sabato 10 dicembre 2016

Lotte di classe nel Grande Nord

220Matteo Meschiari: Artico nero, Exòrma

Risvolto
Sette storie da un Artico nero e morente, ambientate in Canada, nella Norvegia settentrionale, in Siberia, in Groenlandia: luoghi dove la distruzione di una cultura sta anticipando gli scenari peggiori.
«I popoli circumpolari non hanno solo in comune un habitat, dei tratti di cultura materiale e una complicata storia di intrecci genetici. Quello che hanno condiviso fino a mezzo secolo fa era una visione animistica dell’esistenza, centrata sugli animali, sulla caccia e sul potere degli sciamani».
Un’analisi politica e sociale incassata nel modello romanzo-saggio. Un modo nuovo di raccontare e fare antropologia: antropofiction.

Anche l’igloo viaggia fra i ghiacci 

Grande Nord. «Artico nero» di Matteo Meschiari (edito da Exòrma) verrà presentato oggi alla fiera Più libri più liberi a Roma, alle ore 12. Un libro di antropofiction che smaschera pregiudizi e bufale 
Simone Pieranni  Manifesto 10.12.2016, 18:42 
Mischiare i generi letterari è una necessità quando la sensibilità della scrittura si unisce a temi rilevanti da un punto di vista storico. Antropofiction è il nome affidato al genere percorso da Matteo Meschiari ne Artico Nero, la lunga notte dei popoli dei ghiacci (Exòrma, pp.168, 14,50 euro: il libro verrà presentato a Più liberi più libri, con l’autore, oggi alle 12), una carrellata di storie ispirate dall’immaginazione e da fatti realmente accaduti, ancorati allo sviluppo capitalistico e alla depredazione di territori, culture, lingue e tradizioni. Un libro che trattando temi poco mainstream rileva e segnala anche numerose imprecisioni o bufale o boutade e iperboli sull’argomento (come la storia di quante parole esistono per dire «neve» da parte degli eschimesi), una sorta di odierna costruzione scientifica «dell’altro», un racconto per eccessi che confonde e mischia, occultando alcune verità. Meschiari scrive il suo libro come se impiattasse un romanzo, caricando le linee narrative di derive «saggistiche». 
NE ESCE UN VOLUME godibilissimo la cui importanza fattuale – e il costante debunking di inesattezze nate da una sorta di telefono senza fili voluta dal colonialismo – non sminuisce quella stilistica. Siamo abituati a pensare a tutto quanto riguarda i termini «colonizzazione» e «sviluppo capitalistico» associando sempre questi due concetti a un supposto Nord e a un supposto Sud, in un ancoraggio mentale delle dinamiche storiche che solitamente segue la seguente «piega»: il nord depreda il sud.
La prima constatazione leggendo Artico Nero è l’esistenza, ignorata, di qualcosa di diverso: «la Jamalia, la Lapponia, la Groenlandia, il Canada artico, l’Alaska, la Chutoka, la Jacuzia sono terre-in-mezzo che mettono in crisi le nostre dicotomie più trite, sono zone di risonanza tra Occidente e Oriente. Non sono “spettacoli” esotici, sono “spettri-spettatori” da cui forse verremo osservati». È il Nord depredato che diventa protagonista. 
C’È UNA GRANDE VERITÀ in questo passaggio: la Jacuzia, per lo più conosciuta in quanto zona esotica del Risiko, rischia di arpionarci a una sorta di distanza intellettuale. Si tratta di «Una mancanza di empatia», forse, secondo l’autore, che poi specifica: «l’estremo Nord ha conosciuto come il sud colonialismo e post colonialismo, capitalismo e proletariato, sfruttamento delle risorse e disastro ecologico» e per questo potrebbe giocare «un ruolo cruciale nella riflessione sul dibattito post coloniale». E di tutto questo si può raccontare la storia, raccontando storie. Come quella dei Nenet, dei Lapponi e di tanti altri. 
STORIE DI POPOLI, di vite e di persone cancellate, o meglio, ignorate dalla cartografia eurocentrica. Date queste premesse la base del racconto, dei racconti, di Meschiari è una sorta di leit motiv, la «vecchia storia»: «Agricoltori-allevatori (sedentari) contro cacciatori-raccoglitori (nomadi)».
Due antropologie e due storie completamente diverse, da sempre «in collisione»: da un lato le società «gerarchiche, guerriere, che accumulano beni, dall’altro le comunità anarco-comuniste, tendenzialmente “miti”, ecologicamente integrate». Separate di fronte alla domanda: come usare la terra? Ma anche: come costruire una casa, dividere i beni, gestire il territorio, rispettare le diversità, ricordare i defunti, ringraziare gli dei, crescere i figli, essere o meno «paritari» tra uomini e donne, vivere il proprio processo di crescita, di vita e di morte. 
L’EUROPA CHE STUDIAMO a scuola «è greco-romana. Non siamo abituati a guardarla come un mosaico etnico in cui agricoltori sedentari e cacciatori nomadi sono entrati in collisione da prima dell’Età dei metalli». E invece è andata così e di questo incontro, scontro e sconfitta delle popolazioni del Nord depredato, Meschiari ci dispensa liriche storie, simboli ed esempi di vite di cui sappiamo poco. Per dire che la rete «di piste panartiche degli Inuit era per loro una specie di casa». Come a dire: se il corpo si muove «e la casa è un corpo», allora anche la casa si muove: «l’igloo non viene trasportato, viene ricostruito ogni volta e la sua forma immateriale viaggia come l’anima dell’uomo che viaggia con lui, seguendolo ovunque vada».
Distanze, recapitate da un’immedesimazione lirica che, in alcuni racconti, rappresenta una sorta di poesia orale, immaginata e postuma («Muoiono tutti nel mare, ma lo sciamano mi afferra. Mi tira a riva con sé. Ecco perché sono qui. Per raccontarvi la storia»). E se non bastassero le sette storie con protagonisti diversi e luoghi geografici differenti, basti lo stile: ispirato a saggi, fotografie, suggestioni e storie vere, rese talmente verosimili da sembrare talvolta completamente inventate. Proprio perché ne sappiamo così poco. Perché in fondo qual è la grande lezione coloniale? Fare i conti con la storia il più tardi possibile, «o quando è possibile non farli affatto».

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