andare a votare prima per le politiche, non possiamo prendere un’altra batosta prima delle elezioni. Perché con l’aria che tira finisce male pure questo referendum». Un’ipotesi concreta, dunque.
L’ultima parola la dirà la Corte costituzionale l’11 gennaio, sarà allora che si saprà se il referendum promosso dalla Cgil sarà ammissibile e, quindi, se si andrà al voto in primavera. Ma il via libera sembra scontato e per questo nasce la contromossa: elezioni politiche ad aprile, massimo a giugno, non solo per non lasciare a Lega e M5s il comodo ruolo di opposizione al governo Gentiloni, ma anche per far slittare il referendum di un anno ed evitare che prima delle politiche gli italiani siano chiamati a dire sì o no a un’altra delle riforme simbolo dell’era Renzi.
Per questo la reazione a Poletti è stata veemente. A cominciare dalla minoranza bersaniana del Pd: «Più che invocare le urne - ha replicato duro Roberto Speranza, probabile sfidante di Renzi al congresso - per evitare il referendum, è necessario intervenire subito sul Jobs act, a partire dai voucher». Ma è durissimo anche Enrico Rossi, altro candidato alla segreteria del partito ma molto più dialogante con Renzi: «Dire che si vogliono fare le elezioni prima per evitare il referendum sul Jobs Act voluto dalla Cgil è una provocazione che non deve essere neppure pensata, un suicidio per il Pd».
Ma negativi sono anche i commenti che arrivano dagli altri partiti. Per Stefano Fassina, di Sinistra italiana, l’idea di elezioni per rinviare il referendum è «l’ulteriore conferma della distanza dal Paese reale del Governo Renzi-bis come della sua precedente versione». E secondo Arturo Scotto, capogruppo del partito alla Camera, «dalle parti del Pd hanno paura del giudizio e del voto di milioni di cittadini sulle loro cattive riforme». 
E i toni non cambiano andando a destra del Pd. Gaetano Quagliariello accusa Poletti di fare «strage del senso delle istituzioni», mentre per Debora Bergamini di Forza Italia le parole del ministro «sono un chiaro segnale di paura dopo la sonora sconfitta del 4 dicembre». Infine, Roberto Fico del Movimento 5 stelle la mette così: «Se andiamo a votare subito, sarà il più grande referendum. E, se vinciamo alle elezioni noi, il Jobs Act sarà soltanto un ricordo».
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Camusso: “Provano a scappare ma prima o poi si andrà alle urne” 

La leader della Cgil: l’esecutivo si mette nei guai da solo 
Roberto Giovannini  Busiarda
I tre referendum della Cgil, su cui molti hanno ironizzato, sono diventati un fattore chiave della politica italiana. Susanna Camusso, segretario generale del sindacato di Corso d’Italia, se la ride di cuore: «Certamente non lo avevamo pianificato - spiega, uscendo da un dibattito sul futuro del sindacato all’università La Sapienza - pensiamo che si siano clamorosamente fatti male da soli, e certo non potevamo prevederlo. Abbiamo sempre pensato, e i fatti ci danno ragione, che il tema della qualità del lavoro sarebbe tornato centrale e che per parlare di qualità del lavoro bisogna parlare dei diritti dei lavoratori. Abbiamo presentato una proposta di legge con quattro milioni di firme e tre quesiti referendari esattamente per questo. Così come pensiamo che non si possa “scappare” facendo il giochino delle date».
A quanto pare, nel Pd (ma non solo) si sta cercando il modo di far saltare il referendum: il sistema più ovvio è andare al voto anticipato. Una eventualità che non sconvolge più di tanto il leader della Cgil. «Se l’11 gennaio la Corte Costituzionale autorizza i tre quesiti - replica Camusso - su una cosa sono tranquilla: prima o poi bisognerà votarli». Anche se, chiarisce, «forse bisogna confrontarsi con i problemi, invece di pensare di rinviarli». Tuttavia, ricordiamo alla sindacalista, tutti i partiti - nessuno escluso - hanno affermato che la formazione del governo Gentiloni aveva come scopo pressoché unico aggiustare la legge elettorale per poi andare subito alle elezioni. «L’avranno detto tutti; ma l’unico che certamente non l'ha detto è il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella», è la risposta. 
Apparentemente, Renzi e i suoi sembrano essersi convinti che, se si votasse in primavera, i referendum sul lavoro e i diritti della Cgil conseguirebbero il quorum e si chiuderebbero con una vittoria dei «sì» che farebbe risorgere l’articolo 18. «Sicuramente una politica che a lungo ha scommesso sul non voto ai referendum e sulla diminuzione dei votanti ha avuto una brutta sorpresa il 4 dicembre», afferma la sindacalista, che comunque sa bene che la partita del quorum è tutt’altro che scontata, e che servirà una difficile campagna di informazione. «Ma il punto centrale non è questo - prosegue - bisognerebbe discutere della sostanza. Si vuole oppure no restituire ai lavoratori italiani alcuni significativi diritti?». In altre parole, dice Susanna Camusso, «siamo assolutamente coscienti che serva un riordino compiuto di tutta la materia del diritto del lavoro, ma quello che non si può fare sono le furberie». Ovvero, si può evitare i referendum sul lavoro - come da sempre ha interpretato la Corte Costituzionale - «solo con una modifica legislativa che interpreti lo spirito del quesito referendario».
Infine, qualche battuta sul nuovo governo Gentiloni. Il neo presidente del Consiglio fa bene, dice Camusso, a parlare finalmente di crisi, Sud e disagio sociale. Ma «se poi la soluzione è accelerare i decreti attuativi del Jobs Act, non ci siamo proprio». E c’è un messaggio anche per Matteo Renzi, che a suo tempo aveva detto chiaro e tondo di non essere granché interessato al punto di vista della Cgil e del sindacato. «Adesso - dice Camusso accendendo l’ennesima sigaretta - è lui che deve farsene una ragione».
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Pressing Pd per abolire i voucher “O sarà un altro tutti contro Renzi” 
TOMMASO CIRIACO Rep
ROMA. L’ingranaggio infernale è già oliato. E ricorda da vicino quello del 4 dicembre. «Dobbiamo fare i conti con il referendum sul Jobs act - avverte Roberto Speranza - Altrimenti finiremo per spaccare il centrosinistra e dividere ancora il Pd». Tre quesiti per cancellare la riforma del lavoro targata Renzi, un’unica certezza: se non si torna alle politiche entro giugno - posticipando l’ennesima resa dei conti tra i democratici - il Pd rischia di bissare il disastro della riforma Boschi. Anche per questo, nel governo si ragiona sull’ipotesi di elezioni il 25 giugno. Una data capace di sterilizzare il passaggio referendario ed evitare che la domenica elettorale cada troppo a ridosso del G7 di maggio.
I segnali sono allarmanti. In 48 ore il fronte del No - che stavolta in realtà sceglierà il Sì, perché si tratta di abrogare il Jobs act - si è già saldato. Va dalla Fiom di Maurizio Landini a Forza Italia, passando per la sinistra dem. «Noi voteremo contro il Jobs act - giura il capogruppo di FI Renato Brunetta - Assieme alla Cgil? Certo, perché Renzi è un politico eversivo e noi stiamo con la democrazia. Stavolta però non vinceremo 60 a 40. Finirà 70 a 30 per noi». Un incubo, appunto.
Dal fortino di Pontassieve, Renzi ha già messo la testa sul problema. «La rogna», lo definisce. Inutile sottolineare che l’ex premier non ha gradito per nulla la sortita di Giuliano Poletti, capace in un attimo di regalare la ribalta a un referendum che Palazzo Chigi aveva sempre cercato di ignorare.
Chi ha in mano la “rogna” è però Paolo Gentiloni. Il neo presidente del Consiglio non ha ancora stabilito la strategia, preso com’è dal tour de force di queste ore. Ma sa bene che il suo predecessore considera la riforma un fiore all’occhiello dei mille giorni di governo, ed è pronto a rivendicarla già domenica durante l’assemblea del Pd. Certo, l’esecutivo potrebbe superare lo scoglio dei voucher ritoccando la norma per decreto. Resterebbero però in piedi gli altri due quesiti. E in particolare quello sull’articolo 18. La strada è stretta: tendere la mano al mondo del lavoro almeno sui voucher senza risolvere del tutto il problema - oppure tirare dritto, puntando tutto sulle elezioni? «Io difendo il testo attuale - fa già sapere Maurizio Sacconi, che a Palazzo Madama guida l’ala più ostile alla Cgil - Abbiamo introdotto la tracciabilità dei voucher, quindi non si toccano».
Eppure, il pressing sul governo è già partito. Uno per tutti, si è già fatto sentire Cesare Damiano, che pure con Maurizio Martina sostiene la segreteria di Renzi. «Con i referendum proposti dalla Cgil bisognerà misurarsi, non si può mettere la testa sotto la sabbia». Per il presidente della commissione Lavoro è possibile rimettere mano ai voucher. «Limitandone l’utilizzo - spiega - ai lavori occasionali ». Una sua proposta di legge è già stata depositata a Montecitorio, ma il tempo stringe e non sarà facile spuntarla. «Dobbiamo intervenire - insiste Speranza, a nome della minoranza - Solo così possiamo ricompattare la nostra gente. Quando faccio volantinaggio davanti alla Fiat di Melfi, trovo una valanga di tensione contro il Pd».
Ecco la linea di frattura, la stessa della riforma Boschi. Con l’aggravante che stavolta la Cgil è schierata senza mezze misure contro il governo. Non basta insomma una mano di fresco sul Jobs act per aggirare l’ostacolo: «Qui non c’è da aggiustare nulla sostiene Landini - I voucher vanno tolti. E si deve tornare allo Statuto dei lavoratori del 1970, allargandone le tutele». Molto presto, tra l’altro, il leader Fiom entrerà nella segreteria della Confederazione. E alzerà ancora di più il tiro. «E d’altra parte non è un caso che in 100 anni di storia la Cgil abbia raccolto soltanto una volta le firme per un referendum abrogativo: contro questa riforma».
A sinistra sembra l’ultima battaglia, insomma. Forse quella decisiva anche per la gestione del Pd, visto che un’altra sconfitta forse non garantirebbe a Renzi una rivincita. «Sarebbe morto assicura Brunetta - E siccome non può tollerarlo, affosserà il povero Gentiloni per avvicinare le urne». Sempre al voto anticipato si torna. E allo scenario del 25 giugno 2017. Una data che permetterebbe una ragionevole distanza dal G7 di Taormina del 26-27 maggio. Con una controindicazione: di norma non si vota in estate. Nell’esecutivo, però, hanno già lavorato d’archivio: le politiche del 1983 si svolsero il 26 giugno. Per la cronaca, Bettino Craxi conquistò Palazzo Chigi.
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