venerdì 16 dicembre 2016

L'irresistibile voglia di Impero del ceto intellettuale occidentale


Augusto e il Califfo il fascino e la paura 

Per lo storico Andrea Giardina si tratta di due visioni opposte del potere: i valori che uniscono contro quelli che dividono 

Alberto Simoni  Busiarda 16 12 2016
Il Califfo e Augusto, lo Stato islamico e l’Impero romano. Impresa paradossale cercare analogie o punti di contatto. Eppure malgrado siano antitetici, fra i fasti (e pure il declino) dell’antica Roma e il sedicente Stato islamico un punto in comune c’è: entrambi rappresentano uno choc, una rimescolamento dell’ordine mondiale. La nascita e il tracollo di Roma hanno provocato cambiamenti, riscritto confini, amalgamato culture e generato nei secoli successivi le nazioni; l’avvento dell’Isis è il tragico epilogo di una rivoluzione nel mondo islamico che risale al 1979 e che ha eroso - complice la fine della contrapposizione dei blocchi Est/Ovest - la stabilità novecentesca. «Comunque andrà a finire la guerra contro l’Isis – spiega lo storico della Normale di Pisa Andrea Giardina – il mondo non sarà più lo stesso e nuovi attori saranno protagonisti sulla scena, da Putin a Erdogan. Ma soprattutto c’è il rischio concreto di vedersi dinanzi a un mondo che si incammina verso la Terza guerra mondiale, a pezzetti come dice Papa Francesco, combattuta con armi terribili».
Professore, servirebbe oggi una forza stabilizzatrice come fu l’antica Roma?
«Se c’è un’analogia fra quanto accade oggi in Medio Oriente e quanto succedeva duemila anni fa, è il nodo di come fanno le potenze globali a controllare certi fenomeni».
Ma l’Isis e l’Impero romano non stanno dalla stessa parte. Una era la potenza globale dell’antichità, l’altro è un elemento di assoluta instabilità ed esportatore di terrore.
«L’analogia storica è infatti difficile da applicare: i romani non affrontavano altre potenze come è costretto a fare oggi l’Isis; i romani hanno però avuto attriti e conflitti con il cristianesimo e il giudaismo. Ma le motivazioni di quegli scontri erano profondamente diverse da quelle che potremmo immaginare».
Perché?
«Prendiamo le guerre giudaiche: nascevano da moti di ribellione ma non avevano velleità espansive. Gli ebrei chiedevano autonomia per le loro province ma non minacciavano l’esistenza dell’impero romano. E la stessa cosa si può dire della sfida a portata dal cristianesimo».
In che termini?
«I cristiani hanno subito persecuzioni. I romani li percepivano come aggressivi perché negavano le divinità tradizionali amate dal popolo e questo era un segno di mancanza di riconoscimento dell’imperatore e della sua autorità. Un atto di insubordinazione. Per questo venivano combattuti».
Non la definirebbe comunque una guerra di religione? Pagani politeisti contro monoteisti?
«Assolutamente no. La tolleranza religiosa era garantita in epoca antica e moderna. È oggi che il tema della tolleranza religiosa è diventato un nodo».
Quando si è verificato questo cambio di paradigma ?
«Dopo la Rivoluzione iraniana del 1979. Quello è un anno chiave, non c’è solo la teocrazia a imporsi a Teheran, assistiamo al risveglio del mondo sunnita, pensiamo alla resistenza dei mujaheddin in Afghanistan».
I romani erano razzisti?
«Non ci sono mai state persecuzioni razziali. Non esistevano ghetti, quelli sono un’invenzione medievale veneziana. Roma non ha mai esercitato provvedimenti coercitivi basati sulla razza. Anzi, i romani avevano trovato una loro via per la convivenza. A Roma, ad esempio, c’erano moltissimi neri, pienamente integrati».
Per questo si dice che Roma è stata una grande città multiculturale?
«Certamente. Lo stereotipo del romano razzista è sbagliato, retaggio della sovrapposizione con il fascismo che se ne è fatta in epoca novecentesca. I romani non applicavano assolutamente criteri di stirpe nelle scelte di politica internazionale. Veniva premiata la fedeltà all’impero non il sangue».
È mai andato in crisi il modello multiculturale romano?
«No, fino alla fine l’idea è restata forte».
Anche dinanzi all’invasione e alla minaccia dei barbari?
«I romani provavano fastidio per il barbaro, ma non ci sono mai stati sentimenti o reazioni che oggi chiamiamo xenofobe. Tutt’altro da quello che evidenzia l’Isis».
Perché?
«Lo Stato islamico ha un forte carattere identitario, non c’è spazio per l’altro. E nemmeno spazio per la sopravvivenza di chi non ha le medesime caratteristiche culturali, storiche e di valori. È questo che alimenta ulteriormente le paure che abbiamo per lo Stato islamico e la sua espansione».
La guerra contro l’Isis, pur con qualche rovescio - come la recente riconquista di Palmira - sembra stia producendo dei successi. Il territorio sotto il controllo del Califfo si restringe. Non è un buon segno?
«L’ “impero” dell’Isis ha due forme: la prima è il controllo del territorio e qui è possibile che l’azione militare degli alleati abbia fortuna. La seconda è “la presenza” del virus jihadista nelle menti delle persone. E questo non ha confini. È quest’ultimo aspetto che mi preoccupa. Serve una risposta politica e sociale alla diffusione del virus. E la sfida è certamente più difficile da vincere rispetto a scacciare l’Isis da Mosul o da Raqqa».
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