giovedì 15 dicembre 2016

Magari evitare di fare il referendum sul Jobs Act per evitare di farci del male da soli sarebbe meglio






Jobs Act, c’è la mina referendum Il Pd pensa di ripristinare l’art.18 
A gennaio l’ok della Consulta ai quesiti della Cgil. I timori di un voto anti-governo 

Amedeo La Mattina  Busiarda
Una nuova bomba ad orologeria è stata azionata sotto la poltrona del segretario del Pd Renzi e dello stesso governo Gentiloni. È il referendum promosso dalla Cgil con 3,3 milioni di firme con l’obiettivo di ripristinare l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, cancellare i voucher (ribattezzati dal sindacato «la nuova frontiera del precariato»), riesumare la responsabilità in solido di appaltatore e appaltante, in caso di violazioni nei confronti del lavoratore.
Una bomba sotto il Jobs Act, una delle punte di lancia dell’esecutivo Renzi che ha aperto una guerra con il sindacato guidato da Susanna Camusso e ha fatto scoppiare una furiosa polemica tra i Democratici. L’Ufficio centrale per il referendum della Cassazione ha già dato il via libera. Ora (il 10 gennaio) spetta alla Corte Costituzionale pronunciarsi e nessuno dubita sull’ok della Consulta. Da quel momento il governo dovrà fissare una data per il referendum tra il 15 aprile e il 15 giugno. Tranne se in quel lasso di tempo non venissero indette elezioni anticipate: in quel caso la consultazione referendaria verrebbe rinviata di un anno. Ma il governo Gentiloni non ha una scadenza e non è prevedibile cosa accadrà nei prossimi mesi, allora a Palazzo Chigi è scattato l’allarme rosso. 
Tic-tac. È partita la corsa a disinnescare l’ordigno e l’artificiere non potrà che essere il riconfermato ministro del Lavoro Poletti. Un'operazione difficilissima soprattutto per quanto riguarda l’articolo 18 modificato dal Jobs Act che ha liberalizzato i licenziamenti economici. Come riusciranno ad evitare il referendum e allo stesso tempo impedire di tornare alle vecchie tutele dell’articolo 18 contenuto nella famosa legge 300 del 1970? Una cosa è certa: nel governo, da ieri operativo con la fiducia del Parlamento, la discussione è iniziata. Un’altra certezza è che il Pd (né tantomeno il nuovo esecutivo) non ha intenzione di mettere la faccia sul No al referendum, ricominciare in primavera una battaglia politica nel Paese, nonostante si tratti di difendere uno degli architravi della politica renziana.
«Dopo la sconfitta del Sì al referendum costituzionale, non è il caso di rischiare un’altra batosta», spiega un renziano del giglio magico mentre entra nell’aula della Camera per votare la fiducia a Gentiloni. E aggiunge: «Questo, a differenza di quello costituzionale, è un referendum che prevede il quorum, ma con l’aria che tira e visto l’argomento ad alto tasso di sensibilità sociale il quorum verrebbe sicuramente raggiunto. In questo caso vincerebbero i Sì e per noi sarebbe una Caporetto». Sarebbe un «uno-due», nell’arco di pochi mesi, da stendere un toro. Allora la parola d’ordine è disinnescare la bomba e per farlo le strade sono due: o sconfessare il Jobs Act (sarebbe clamoroso) o andare a elezioni anticipate. 
Il tema è stato sollevato da Cesare Damiano, presidente della commissione Lavoro, ieri mattina all’assemblea dei deputati del Pd. «Attenzione, è un problema enorme da non sottovalutare», ha detto dopo aver avuto un colloquio con il ministro Dario Franceschini, presente alla riunione del gruppo parlamentare Pd. Franceschini ha chiesto delucidazioni e l’ex sindacalista e ministro del lavoro gli ha spiegato che è necessario al più presto affrontare questa rogna enorme. «Sui voucher il problema si può risolvere tornando alla legge Biagi e dando ai voucher carattere occasionale e accessorio. Molto più difficile evitare il referendum sull’articolo 18 - ha spiegato Damiano - ma non possiamo stare fermi quando i dati Inps indicano una crescita dei licenziamenti, soprattutto di quelli disciplinari». La conclusione di Damiano è stata: «Caro Dario, il Jobs Act mi sembra defunto ». 
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Renzi: brutto clima, bisogna votare prima di vitalizi e referendum Jobs Act 
L’ex premier vede due date per le urne: giugno oppure febbraio 2018. “Ma per arrivare alla seconda avremo due rogne grandi così”. E sul futuro: “Ho offerte di ogni genere. Mollare tutto? Non posso”

GOFFREDO DE MARCHIS Rep
ROMA. Che il clima «non sia dei migliori» si avverte anche a Pontassieve dove Matteo Renzi fa davvero l’autista ai figli e riscopre «finalmente, dopo tre anni di scorta» il destino dei cittadini normali, «fare una coda di mezz’ora in macchina sulla circonvallazione ». Ha sentito un paio di deputati amici e si è fatto raccontare come è andata la giornata della fiducia al governo Gentiloni. L’aula semivuota, il ritorno dei giochi di corrente dentro il Pd, l’attivismo di qualche ministro per metterlo all’angolo, i commenti critici sulla conferma di Maria Elena Boschi, Luca Lotti e Angelino Alfano. Questo il resoconto, via telefono, da Montecitorio. «Ma il problema non sono loro - dice Renzi -. La Boschi ora sparisce: niente interviste, niente televisione. Il problema è la durata del governo. O si vota a giugno o si vota a febbraio del 2018. Io non spingo per una soluzione preordinata».
In realtà, il lontanissimo febbraio 2018, nell’epoca della velocità, dei social, del ministro Fedeli già messo alla berlina sul web, è un incubo. Chi punta alla rinvicita, chi spera di non lasciare il campo aperto ai 5 stelle, non ha tutto questo tempo. «Se non votiamo a giugno, avremo due rogne grandi così», ragiona il segretario dem. Si scatenerà una campagna furibonda sui parlamentari attaccati alla poltrona per prendere il vitalizio che scatta a settembre. Campagna impossibile da arginare. L’altra rogna è lo svolgimento del referendum sul Jobs act, che può diventare il secondo tempo del voto sulla riforma costituzionale. Altro che rivincita. È un uno-due che nessuno, secondo l’ex premier, ha la forza di assorbire, nemmeno il migliore degli incassatori.
Dalla Camera però le notizie non sono buone. I deputati-amici gli comunicano le ultime percentuali di dem favorevoli ad arrivare alla fine della legislatura: l’80 per cento del gruppo. Un numero capace di far saltare il piano sul voto al più presto. Gli stessi deputati, con preoccupazione, chiedono a Renzi se sia vero che, nel caso saltino le elezioni a giugno, lui mediti di «mollare tutto». La risposta di Renzi è interlocutoria: «Ho offerte di ogni genere. È abbastanza normale dopo tre anni passati a Palazzo Chigi. Anche economicamente sono interessanti, ovvio. Da un lato quindi mi sembra naturale pensare: ma cavolo, c’è gente che mi fa la corte e mi offre un buon lavoro e dall’altro lato la politica, i commentatori e i giornali non mi riconoscono niente. Poi penso: ho la responsabilità di tanta gente che crede nel Pd e mollo tutto non lo posso dire».
Sta scrivendo un libro e cambierà editore, questo verrà pubblicato con Feltrinelli. Sta coi figli, domenica tornerà a Roma per l’assemblea nazionale del Pd. Ma non ha smaltito il referendum e l’amarezza del dopo. «Continuano ad attaccare me anche adesso che sono in mezzo alle colline. Non lo capisco. Nessuno ricorda cosa abbiamo fatto in mille giorni, robe mai fatte in dieci anni. E non c’è uno che mi renda almeno l’onore delle armi ».
Di mezzo, in verità, c’è il referendum, «la botta» fortissima presa da Renzi il 4 dicembre. Ma il segretario del Pd pensa che la base per ripartire esiste. Sta proprio nel risultato referendario. «Il Pd di Renzi nei sondaggi - dicono i fedelissimi - sfiora ancora il 31 per cento. Nel 40 per cento del Sì almeno il 33 per cento è nostro. Mentre nel 60 per cento del No quanto è di Grillo? Il 25 per cento, non di più». Non la pensano allo stesso modo nel Partito democratico. Ed è un’opinione diffusa. La scelta del governo fotocopia, la resistenza del Giglio magico fa perdere migliaia di voti. Lo ripetono in tanti. Renzi confida agli amici-deputati che «certo, lo so, il clima, quando è stato presentato il nostro governo, era migliore. Ma capisco: con il ritorno del proporzionale rivive l’inciucio, le correnti, i capicorrente, tutto quello che volevamo evitare prende forma». Per questo il segretario ha segnato una data sul calendario, domenica 11 giugno. La data del voto anticipato.
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La polveriera del Pd tra veleni e macerie “Sentire la direzione è come stare su Marte” 
Da Orlando a Bersani in Transatlantico lo sfogo dei capicorrente Sconcerto per la Boschi, lite sul congresso

TOMMASO CIRIACO L’AGO DELLA BILANCIA Rep
ROMA. Mestizia e veleni, altro che un nuovo inizio. «Ora basta, dobbiamo fare qualcosa – scuote la testa il ministro Andrea Orlando, mentre in buvette si dedica a una macedonia – perché con la direzione di ieri sembrava di stare su Marte». Annuisce il collega Maurizio Martina, un po’ scosso: «Incontriamolo insieme, faccia a faccia. Spieghiamogli che serve discontinuità, perché così non funziona». Ecco il Pd, giorno primo dell’era di Paolo Gentiloni. L’unica buona notizia sono i 368 voti di fiducia. Il resto è impasto di capicorrente e rancori, trame e cavilli congressuali. Con Matteo Renzi a Pontassieve, a farne le spese è innanzitutto il governo. «Ciao Ermete – è il saluto di Paolo Romani al “gentiloniano” Realacci - pensavo entrassi nell’esecutivo... ». «Avrei dato volentieri una mano al mio amico Paolo la replica - ma viste le condizioni, molto meglio restarne fuori».
Ovunque si guardi, si incontrano macerie. Il renzismo, ad esempio. Il 4 dicembre ha subito un colpo talmente duro che è come in bambola. Il “governo fotocopia” ha fatto il resto. «C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole – ironizza Pierluigi Bersani, citando Pascoli – anzi di antico...». In effetti, in Transatlantico un’unica domanda si rincorre: perché lasciare Maria Elena Boschi a Palazzo Chigi? «È uno schiaffo al Paese – si arrabbia Roberto Speranza - ci hanno chiesto discontinuità e gli diamo un governo identico. Così il Pd muore». Passi per la minoranza. Ma i dubbi stavolta scuotono correnti e ministri. Non riescono a darsi una spiegazione Martina o Orlando, alla buvette. Si interrogano i renziani di seconda e terza generazione, e alcuni della prima ora. Mentre il clima di sospetto cresce. «Pier Luigi, lasciati salutare. Anzi no - scherza Graziano Delrio incrociando Bersani sennò dicono che complottiamo ».
Quando il partito e Palazzo Chigi si perdono di vista, si rischia l’incidente. Come ai tempi del governo Prodi, indebolito dall’ascesa alla segreteria di Walter Veltroni. Un film già visto anche con Enrico Letta e Matteo Renzi. Gli indizi ci sono tutti. «La legislatura è finita – attacca il renzianissimo Ivan Scalfarotto durante l’assemblea del gruppo e non ha più alcuna ragione d’essere ». Il tempo di rifiatare e sale sul podio il capogruppo Ettore Rosato: «La spinta propulsiva della legislatura è finita». Invoca le urne citando Enrico Berlinguer e la crisi del blocco sovietico, anche se dopo quel discorso l’Urss restò in piedi altri dieci anni.
Se Palazzo Chigi sembra l’ostaggio di una battaglia senza quartiere, il congresso si trasforma nel terreno di questo scontro. Ma quale congresso? E quando, soprattutto? Per adesso si discute soprattutto di cavilli. La minoranza è pronta ad accettare l’assise soltanto di fronte alle dimissioni del leader. Altrimenti, minaccia vie legali per violazione dello Statuto. «Vogliamo fare un ragionamento politico - domanda Lorenzo Guerini a Bersani - o arrivare davvero alle carte bollate?». E l’ex leader: «No, certo, però ci sono le regole...». Per il vicesegretario dem esiste anche un piano B, come spiega alla Camera a Dario Franceschini: «Se qualcuno pretende le dimissioni di Matteo, allora Renzi resta e il congresso si fa a novembre, come da statuto». Ma la sinistra interna invoca comunque lo scalpo: «Serve un congresso vero sui territori - reclama Speranza - non una rivincita di un leader incazzato che dice che abbiamo sbagliato a votare no».
La verità è che nell’assemblea di domenica si rischia un gran pasticcio. E le posizioni si moltiplicano. Orlando chiede di non forzare troppo i tempi, mentre altri Giovani Turchi assediano Matteo Orfini in Transatlantico. «Altri due mesi di guerra sulle regole – si lamenta Michele Bordo – e la nostra gente ci odierà». I “falchi renziani”, però, lavorano alla mossa del cavallo, un ordine del giorno che porti l’assemblea a fissare il congresso senza passare da dimissioni. Un atto di guerra. Una spirale preoccupante. «Nel 1992 ero democristiano e ho vissuto quella dinamica autodistruttiva si intristisce il senatore Paolo Naccarato - Se il Pd non si ferma in tempo, finisce esattamente come la Dc».
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