martedì 6 dicembre 2016

L'autorevole parere di Italian Abstainer Theory su un recente libro che vede tortura ovunque tranne contro i palestinesi, che tanto non sono esseri umani



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Viaggio al termine della notte tra i segreti dei torturatori 
Un saggio filosofico di Donatella Di Cesare alza il velo su una pratica diffusa che segna la soglia tra la civiltà e la sua negazione

ROBERTO ESPOSITO Rep 5 12 2016
Se ci si pensa, i modi di fare il bene, nel corso della civiltà, sono continuamente cambiati. Non quelli di fare il male – di colpire, ferire, uccidere. Soprattutto di torturare. «Nulla è cambiato, è il refrain della poesia Torture di Wislawa Szymborska. «Il corpo trema, come tremava prima e dopo la fondazione di Roma, nel ventesimo secolo prima e dopo Cristo». «Senza fine », le fa eco Edward Peters nel suo libro Torture, ribaltando il luogo comune che vuole la tortura confinata in scenari arcaici e remoti. Ma a riaprire questo dossier segreto, guardando in faccia la Medusa, è adesso un libro di grande intensità teoretica e politica, scritto da Donatella Di Cesare per Bollati Boringhieri col titolo Tortura (pagg. 217, euro 11). La tortura costituisce lo spazio, orrendo e sfuggente, nel quale, nonostante tutte le conquiste della civiltà giuridica, la barbarie ha ancora la meglio sul progresso, trascinando la storia all’indietro nel suo oscuro passato.
Certo, nella grande maggioranza dei casi, come Foucault ha documentato in Sorvegliare e punire, la prigione ha sostituito la pena corporale, calando il sipario sullo “splendore” dei supplizi pubblici. Tutti gli Stati moderni hanno abrogato da tempo la tortura, fino alla sua solenne abolizione proclamata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel dicembre del 1984. Ma, eliminata dai codici, essa continua clandestinamente a vivere. Non solo nelle periferie del mondo, ma anche nei nostri paesi. In forme occulte o palesi, blande o feroci, dilaniando corpi e anime, prima di cancellare le proprie impronte e scivolare nelle tenebre. La Di Cesare percorre questa galleria degli orrori con una competenza pari solo alla tensione etica nei confronti di una procedura che segna uno spartiacque insuperabile tra due interpretazioni opposte della storia umana. Qualunque regimi tolleri forme, aperte o nascoste, di tortura si situa oltre la soglia che divide la civiltà dalla sua negazione.
Il libro si articola in tre sezioni, dedicate rispettivamente alla politica, alla fenomenologia e all’amministrazione della tortura. Ad amalgamarle è la tesi della sua assoluta specificità, che ne fa un unicum anche nel repertorio fosco della violenza. Essa non va confusa con l’esecuzione. Nell’opera, minuziosa e metodica, del torturatore, la morte è solo un incidente che riduce il tempo, potenzialmente eterno, della sofferenza. Ma la tortura non va neanche intesa come strumento per estorcere una confessione – anche se talvolta può esserlo stato. La sua vera dimensione è quella del potere sovrano nei confronti di una vittima inerme. Non generica, anonima, confusa nel carnaio o ammassata nelle camere a gas. Ma lì, seduta, piegata, ritorta, davanti al carnefice che la guarda negli occhi per non lasciarsi sfuggire neanche una smorfia di dolore. È la pena, tendenzialmente infinita, inflitta a chi, in qualsiasi modo, ha sfidato il potere. Essa non serve a pareggiare i conti, a fare giustizia. O anche a salvare qualcuno, magari strappando la confessione di un attentato imminente. Queste giustificazioni non appartengono alla vita reale. Ma al racconto dei torturatori, al loro mondo torbido e paranoico.
Nulla più delle pagine autobiografiche di Jean Améry, esponente della resistenza belga, sottoposto a tortura dai nazisti, restituisce i tratti indelebili di quella esperienza – la riduzione dell’essere umano a carne violata, strappata, maciullata in un martirio senza riscatto né redenzione. Da lì, da quel viaggio al fondo della notte, non c’è ritorno. Chi è stato torturato una volta, lo resterà per sempre. Nella figura di quattro torturatori di professione – il maestro dell’Inquisizione spagnola Torquemada, il generale francese Paul Aussaresses, il comandante dei Khmer Rossi Duch e l’ufficiale argentino Adolfo Scilingo – il dispositivo della tortura è analizzato in tutte le sue pieghe psicologiche, le tecniche operative, i segreti indicibili. Chi tortura non parla né vuole ascoltare, non ha nulla da dire o da udire. Vuole strappare il cuore della vittima e dilaniarlo.
Ma la tortura è anche pratica amministrativa, forma, deformata e deformante, di governo dei viventi. Nelle sue infinite varianti, sempre più perfezionate, tese a non lasciare traccia, essa potenzia e produce potere. Nonostante le ovvie distinzioni, tra quello che in anni recenti è accaduto in una prigione irachena, in uno scantinato egiziano o in una caserma italiana, passa un elemento comune. In tutti questi casi una vita umana è stata schiacciata contro un muro e devastata fino a rimanere per sempre sfigurata. Questo saggio è più di un libro di filosofia. È un atto politico che impone di sollevare il velo su qualcosa che da troppo tempo avvelena i nostri regimi, perché non vi si debba porre fine. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

Torna la tortura è il fallimento della modernità Federico Vercellone  Busiarda 13 12 2016
La tortura che la cultura illuminista aveva solo idealmente cancellato dai propri orizzonti è rientrata con forza nel panorama politico mondiale. E non si tratta di un ritorno sotterraneo, come ci ricorda Donatella Di Cesare nel suo libro Tortura (Bollati Boringhieri). Il terrorismo ha scatenato reazioni radicali intese a rilegittimare la necessità di questo supplizio come se, dinanzi a estremi mali, fosse concesso rispondere con i sempre inefficaci estremi rimedi. Nessuno come Kafka, in La colonia penale, ha saputo individuare la logica della tortura, che è una logica dell’iscrizione in corpore vivi del castigo e della sottomissione. «La politica della tortura è, alla fin fine», scrive Di Cesare, «una politica del terrore. Sul corpo torturato si imprime la presenza scatenata del potere sovrano». 
In una logica liberale la tortura costituisce una pura disfunzione, un andamento patologico della sovranità. Essa si configura, agli occhi dell’opinione pubblica, come una sorta di reviviscenza dell’arcaico nella contemporaneità. Tuttavia le cose non vanno affatto in questo modo. Paradossalmente la tortura prelude e si adatta bene alla globalizzazione, anche perché le sue tecniche e i suoi mezzi sono facilmente esportabili. La questione diviene ancora più angosciosa dinanzi all’evidenza inquietante che la tortura non si è fermata con la caduta della cortina di ferro. Essa è compatibile con la democrazia e con la sua opinione pubblica, come risulta da uno studio di Darius Rejali del 2011 che acclara, sulla base di dati recenti, come la maggioranza dell’opinione pubblica, nell’era post-Obama, fosse favorevole alla tortura.
Se la tortura non esprime un’identità atavica ma appartiene anche al mondo contemporaneo e ai regimi democratici che talora la adottano, che conclusioni possiamo trarne? Innanzitutto che la tortura rende palese la tragica impotenza dell’Illuminismo, l’incombente fallimento di una modernità che si sente assediata nel proprio benessere e nei valori-guida. L’etica della testimonianza, il ferreo imperativo a non tacere, a cui pur doverosamente ci invita Di Cesare, non è, da questo punto di vista, un’arma da sola efficace per combattere la più efferata delle violenze dell’uomo sull’uomo. L’ineluttabile scommessa che qui si propone è quella di una rifondazione del patto sociale su basi più eque e condivise che sottraggano le logiche del potere a quella della violenza vittima-carnefice.
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