martedì 6 dicembre 2016

Ian Kershaw, la Seconda guerra dei Trent'anni e l'invenzione del "populismo" come Ersatz odierno del "totalitarismo" per definire la comunità dei liberi

Ian Kershaw: All'inferno e ritorno, Laterza 

Risvolto
  L’Europa tra il 1914 e il 1945 precipitò in un abisso di barbarie: combatté due guerre mondiali, minacciò le fondamenta stesse della sua civiltà e parve testardamente incamminata sulla via dell’autodistruzione.Ian Kershaw, uno degli storici più autorevoli del nostro tempo, ci racconta quello che fu un vero e proprio viaggio di andata e ritorno dall’inferno.

Estate del 1914: gran parte dell’Europa precipita in un conflitto sconvolgente. La gravità del disastro terrorizza i sopravvissuti, nessuno può credere che la civiltà modello per il resto del mondo sia sprofondata nella brutalità più assoluta.Solo vent’anni dopo la fine della Grande Guerra, nel 1939, gli europei iniziano un secondo conflitto, persino peggiore del primo. Nonostante le crude cifre non possano restituire la gravità dei tormenti inflitti alla popolazione, la conta dei morti – oltre quaranta milioni soltanto in Europa, quattro volte di più della prima guerra mondiale – ci fa percepire con concretezza questo orrore.Ian Kershaw ricostruisce una nuova, monumentale storia dell’Europa contemporanea: un periodo straordinariamente movimentato e tragico che ha visto il continente sfiorare l’autodistruzione e, solo quattro anni dopo aver toccato il fondo nel 1945, gettare le basi per una stupefacente risurrezione.

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Mentre i movimenti nazionalisti e xenofobi si rafforzano sempre più in così tanti paesi, mentre monta la rabbia per le mancanze dell’establishment nel proteggere i cittadini dalle conseguenze negative del capitalismo globalizzato, dilaga un’ansia comprensibile riguardo al futuro. I fantasmi europei ricompaiono e ci tormentano: l’Europa sta tornando al suo oscuro passato?
La Seconda guerra mondiale — la più grande catastrofe nella storia europea, perfino più grave della Prima — fu il prodotto di un’immensa crisi incrociata di conflitti etnici, territoriali e di classe alla quale si sovrappose un lungo e rovinoso peggioramento del capitalismo. Alla fine della guerra, tuttavia, all’Europa fu offerta la possibilità di un nuovo inizio. Tassi senza precedenti di crescita economica furono convogliati in politiche di welfare che apportarono enormi benefici alle popolazioni. La cooperazione economica aumentò gli scambi commerciali, produsse benessere e portò a una maggiore integrazione, e in tale percorso eliminò l’antagonismo nazionalista che aveva diabolicamente tormentato il periodo tra le due guerre. Quel periodo “radioso” di sviluppo (quanto meno nell’Europa occidentale) terminò durante le crisi petrolifere degli anni Settanta, spianando la strada a un lungo periodo di decurtazione della spesa. Gli stati dovettero affrontare nuovi e crescenti problemi mentre faticavano a soddisfare le domande del welfare sotto le pressioni sociali, economiche e politiche dovute alla deindustrializzazione e a una maggiore competitività dei mercati globali.
Queste pressioni si sono ancor più intensificate negli anni Novanta, quando la globalizzazione è decollata andando oltre ogni previsione. La deregulation globale delle banche ha infine portato al drammatico tracollo del 2008, e da lì alla crisi attuale — esacerbata dal flusso dei rifugiati provenienti dal Medio Oriente — si può tirare un’unica linea retta.
Osservato da una prospettiva a lungo termine, il caos attuale presenta alcune somiglianze, ma nel contempo è molto diverso da quello del periodo interbellico. Oggi non è presente quella combinazione di crisi che afflisse l’Europa tra le due guerre, sebbene non si possa escludere del tutto una nuova vasta crisi bancaria che avrebbe ripercussioni sociali, economiche e politiche enormi e negative. L’attacco ai valori liberali è peraltro molto più forte di quanto sia mai stato in qualsiasi momento, dal periodo interbellico a oggi. In verità, però, quei valori ormai sono radicati molto più in profondità in Europa di quanto fossero tra le due guerre. Di conseguenza, benché vi siano echi dell’oscuro passato, dobbiamo tenere ben presenti le differenze. Oggi l’Europa è un continente formato da democrazie (anche se Ungheria e Polonia stanno dando segno di derive autoritarie). Negli anni Trenta, invece, la democrazia era fallita in buona parte dell’Europa. Alla fine di quel decennio vivevano sotto qualche tipo di dittatura più dei due terzi degli europei (senza contare i cittadini sovietici).
Una seconda differenza importante rispetto ad allora è che oggi gli eserciti contano relativamente poco nella politica interna europea, a differenza del ruolo preponderante che ebbero in così tanti paesi nel periodo tra le due guerre. In terzo luogo, nel corso degli ultimi sessant’anni l’Europa ha imparato a collaborare, a negoziare, a interagire a quasi tutti i livelli. Pur nelle attuali difficoltà nell’Ue, questi sono progressi molto positivi. E infine, oggi al centro dell’Europa c’è una Germania pacifica e internazionalista, in aperto contrasto con quella degli anni Trenta. Anche così, il pessimismo è comprensibile. È molto inverosimile che l’Europa possa precipitare in una guerra di grandi proporzioni che scoppi al suo stesso interno. Sussiste invece il pericolo che possa restare coinvolta in un conflitto scoppiato altrove, specialmente quello potenziale tra grandi potenze nucleari come Stati Uniti, Cina e Russia. Indubbiamente, viviamo tempi di grande incertezza. Bastano la Brexit e il presidente Trump a farci inoltrare in territori inesplorati. Anche il protezionismo economico pare destinato ad aumentare. Alla fine, i confini aperti in Europa potrebbero essere messi a repentaglio da un mix fatto di crisi dei rifugiati e dalla minaccia del terrorismo internazionale.
Le fragilità nella zona euro potrebbero venire completamente a galla qualora una delle sue grandi economie — per esempio quella italiana — cadesse in qualche grosso guaio. Resta da capire se l’eurozona sarebbe in grado di sopravvivere a una crisi di questa entità. L’Unione europea è assai impopolare in ampie fasce della sua popolazione in quasi tutti gli stati membri, e ancora si ignora se sarà capace di varare quelle riforme sistemiche e fondamentali necessarie a rivitalizzarla.
Tuttavia, è proprio questo che occorre. La xenofobia nazionalista che sta dilagando in Europa sta rendendo meno tolleranti le nostre società, ed è una minaccia per chiunque sia ritenuto diverso. In ogni caso, essa non potrà risolvere i problemi fondamentali che sorgono dalla globalizzazione. Reagire a questi problemi vuol dire perseguire una maggiore unità, non minore; una maggiore forma di integrazione, non minore; una maggiore e non minore prontezza a farsi carico degli oneri comuni e a prendere di petto le problematiche che provocano scontento sociale e frammentazione politica. In un mondo in pericolo non ha senso alcuno ritrarsi nell’immaginaria sicurezza dei singoli Stati-nazione, pensare soltanto a sé e tirare su il ponte levatoio.
Un buon inizio da parte dell’Unione europea consisterebbe nel dire addio per sempre alle politiche di austerità e nell’introdurre misure radicali per stimolare la crescita, in particolare alle aree più in difficoltà, specialmente nel sud dell’Europa. Tutto ciò porterebbe speranza in ampie fasce della popolazione, soprattutto tra i giovani, i grandi perdenti della globalizzazione, e consentirebbe di ripristinare la fiducia nella possibilità che l’Unione europea abbia risposte migliori per i nostri gravi problemi che fare ritorno al pericoloso e fallito nazionalismo del passato.

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