giovedì 15 dicembre 2016

I padroni gongolano perché la lotta di classe dall'alto è perfettamente riuscita













La disuguaglianza non aspetta la politica - Corriere.it

Con la crisi non basta più il lavoro di uno solo in famigliaIl modello del padre che mantiene moglie e figli non è sostenibile Dal 2005 al 2015 triplicata l’incidenza di povertà assoluta tra gli operai 


Linda Laura Sabbadini  Busiarda 12 12 2016
La crisi sociale è più lunga della crisi economica. Uscire dalla recessione non vuol dire che la crisi sia finita. Quanta disoccupazione è stata riassorbita? Quanto dell’aumento della povertà assoluta, dei più poveri tra i poveri, si è recuperata? Partiamo dalla disoccupazione. Dopo essere cresciuta ininterrottamente dal 2007, da circa 1 milione e mezzo, la disoccupazione ha raggiunto il picco nel quarto trimestre del 2014 di 3 milioni 267 mila persone, per poi diminuire. Siamo, comunque, a 2 milioni 987 mila nel terzo trimestre del 2016. La disoccupazione di lunga durata, da 12 mesi in su, pur essendo diminuita, coinvolge 1 milione 600 mila persone, più del 50% dei disoccupati. Elemento, questo, che va considerato con attenzione, perché più a lungo si protrae lo stato di disoccupazione, più è difficile uscirne e rimettersi in gioco sul mercato del lavoro.
I disoccupati sono molti tra i giovani, ma non dobbiamo dimenticarci di quelli adulti o ultracinquantenni, che , seppure di meno, hanno maggiori difficoltà, a causa dell’età, a rientrare nel mercato del lavoro e che spesso vivono in famiglie in cui solo loro percepivano un reddito. Certo, gli occupati sono cresciuti di 570 mila unità dall’inizio del 2014, ma ancora non abbastanza per riassorbire una parte importante della disoccupazione, anche perché una parte della crescita è imputabile alla maggiore permanenza degli ultracinquantenni nel mondo del lavoro. E comunque la crescita dell’occupazione non è stata sufficiente in questi anni a far diminuire la povertà assoluta , o perché trattasi comunque di occupati a basso reddito in famiglie con bisogni più alti, o perché una parte dell’occupazione è cresciuta per persone che vivono in famiglie non povere, aumentando così la polarizzazione. 
Lento recupero
Se il peggioramento delle condizioni di vita è stato intenso e veloce, il recupero comunque, è ancora lento rispetto alle necessità. D’altro canto non possiamo meravigliarci visto che già da prima della crisi il nostro Paese non aveva conosciuto ritmi di crescita rilevanti. La povertà assoluta, dopo essere raddoppiata non è ancora diminuita. Sono 1 milione 582 mila le famiglie in povertà assoluta e 4 milioni 598 mila le persone. La mancanza di lavoro continua a connotare la povertà, le famiglie con a capo un disoccupato sono quelle più in povertà assoluta delle altre e sono aumentate nel tempo. Tra queste erano povere assolute il 12,8% nel 2005, salite al 14,5%nel 2009 fino a raggiungere il 19,8% nel 2015. Pur essendo un valore alto è importante sottolineare la sua diminuzione rispetto al 2013. Ancora più che in passato la crisi ha evidenziato quanto il lavoro di una persona sola in famiglia non basti più a proteggere dalla povertà. Chiara Saraceno ci scrisse un libro, «Il lavoro non basta», era il titolo, ed è stato così.
Il modello breadwinner
Ebbene quello che voglio sottolineare è che il modello del maschio «breadwinner», che lavora e mantiene la sua famiglia con figli, con la donna che si occupa della casa e della cura tanto decantato come modello negli anni ’50 e ancora ampiamente diffuso nel Sud, e al Nord tra le famiglie di immigrati marocchini e albanesi, non è più sostenibile socialmente, ha aumentato la vulnerabilità di queste famiglie, soprattutto quelle operaie, ma non solo.
Secondo la Banca d’Italia le famiglie operaie nel 45,9% dei casi hanno solo un percettore di reddito in famiglia e quasi la metà non ha una abitazione in proprietà. Il lavoro femminile è fondamentale come elemento di protezione dalla povertà, ma continua ad essere ancora su percentuali troppo basse. Sono in particolare le famiglie operaie a pagare il prezzo più alto. La povertà assoluta per loro aveva cominciato a crescere già prima della crisi. E poi è esplosa passando dal 4,4% del 2005 al 6,9% del 2009 fino a raggiungere l’11,8% nel 2013 e rimanendo tale nel 2015.
Operai più poveri
Dal 2005 al 2015 l’incidenza di povertà assoluta tra le famiglie operaie è triplicata. D’altro canto non possiamo meravigliarci, visto che la crisi ha colpito in primo luogo l’industria e le costruzioni . Anche i lavoratori in proprio hanno subito una crescita della povertà’ assoluta, ma questa li ha raggiunti più tardi degli operai e si è subito ridotta attestandosi al 5,5%. Inoltre il collettivo degli indipendenti si è ridimensionato nel tempo ed ha conosciuto un processo di ricomposizione interna, perché coloro che sono stati fortemente colpiti dalla crisi, soprattutto nel caso di piccole imprese si sono trasformati in disoccupati o sono usciti dal mercato del lavoro e quindi, non fanno più parte di famiglie di lavoratori indipendenti. Il disagio raggiunge gli operai con più figli, ma non risparmia anche quelli senza figli e che vivono soli a causa dei redditi bassi. Insomma, la crisi ha provocato un incremento sia delle famiglie povere assolute con a capo un disoccupato, sia delle famiglie di lavoratori poveri specie operai,siano essi lavoratori a basso salario o poveri perché con reddito non sufficiente ai bisogni familiari.Avere un lavoro non permette necessariamente di proteggersi dalla povertà o di uscirne. Non è cosa solo di oggi, ma bisogna ricordarselo per le politiche, soprattutto in questa fase.Servono politiche di vario tipo per affrontare questa emergenza, politiche attive del lavoro, di conciliazione dei tempi di vita per sviluppare occupazione femminile, di sostegno al costo dei figli e strumenti specifici di lotta alla povertà. Una serie di politiche miranti alla redistribuzione del reddito. Non possiamo rassegnarci a stabilizzare livelli di povertà assoluta così alti. La prima sfida di qualsiasi governo dovrà essere ridurre consistentemente le disuguaglianze, ed evitare che la persistenza della povertà cresca e si consolidi.
Continua
BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

La solitudine dei trentenni  Delusi e arrabbiati ecco perché i giovani hanno votato NoIl 70% degli elettori tra 25 e 34 anni, secondo un sondaggio Demos-Coop, ha dato un segnale di rifiuto a Renzi Dal governo non ha ottenuto la svolta che era stata promessaILVO DIAMANTI Rep
IL POST-REFERENDUM procede rapido. Dopo le dimissioni di Matteo Renzi, il premier incaricato, Paolo Gentiloni, ha già iniziato le consultazioni. E presto presenterà il programma e la compagine del nuovo esecutivo. Tuttavia, conviene valutare bene il voto referendario, prima di riprendere a governare.
E A FARE opposizione. Insomma, a “far politica”. Perché il risultato ha, sicuramente, “punito” Renzi, che, per primo, aveva “personalizzato” questo voto. Ma è difficile individuare il vincitore. Meglio “un” vincitore. Visto che i partiti del No sono diversi. Anzi, diversissimi… per storia, progetto, identità. Per questo, è impossibile, sulla base di questo voto, individuare una nuova e diversa maggioranza “elettorale”. Conviene, invece, ragionare ancora – e di più - sul significato di questo voto. Da dove origina, che destinazione e che bersagli abbia. Oltre a Renzi. L’analisi del risultato ha già offerto alcune indicazioni chiare ed evidenti. Riguardo al “retroterra” – letteralmente – del No. Le radici territoriali del rifiuto, infatti, affondano anzitutto e soprattutto nel Mezzogiorno. Nel Sud il No ha, infatti, superato il 70%, nelle Isole. E vi si è avvicinato altrove. In Campania e in Calabria, in particolare. Più del sentimento contrario al Pd e anti-renziano, in alcuni casi (come in Campania) difficile da sostenere, hanno pesato altre ragioni di ri-sentimento. Collegate al malessere sociale che pervade quelle aree. Sul piano economico e occupazionale. Si tratta di un’indicazione utile a valutare un’altra “frattura”, che ha caratterizzato il voto referendario in modo evidente. Quella generazionale. Com’è già stato osservato, il No è stato espresso, in misura largamente superiore alla media, soprattutto dai giovani.
L’indagine dell’Osservatorio di Demos-Coop, condotta giusto alla vigilia della consultazione, lo conferma. Ma fornisce alcune ulteriori precisazioni. Importanti. In particolare, sottolinea come il dissenso verso la riforma e verso il Pd di Renzi sia meno ampio presso i giovanissimi, che hanno fra 18 e 24 anni. Mentre ha raggiunto il livello più elevato (7 su 10 No) tra i “fratelli maggiori”, fra 25 e 34 anni. I “giovani adulti”, come vengono spesso definiti. Per sottolineare la “difficoltà” di affrancarsi dai vincoli della giovinezza. In particolare, dalla dipendenza dalla famiglia. Sotto il profilo economico, ma anche “domestico”. Due su tre, fra loro, vivono (meglio: risiedono) ancora con i genitori. Il doppio rispetto ai coetanei francesi e tedeschi. Ricordo ancora quando, dieci anni fa, a Parigi, chiesi ai miei studenti i motivi della protesta giovanile – allora dilagante - contro la riforma sul Contrat première embauche (primo impiego), che agevolava alle aziende la possibilità di licenziare i giovani senza giustificazione, nei primi due anni. Gli studenti mi risposero, senza imbarazzo: «Non siamo italiani come lei. Quando andiamo a lavorare, poi non rientriamo. A casa e in famiglia. Andiamo a vivere – e ci manteniamo - da soli».
In realtà, anche in Italia i giovani vorrebbero diventare autonomi. Dalla famiglia. Come i coetanei di altri Paesi europei. Ma non se lo possono permettere. Perché la legislazione in materia non li aiuta. Mentre i tassi di disoccupazione giovanile non hanno pari, in Europa. Così, quando finiscono gli studi, spesso defluiscono nel mondo dei Neet. Quelli che non studiano e non lavorano. Non perché non vogliano, ma perché non trovano occupazione. Si muovono, invece, nella selva oscura dei lavori intermittenti e precari. Dove riescono a sopravvivere grazie all’appiglio familiare. Al quale ricorrono in caso di emergenza. Cioè, spesso. Così si spiega la ragione per cui fra i giovani- adulti si osservino i picchi di incertezza nel futuro (62%), ma anche la convinzione generalizzata della necessità di “emigrare” all’estero, per fare carriera (73%). Mentre la maggioranza di essi (63%) è consapevole che difficilmente riuscirà a raggiungere – non dico a superare - la posizione sociale dei genitori. D’altronde, solo il 21% di loro pensa che esistano opportunità e possibilità adeguate.
Così, nonostante l’età, circa il 40% dei “giovani adulti” ammette di sentirsi spesso “solo”. Molto più, rispetto ai genitori e ai nonni. Ma anche rispetto ai fratelli minori, che hanno meno di 25 anni. Sono “le pene del giovane adulto”. Che, perlopiù, ha concluso gli studi, oppure li prosegue, per non sentirsi “disoccupato”. Magari intermittente o precario. Come, inevitabilmente, avverrà. I giovani nati negli anni Ottanta. Sono divenuti “invisibili”. Mimetici. In continua fuga. Alla ricerca di un lavoro. Un futuro.
Così, non è difficile comprendere le ragioni del No al giovane Renzi. Proprio perché “giovane”. Perché aveva “promesso” di rottamare i vecchi e di dare più spazio ai più giovani. Ma i “giovani adulti” vivono sospesi. Non più giovani e non ancora adulti. Confusi. Perché nella nostra società, tutti, o quasi, si dicono giovani. E all’improvviso diventano vecchi. Senza mai conquistare l’età adulta. La maturità.
Così “giovani adulti” si sentono vicini al M5s. E hanno votato No perché non hanno speranza. Non vedono il futuro. Ma senza speranza e senza futuro anche la famiglia diventa una prigione. Anche l’Italia. E a loro non resta che la speranza di “fuggire” dal Paese. E dalla solitudine che incombe. Tanto più quando vivono in mezzo ad altri giovani. In-sofferenti come loro. Ma senza dare loro risposta neppure l’Italia può avere un futuro. È destinata a restare un Paese “giovane adulto”.
©RIPRODUZIONE RISERVATA

Il divario che uccide il Paese 8 italiani su 10 si sentono più poveri Calo dei redditi, fuga delle aziende e imbarbarimento culturale: così dieci anni di crisi hanno spento le speranze dei cittadini Nicola Piepoli  Busiarda 14 12 2016
Se si chiede alle famiglie italiane qual è stata la forza negativa che maggiormente ha stravolto le loro esistenze in questi dieci anni di crisi non ci sono dubbi: otto persone su dieci scelgono il crollo del loro reddito. Non c’è confronto rispetto alle mancate vacanze all’estero (13%), una minore vita sociale (12%), una più risicata attività sportiva (11%): il calo degli introiti ha divorato tutto, compresi i sogni.
È quanto emerge dall’ultimo sondaggio che noi dell’istituto abbiamo effettuato in esclusiva per La Stampa sulla percezione che gli italiani hanno del loro passato prossimo e del loro futuro. Un sondaggio che affronta due aspetti: passato e prospettive per le famiglie, passato e prospettive per il Paese. E spesso le visioni sono sovrapponibili.
Prevale il pessimismo
Partiamo per esempio dalla percezione che si ha del proprio Paese. Come per le famiglie, per 7 persone su 10 l’Italia è diventata più povera. Gli aspetti positivi di questi 10 anni non riescono a competere con quelli negativi, con due uniche eccezioni: la maggior attenzione all’ecologia e l’Alta velocità ferroviaria. Per il resto il panorama è abbastanza critico, ovunque nelle risposte s’incontra solo un immiserimento generale che si è materializzato in un reddito più basso per aziende e famiglie e in una vera e propria fuga delle aziende italiane verso altri Paesi. La vita sociale è diminuita e persino la vittoria negli sport è stata cancellata dalla perdita del sogno delle Olimpiadi in Italia.
L’Italia del futuro
Di fronte a questo quadro non certo ottimistico, cosa dovrebbe fare il nostro Paese per risorgere? Dalle risposte date emerge che c’è una fondamentale coincidenza tra ciò che lo Stato dovrebbe fare sul lungo periodo e ciò che il presente Governo potrebbe fare sul breve. L’esigenza di una maggior attenzione nei confronti dei cittadini e del welfare emerge prepotentemente. Nelle prime due posizioni (il 56% delle risposte) troviamo infatti due voci: venire incontro alle esigenze dei cittadini e migliorare l’efficienza di scuole e ospedali. Al terzo punto troviamo «curare di più la meritocrazia». Poi abbiamo più investimenti, un’amministrazione pubblica a misura dei bisogni, un miglioramento della vivibilità e dei trasporti, più cultura, città più vivibili e un miglioramento dei trasporti.
Il divario tra le famiglie
Se scendiamo al livello del nucleo familiare, il quadro si fa un po’ più roseo. La differenza tra coloro che pensano di avere una famiglia più ricca rispetto a 10 anni fa e coloro che pensano di averla più povera è meno evidente, ma resta alta: quasi il 40%. Ed è proprio qui che si annida quella disuguaglianza che mette in pericolo la coesione sociale.
Se esaminiamo le forze positive e negative sviluppatesi nel corso degli ultimi 10 anni, le prime risultano più variegate (vengono messe in rilievo il reddito più alto, la maggior cultura, la cura del proprio corpo e della propria alimentazione, una maggior partecipazione alla vita familiare e alla vita sociale), ma come detto tra quelle negative spicca inesorabilmente il crollo del reddito.
Sulla base di queste indicazioni, come si vedono le famiglie italiane tra dieci anni? Il pessimismo sul passato gioca un peso determinante nelle visioni sul futuro. Solo una persona su 5 intravvede una speranza di miglioramento della sua famiglia. Percentuale che sale leggermente se si pensa al sistema Paese: uno su quattro lo vede più ricco.
BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI 


Sempre peggio al Sud, la crisi ha cancellato il lavoro 
Nel 2015 al Centro-Nord 300 mila occupati in più rispetto al 1977 Il Mezzogiorno ne ha persi 600 mila. Bloccata l’occupazione femminile 

Linda Laura Sabbadini  Busiarda 17 12 2016
La crisi è stata trasversale. La perdita del lavoro, la difficoltà a trovarlo, la caduta in povertà hanno raggiunto il Nord come il Sud, le aree metropolitane come i comuni più piccoli. Al Nord sono state colpite con forza le famiglie operaie e di artigiani, di piccoli imprenditori e quelle con a capo disoccupati, e non sono state colpite poco neanche quelle di impiegati. Se, insieme alla famiglia, la cassa integrazione ha agito come ammortizzatore sociale, non tutti ne hanno potuto usufruire e a volte non è bastato.
Divario che cresce
Oltre che trasversale, la crisi è stata anche selettiva, colpendo più il Sud del Nord. La forbice si è ampliata e il peggioramento è stato più forte proprio per chi stava peggio. La grave situazione del Sud si protrae da molti anni e ora ha conosciuto una discontinuità di segno negativo. Due fenomeni hanno agito in combinazione, producendo l’ulteriore aggravamento del Sud durante la crisi: la mancata crescita dell’occupazione femminile e il lungo declino di quella maschile. All’indomani della crisi degli Anni 90, l’occupazione femminile comincia a crescere dal 1995, proseguendo fino al 2008. Si tratta di un incremento di 1 milione 713 mila lavoratrici, non poche per quegli anni, che ha riguardato tutti i tipi di lavoro, ma soprattutto nel Centro-Nord. Il Sud ha raccolto le briciole della crescita e non è riuscito a sfruttare questa nuova opportunità: solo 300 mila occupate in più. E se l’occupazione femminile non è decollata, rimanendo intorno a valori del 30%, quella maschile è peggiorata. Nel 2015, a fronte di un Centro-Nord con oltre 300 mila occupati in più rispetto al 1977, il Sud si presenta con 600 mila occupati in meno. A ciò si aggiunga il forte depauperamento di capitale umano determinato dalla fuoriuscita di numerosi giovani e adulti trasferitisi nel Centro-Nord. Una migrazione di cui poco si è parlato, che ha riguardato, secondo l’Istat, 1 milione 600 mila persone in quindici anni, per il 60% dai 20 a 45 anni di età. Una migrazione che ha inciso anche sulla fecondità, che ha raggiunto nel Sud i livelli più bassi del Paese perché meno giovani significa meno figli, e meno lavoro si traduce in minori possibilità di mettere su famiglia. 
Rimozione collettiva
Dobbiamo dircelo, c’è stato un processo di rimozione collettiva che ha riguardato il Sud. Il fatto che la crisi abbia toccato, quasi da subito, le zone più ricche del Paese ha catalizzato l’attenzione, mentre le conseguenze nel Sud sono state in genere sottovalutate. E sono più profonde di quanto non si pensi: la povertà assoluta ha raggiunto il 10%, contro il 6,7% del Nord. Le famiglie operaie sono colpite in egual misura, ma hanno caratteristiche diverse: al Sud sono famiglie fondamentalmente di italiani, al Nord anche straniere. Gli stranieri del Nord, infatti, hanno subìto prepotentemente la grave situazione economica, in particolare gli uomini, inseriti nell’industria e nelle costruzioni, cuore della crisi. Le donne meno, perché occupate in maggioranza nei servizi alle famiglie, l’unico settore che durante la crisi ha registrato una crescita di occupazione. Le famiglie, infatti, prima di tagliare sull’assistenza agli anziani non autosufficienti, diventato ormai bisogno incomprimibile, hanno preferito ridurre altri consumi.
Povertà assoluta
La povertà assoluta nel Sud ha proprie specificità. Oltre che tra le famiglie operaie e con a capo disoccupati, è più diffusa tra le famiglie di anziani, tra quelle con bambini, di giovani, tra le madri sole. A differenza del resto del Paese, è cresciuta anche tra gli anziani. Non dobbiamo dimenticarci che il reddito medio disponibile pro-capite delle famiglie meridionali è il 63% di quello delle famiglie residenti nel Nord, con Campania, Calabria e Sicilia in fondo alla classifica e Bolzano, Lombardia e Emilia-Romagna in vetta. Se il Sud è sempre più lontano dal Nord, al suo interno è anche più diseguale: il reddito percepito dal 20% della popolazione con redditi più alti è di 6,5 volte più elevato di quello del 20% di famiglie con i più bassi livelli di reddito; nel Nord il valore scende a 4,7, alto ma inferiore alla media italiana (5,8) e a quella europea (5,2). In altre parole, la distanza tra ricchi e poveri è maggiore al Sud che nel resto d’Italia o d’Europa. Anche le differenze di genere sono maggiori, 26 punti tra i tassi di occupazione di uomini e donne, contro i 17 del Centro Nord. La sfida, quindi, è grande. Si tratta non solo di riavvicinare il Sud al Nord, riducendo le distanze, attraverso l’aumento dell’occupazione in entrambe le zone del Paese, ma anche puntare alla riduzione delle disuguaglianze interne al Sud. 
Da molti anni si dice, stancamente, che il Sud deve essere visto come una risorsa del Paese. Mai come oggi si deve affermare che se il Sud non sarà messo al centro delle politiche economiche e sociali anche come un’opportunità per gli imprenditori di tutto il Paese e d’Europa, se non si metteranno le mani in questo storico vulnus del nostro sviluppo non usciremo bene da questa crisi. Le conseguenze, anche per le nostre istituzioni democratiche, si faranno sentire.
BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

Cresce il divario poveri-ricchi Pessimista il 40% degli italiani Peggiora la percezione della situazione politica e di quella economica Per il 2017 poche aspettative tra pensionati e ceti medi: siamo marginali Daniele Marini*  Busiarda 19 12 2016
L’approssimarsi della fine dell’anno, e l’aprirsi del nuovo, induce a fare bilanci, a soppesare quanto è avvenuto e prefigurare ciò che si attende. Veniamo da diversi anni di difficoltà economica e da instabilità politica, non ultimo quello generato dall’esito referendario. Dal 2008 abbiamo avuto cinque governi (Berlusconi, Monti, Letta, Renzi e ora Gentiloni), in media più di un esecutivo a biennio. È evidente che con un simile incedere qualsiasi attività politica e azione riformatrice subisca uno «stop and go» continuo. Il tentativo di offrire un disegno coerente al Paese e, quindi, una direzione da perseguire diventa come la tela di Penelope: ciò che si tesse di giorno, è dipanato il giorno successivo.
Così, l’emergenza è diventata la nostra normalità. Viviamo una condizione di continua discontinuità, alimentando fra gli operatori economici e nella popolazione un orientamento di adattamento e prudenziale. Perché nell’incertezza è meglio muoversi con cautela. Esattamente il contrario di ciò che servirebbe in un’epoca come l’attuale dove la velocità e un disegno strategico costituiscono i fattori determinanti per una ripresa di competitività del sistema-paese. Ciò nonostante, seppure con dati economici altalenanti, il Pil è rientrato leggermente in campo positivo e, nonostante tutto, l’azione del governo Renzi qualche esito positivo l’ha portato. Tuttavia, la svolta, la ripresa più volte evocata non arriva. Continuiamo a procedere per piccoli passi, mentre altre zone del globo corrono a velocità elevate. E in questa doppia velocità, nella sindrome dello «zero-virgola», maturano condizioni sociali ed economiche progressivamente divergenti: aumentano i divari fra chi è in grado di affrontare le difficoltà e chi, invece, vede perdere progressivamente le proprie risorse, sospinto ai margini. 
È questo il quadro generale che emerge dall’ultima rilevazione sugli italiani di Community Media Research, in collaborazione con Intesa Sanpaolo, per La Stampa. Facendo un bilancio su come sono andate le cose nel 2016, mediamente il 44,6% non ha percepito cambiamenti sostanziali. Per contro, una quota analoga (42,6%) denuncia un peggioramento, mentre solo un decimo (12,8%) ha vissuto un miglioramento. La media nasconde alcune diversificazioni. Gli aspetti che non hanno avuto scostamenti particolari sono la sicurezza personale (56,8%), il reddito percepito (53,7%) e la lotta all’evasione fiscale (51,2%). Le dimensioni che più di altre, invece, sono avvertite peggiorate rinviano alla dimensione del mondo politico (politica italiana: 57,7%; corruzione politica: 47,9%) e della situazione economica (economia italiana: 47,9%; pressione fiscale: 43,4%). L’unico fattore che ottiene una valutazione positiva è la credibilità internazionale dell’Italia, ritenuta migliorata dal 32,8% degli italiani. In sintesi, la percezione della popolazione è che nel 2016 l’Italia abbia accresciuto la sua autorevolezza nelle relazioni con partner esteri, sia rimasta perlopiù stabile nel reddito individuale e nella sicurezza, ma sia peggiorata la situazione economica e soprattutto politica. 
Cosa ci riserverà il 2017, come andranno le cose il prossimo anno? In generale, emerge una visione pragmatica (o rassegnata?). Quanti attendono un miglioramento non si discostano dalla valutazione sul 2016. Poco più di un decimo (13,6%) auspica vi sarà un cambiamento positivo, in particolare per quello che riguarda l’economia del nostro paese (21,7%) e migliorerà ulteriormente la nostra credibilità sul piano internazionale (20,7%). Aumentano, invece, quanti ritengono che le condizioni generali rimarranno tutto sommato stabili (50,6%), soprattutto per ciò che riguarda la sicurezza personale (65,6%), il proprio reddito (58,9%) e la corruzione politica (55,1%). Un terzo degli italiani, però, prefigura un ulteriore peggioramento (35,8%), specialmente sul versante della politica italiana (51,0%) e della nostra economia (38,9%). Si potrebbe sostenere che per il futuro prossimo la maggior parte degli italiani intravede (e auspica) scenari «non peggiorativi», considerato che le condizioni generali (politiche ed economiche) sono percepite ancora fortemente critiche. 
Unendo le opinioni espresse sul bilancio del 2016 con quelle delle previsioni per il 2017 è possibile individuare la mobilità di opinione degli intervistati fra un anno e l’altro. In questo modo otteniamo tre gruppi. Il primo, e più rilevante quantitativamente, è degli italiani che non rilevano discontinuità fra i due anni considerati. Il 52,7% non muta la propria valutazione e sottolinea come il nostro paese resti ancorato alla sindrome dello «zero-virgola», alla «stabilità»: il sentore è di un’Italia vischiosa. Ed è interessante osservare come sia soprattutto il ceto medio-alto (68,4%), composto da liberi professionisti e dirigenti, a rimarcare maggiormente quest’orientamento. Il secondo gruppo intravede una recrudescenza ulteriore delle condizioni, un «degradamento»: si tratta di una quota cospicua (40,0%) annidata soprattutto nei ceti medio-bassi (44,2%, lavoratori manuali, pensionati) e bassi (61,6%, operai, disoccupati). Il terzo gruppo, costituito da una quota largamente minoritaria (7,3%), all’opposto avverte un miglioramento e una crescita fra i due anni, concentrato nei ceti medio-alti (9,3%) e, soprattutto, alti (35,8%, imprenditori, manager).
A cavallo fra i due anni prevale negli italiani una pre-visione priva di scostamenti, quasi piatta: un misto di adattamento e disincanto, di cautela e rassegnazione. Pochi scorgono una crescita, mentre molti fra i ceti medio-bassi e bassi intravedono una progressiva erosione delle loro opportunità, anziché la possibilità di una mobilità ascendente. Ed è questa polarizzazione nelle condizioni, come certificato dall’Istat e dall’esito del voto referendario, a muovere il malessere. Coesione e sviluppo dovranno essere le parole chiave dell’agenda per il futuro dell’Italia. 
*Università di Padova
BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

Nessun commento: