sabato 10 dicembre 2016

Nell'aria c'è una novità: il Centrosinistra! Diciamo No a Sinistra Palindroma, a Sinistra Manifesta, a Sinistra Vendola e a tutte le altre trappole consimili


Non sentite nell'aria quanta voglia di centrosinistra promana dal popolo?
Facciamo una cosa nuova, questa volta: cosa aspettiamo ad allearci con il PD per spostare a sinistra l'asse della coalizione?
In subordine, se proprio il PD non ci vuole, possiamo allearci con quelli che vogliono allearsi con il PD e che alla prima occasione ci lasciano in mezzo alla strada con una mano davanti e una dietro. Tipo SEL o quelli di Fassina, o Civati o qualche altro personaggio sponsorizzato dal Manifesto, che sia lungimirante e credibile agli occhi delle classi subalterne.

Insomma, adesso persino l'Imbroglione Pugliese cerca di rifarsi una verginità distinguendo Renzi dal PD: come si diceva, dove c'è puzza di SEL, di sinistra PD, di Manifesto, lì c'è subito Asor Rosa, lì c'è già la destra.
Anche il Professor Golpe Democratico - quello che aveva chiesto a Napolitano di difendere la democrazia mandando i carabinieri a deporre Berlusconi - non resiste al Richiamo della Foresta del Gran Partito e ha questa ossessione delle alleanze con il PD.
E' l'ennesima conferma di una nuova frenesia che dopo il referendum agita antichi professionisti della sconfitta: sentono di poter tornare in gioco e tutti vogliono rifare il Centrosinistra, quell'orrido pasticcio che ci ha schiantati facendoci approvare infinite porcherie antipopolari.

Diciamo allora sin dall'inizio un secco No anche a Sinistra Palindroma, dopo averlo detto a Sinistra Manifesta, Sinistra Pisaspia, Sinistra Castellina, Sinistra Fratoianna e Sinistra Vendola. Tutte facce della stessa catastrofe [SGA].

Macry 
Panebianco

Via Renzi, nuove alleanze di centrosinistra
Alberto Asor Rosa Manifesto 10.12.2016
La confusione è grande sotto il sole. Capita, soprattutto dopo un trionfo inaspettato, almeno per quanto riguarda le dimensioni. Provare a rimettere ordine può apparire presuntuoso ed estremistico ma l’estremismo, quello del cervello, beninteso, dell’altro, quello pratico, non mette neanche conto parlare, – consiste nel fornire quadri interpretativi, magari illusori, ma in qualche modo fantasmi di un progetto che potrebbe esserci, e che forse sarebbe bene che ci sia.
Proviamo.

1. HO SEMPRE PENSATO che Matteo Renzi sia un politico mediocre, più aria e smorfie che sostanza, e l’ho persino scritto più volte. Il fatto che ci sia anche un «populismo del potere» in grado di sedurre masse cospicue di nostri concittadini (è accaduto altre volte nella nostra storia recente), non mi ha mai dissuaso da questo convincimento.
Tuttavia, è vero che nessuno, neanche uno di noi, avrebbe immaginato che un politico, per quanto mediocre, s’infilasse, gridando e ridendo, in un tunnel cieco come quello del referendum.
Siccome è accaduto, siamo autorizzati a pensare che Renzi, oltre a commettere errori, sia incline a combinare disastri: oggi il referendum, domani chissà.
Ma c’è di più. Per l’attaccamento al potere e l’assoluta mancanza di valori, Matteo Renzi non è solo un politico catastrofico: è anche un politico pericoloso. Meglio provvedere prima che dopo.
Se tutto ciò è vero, non solo il Parlamento e gli altri organismi istituzionali a ciò delegati dovrebbero liberarci nei modi opportuni di lui, ma anche il gruppo dirigente del Pd, – do per scontato che ne esista ancora uno, – dovrebbe fare rapidamente lo stesso. Un altro Segretario è condizione indispensabile per riavviare il processo.
2. IL SECONDO PROBLEMA È IL PD. Nelle sue innumerevoli e troppo frequenti trasformazioni, questo partito è tuttavia sempre rimasto (più o meno) un partito di centro-sinistra.
Ora cos’è?
L’abbandono totale, il rifiuto categorico da parte di Renzi di questa irrinunciabile caratterizzazione ha gettato il Pd, sia dal punto di vista programmatico sia dal punto di vista comportamentale (alleanze, scelte di valori, messaggi al popolo, ecc.) in un limbo indefinito e universalmente fungibile.
Questa, dopo quella personale di Matteo Renzi, è la seconda catastrofe.
Può l’Italia, con le sue problematiche sociali, economiche e strutturali, arrivate a livelli emergenziali folli, fare a meno di un partito di centro-sinistra in grado di proporsi come punto di convergenza di un insieme di forze?
GUARDANDOSI INTORNO (la nostra innominabile Destra, il mortificante populismo nostrano, il Movimento 5 Stelle), non si può che rispondere che, sì, non può farne a meno.
Però, un partito di centro-sinistra per essere tale dev’essere un po’ di centro ma anche un po’ di sinistra: se no, non è un partito di centro-sinistra; è un partito di centro (più o meno) che guarda a destra. Il partito di Renzi, appunto.
La seconda impresa che il gruppo dirigente del Pd dovrebbe compiere, dopo aver liquidato Renzi, è rifare del Pd un partito (chiaramente, anche se settariamente) di centro-sinistra.
3. LA SITUAZIONE È TALE da pretendere che non si perda altro tempo nel perseguire questi due obiettivi. Il referendum ha rivelato che le forzature e i colpi di mano non rendono. Ma anche che ormai la curva del dissenso e del rifiuto ha raggiunto nel nostro paese livelli altissimi, estremamente rischiosi.
Premono alle porte le falangi delle nuove milizie antirepubblicane, antistituzionali e persino antinazionali. Siamo al peggio del peggio. Ma quale straordinario impulso alla catastrofe ha impresso la mediocrità catastrofica dell’ormai ex Premier?
PER QUANTO POSSANO apparire parole d’ordine di vecchio stampo, solo un nuovo radicamento sociale nel paese potrebbe sbarrare la strada a tali inedite forme di eversione: politiche economiche aperte e dinamiche, non semplicemente restrittive; nuove garanzie d’ordine e stabilità; una recuperata dignità dello Stato e del pubblico; un impegno generalizzato e costante verso le classi povere e disagiate; una diversa attenzione ai giovani e al loro destino… Scendere nello scollamento che si è paurosamente allargato tra popolo e potere, e ricucirlo.
Bisogna dare una speranza a questo paese, non delle mance.
4. PER REALIZZARE UNA coalizione forte e rappresentativa di centro-sinistra, è necessario che vi partecipi, oltre che ovviamente un partito di centro-sinistra, anche quella che in Italia viene comunemente definita tout court «la sinistra». Del resto, non si tratta forse della medesima sinistra che, insieme con il partito di centro-sinistra, ha vinto le ultime elezioni politiche in Italia, consentendo poi a Renzi, che se ne è impadronito subito dopo con procedure sostanzialmente extra-istituzionali, di iniziare il suo temibile gioco?
«LA SINISTRA», OGGI in Italia, soprattutto dopo la duplice catastrofe renziana (governo e partito), appare animata da pulsioni contrastanti.
Le due più rischiose sono la tentazione dell’autosufficienza e qualche sotterranea (ma talvolta emergente) simpatia nei confronti dell’avanzata grillina.
Se sfuggisse alla tentazioni, diversamente micidiali, non potrebbe non tornare a persuadersi che in Italia, attualmente, l’unica prospettiva realistica di sinistra è il centro-sinistra.
A patto naturalmente che le due precedenti condizioni si realizzino: ossia il Pd si liberi di Matteo Renzi e torni di nuovo a muoversi in una direzione di centro-sinistra.
Altrimenti, com’è chiaro, anzi chiarissimo, sarebbe una proposta del tutto infondata, anzi, meglio, campata per aria.
5. SE LE QUATTRO condizioni precedenti si realizzassero in uno spazio ragionevole di tempo, o almeno ci si muovesse con chiarezza in tali direzioni, ne scaturirebbe un diverso quadro politico-istituzionale.
Non solo, come dicono tutti, e com’è giusto, per elaborare una nuova legge elettorale, coerente con il senso assunto dall’esito del referendum. Ma, più a fondo, perché non ci sarebbe bisogno di altre elezioni politiche a breve, per far emergere un processo rinnovatore di tale portata: anzi, in questo senso potrebbero essere addirittura micidiali (non a caso Renzi, pro domo sua, le invoca al pari di Grillo).
FINO A QUANDO? Questo lo si deciderà più avanti, a processo avviato, la legislatura termina nel 2018, non poniamo limiti alla Divina Provvidenza.
Certo, come ammoniva Prezzolini più o meno quando stava per sorgere l’astro di Benito Mussolini, «ci vorrebbe un Uomo». Però, se le condizioni, si danno, «un Uomo», o, s’intende, «una Donna», si trovano.
Vorrei concludere il discorso ancor più estremisticamente: non c’è altra strada.

Intervista “Il Pd deve decidere se guardare a sinistra o agli alleati attuali” 

Pisapia: non sono stampella, voglio ricostruire 

Paolo Colonnello  Busiarda 9 12 2016
«Vorrei che fosse chiaro: non ho nessuna ambizione. E non sono la stampella di nessuno Mi interessa ricostruire a sinistra ma anche che passi un nuovo linguaggio, un modo diverso di essere che non allontani più le persone dalla politica».
Chi immaginava già un nuovo antagonista a sinistra, un leader nascente per il governo che verrà o anche più semplicemente di un nuovo schieramento di sinistra, forse rimarrà deluso. Giuliano Pisapia ha idee chiare sul dopo Renzi e sul futuro della sinistra. Ma per sé, dice, non cerca niente. In un certo senso, nella tranquillità festiva della sua casa milanese, l’ex sindaco di Milano si ritaglia un ruolo più da grande saggio che da leader
Dunque non si candida in nessun modo?
«L’ho detto e l’ho ripetuto più volte: non ho nessuna intenzione di essere leader di un nuovo partito, non cerco come non ho mai cercato qualcosa per me ma non voglio regalare il Paese alla destra. Per questo mi metto a disposizione di chi vuole impegnarsi per ricostruire un campo progressista che possa restituire entusiasmo ai tanti di sinistra e centrosinistra che non vanno più a votare o votano per altri schieramenti. Chiaramente anche in prospettiva della prossima scadenza elettorale per rendere possibile che ritorni al governo del paese un centrosinistra, aperto ad esperienze di civismo…».
Lei parla come se le elezioni fossero dietro l’angolo ma non sembra sia così…
«Prima o poi si dovrà andare a votare e il mio auspicio è che si vada non appena vi siano nuove leggi elettorali sia per la Camera che per il Senato. Il punto è arrivare a mettere in campo delle coalizioni che finalmente permettano ai cittadini di decidere lo schieramento che dovrà governare il Paese».
Cosa pensa invece dell’orientamento prevalente di un governo ancora espresso dal pd con quasi tutti alleati?
«Oggi siamo sicuramente in una situazione anomala. Adesso il Pd governa senza la sinistra con cui si era presentato alle elezioni. Quindi non è più procrastinabile una scelta: il partito democratico deve decidere se guardare a sinistra scegliendo lì gli alleati per una coalizione vincente oppure continuare con l’attuale compagine. Personalmente non ho dubbi e sono assolutamente convinto che il popolo del Pd si ribellerebbe se non ci fosse questo impegno». 
Matteo Renzi, e la corrente “renziana” del Pd però sembrano essere diventati per la sinistra qualcosa di profondamente diverso, antropologicamente distante, un neo-berlusconismo che si fa muro. Come pensa si possa superare?
«Io non sono iscritto al pd e non intendo iscrivermi in nessun modo. A me quello che interessa è il popolo del partito democratico, la linea politica. Il problema non è chi è o chi sarà il segretario al prossimo congresso. Non voglio nemmeno entrare nel merito di una scelta che non mi riguarda. Mi interessa invece profondamente il futuro del paese e che il Pd nel suo complesso faccia delle scelte guardando a sinistra, con interlocutori di sinistra».
Molti pensano che il Pd ormai non abbia più niente a che vedere con la sinistra…
«Ho molto chiara questa situazione. C’è una sinistra che ritiene il Pd ormai geneticamente modificato e non più recuperabile e una sinistra che invece ritiene in prospettiva possibile un’alleanza con il Pd. Quindi non mi hanno meravigliato né i consensi né i dissensi alla mia ipotesi. Mi ha meravigliato qualche tono non particolarmente “nobile” ma a me interessa invece molto valorizzare le differenze, quando si hanno gli stessi obiettivi, gli stessi principi, gli stessi valori».
BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI


QUELLA SINISTRA DEL NO, NO, NO 

MICHELE SERVA Rep 9 12 2016
GOVERNARE è obbligatorio? Certo che non lo è. Ma in fin dei conti neppure partecipare alla competizione politica lo è: con tutto quel faticoso e spesso mortificante sbattersi per obiettivi mai uguali a quelli immaginati. Spesso appena l’ombra del sogno che si insegue. La politica è un mestieraccio, ti tocca avere a che fare con chi mai e poi mai frequenteresti, nella tua vita di privato cittadino. La Polis è di tutti: non si sa mai chi puoi incontrarci. E dunque, oggi come venti, trenta e cinquanta anni fa, la vera domanda che la sinistra del “mai con Renzi” (variante dell’eterno “meglio soli che male accompagnati” che è l’anima del settarismo di ogni epoca) dovrebbe porsi è se non valga la pena, infine, destinare la tenacia e la passione che le sono proprie alle tante altre nobili e utili attività sociali a disposizione.
DAL volontariato all’associazionismo alla promozione culturale e artistica alla filantropia eccetera. Si cambiano le cose anche così. Lo fanno, con risultati spesso ammirevoli, anche ragazzi semplici e vecchie contesse, casalinghe non disperate e pensionati ancora vigorosissimi. Signori e popolo, che di politica politicante non vogliono sentir parlare, non è affar loro e anzi le alchimie di partito, le tattiche e le strategie, le mosse e le contromosse confliggono con il loro daffare, che è pragmatico, mica chiacchiere.
Dico questo dopo avere letto parecchie delle reazioni a freddo, che si sommano a quelle a caldo, alla sortita di Giuliano Pisapia, che si propone come tessitore dello sdrucito eppure loquacissimo universo “alla sinistra di Renzi”. Ma commettendo l’errore — imperdonabile per molti — di considerare Renzi il segretario del Pd; colui che ha vinto le primarie; colui che ha raccolto, attorno al Sì, la maggioranza schiacciante degli elettori dem; ovvero il leader politico di un partito che conta milioni di elettori, senza i quali nessuna ipotesi di governo di centrosinistra è plausibile. Ma no, non è questo il Renzi che si para dinnanzi alla sinistra occhiutissima, navigatissima che lo descrive come i baccelloni di Don Siegel ( L’invasione degli ultracorpi), un corpo alieno subdolamente introdotto nel corpo sano dell’ex Grande Partito per risucchiarne l’anima e cancellarne l’identità, un agente del Capitale, dei poteri forti, della massoneria. Non solo, dunque, i blogger trentenni a corto di letteratura, postpolitici e postfattuali, ma anche solidi quadri di partito cresciuti nel materialismo dialettico sono in grado di cedere a quel grande comfort che è il complottismo: quello che non capisco è il Male, solo così riesco a spiegarmelo. E dunque, se è il Male ciò che la storia mi propone, non mi rimane che combatterlo. Meglio l’eternità virtuosa dell’opposizione che il breve sporco momento nel quale ci si incarna nel fango del compromesso politico.
Pisapia non è renziano. Ma Pisapia è stato sindaco di Milano — un buon sindaco — grazie a un piccolo prodigio di anti-settarismo, di politique d’abord, di calcolata generosità. Ossimoro, quest’ultimo, inspiegabile al di fuori della politica, che può essere generosa solo in quanto sa essere calcolatrice, ovvero capace di cambiare le cose a partire da come le cose stanno, non da come le cose dovrebbero essere (e non sono mai). Di utile, per adesso, la sua uscita ha avuto soprattutto questo: ha dimostrato, probabilmen-te non volendolo, che il No referenda-rio, a sinistra, prescindeva largamente dal motivo del contendere: quel passaggio elettorale serviva effettivamente come una sentenza senza appello contro il governo Renzi. Tanto è vero che il Sì di Pisapia gli viene rinfacciato come una colpa che lo rende improponibile come potenziale leader di una sinistra non renziana; perché la sinistra o è contro Renzi oppure non sussiste.
La cosa che Pisapia sicuramente ha capito, e i suoi critici molto di meno, è che proprio la vocazione minoritaria di questa sinistra del “no no no” è una delle cause fondanti del renzismo e della sua ossessione maggioritaria. Il renzismo ipercinetico nasce soprattutto come rimedio (sbrigativo, come si è visto, e infine perdente) alla mortificante stasi che lo ha preceduto, a un culto della complessità spinto fino all’inconcludenza, all’ammuffimento e alla depressione della sinistra negli anni di Berlusconi. Molti di coloro che spregiano Renzi, gli slogan di facciata della Leopolda, la fretta di cambiare purchessia, dimenticano o ignorano lo strettissimo nesso tra Renzi e le debolezze che lo hanno generato. Altro che “corpo estraneo”. E ora, al solo pensiero di fare seriamente i conti con questo fenomeno ingombrante e imprevisto, in parte tardivo remake del blairismo, in parte inedito vitalismo progressista disposto a tutto (perfino a varare, con una decina di anni di ritardo, una legge sulle unioni civili) pur di non morire di noia, voltano la faccia dall’altra parte.
Ancora non è chiaro se per davvero, come sembrava dal suo discorso nella notte della sconfitta, Renzi sappia perdere. Ma è almeno altrettanto dubbio che la sinistra del No, vista la sua accoglienza della ragionevole proposta di ricucitura di Pisapia, sappia vincere.
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NON SIAMO LA SINISTRA DEL NO, NO, NO 
TOMASO MONTANARI Rep 10 12 2016
IL CUORE dell’analisi di Michele Serra sulla Sinistra del no, no, no è questo: «Il No referendario a sinistra prescindeva largamente dal motivo del contendere: quel passaggio elettorale serviva effettivamente come una sentenza senza appello contro il governo Renzi. Tanto è vero che il Sì di Pisapia gli viene rinfacciato come una colpa che lo rende improponibile come potenziale leader di una sinistra non renziana: perché la sinistra o è contro Renzi, oppure non sussiste ».
Per molti italiani di sinistra, tra cui chi scrive, le cose non stanno così.
Abbiamo votato sul merito della riforma, e abbiamo votato No perché essa proponeva (sono parole di un pacato costituzionalista, tutt’altro che antirenziano, come Ugo De Siervo) «una riduzione della democrazia». Matteo Renzi (primo firmatario della legge di riforma) ha proposto uno scambio tra diminuzione della rappresentanza e della partecipazione e (presunto) aumento della possibilità di decidere: ha risposto Sì chi sentiva di poter rinunciare ad essere rappresentato perché già sufficientemente garantito sul piano economico e sociale. Ha detto No chi non ha altra difesa che il voto. Basterebbe questo a suggerire che il No abbia qualcosa a che fare con l’orizzonte della Sinistra.
Ma c’è una ragione più profonda. La Brexit, la vittoria di Trump e ora quella del No in Italia hanno indotto molti osservatori e protagonisti (tra questi Giorgio Napolitano) ad additare i rischi del suffragio universale: la democrazia comincia ad essere avvertita come un pericolo, perché la maggioranza può votare per sovvertire il sistema. Perché siamo arrivati a questo? Perché la diseguaglianza interna agli stati occidentali ha raggiunto un tale livello che la maggioranza dei cittadini è disposta a tutto pur di cambiare lo stato delle cose. È qua la radice della riforma: oltre un certo limite la diseguaglianza è incompatibile con la democrazia. E allora o si riduce la prima, o si riduce la seconda. E questa riforma ha scelto la seconda opzione: che a me pare il contrario di ciò che dovrebbe fare una qualunque Sinistra.
D’altra parte questa scelta è stata coerente con la linea del governo Renzi: cosa c’è di sinistra nei voucher, e nel Jobs Act che riduce i lavoratori a merce, introducendo il principio che pagando si può licenziare? Cosa c’è di sinistra nel procedere per bonus una tantum che non provano nemmeno a cambiare le diseguaglianze strutturali, ma le leniscono con qualcosa che ricorda una compassionevole beneficenza di Stato? Cosa c’è di sinistra nel “battere i pugni sul tavolo” con l’Unione Europea, invece di costruire un asse capace di chiedere la ricontrattazione dei trattati (a partire da Maastricht) imperniati sulle regole di bilancio e sulla libera circolazione delle merci, e non sul lavoro e i diritti dei cittadini? Cosa c’è di sinistra nel puntare tutto su una nuova stagione di cementificazione, attraverso lo smontaggio delle regole (lo Sblocca Italia)? Cosa c’è di sinistra in una Buona Scuola orientata a «formare persone altamente qualificate come il mercato richiede, svincolandola dai limiti che possono derivare da un’impostazione classica e troppo teorica» (così la ministra Giannini)? Cosa c’è di Sinistra nello smantellare la tutela pubblica del patrimonio storico e artistico, condannando a morte archivi e biblioteche, e mercificando in modo parossistico i grandi musei, detti ormai “grandi attrattori” di investimenti?
Il punto, in sintesi, è questo: mentre oggi Destra e Sinistra concordano nel ritenere senza alternative un’economia di mercato, la Sinistra non crede che dobbiamo essere anche una società di mercato. E mentre la prima ripete Tina ( there is no alternative), la seconda lavora per costruire un’alternativa praticabile allo stato delle cose.
Se il Partito democratico ha fatto di Tina il proprio motto non è certo colpa di Matteo Renzi: ma questi è stato il più brillante portavoce di questa mutazione. Se la politica di una società di mercato non può che essere marketing, il modo di pensare, parlare, governare di Renzi è stato paradigmatico.
Allora la questione è: ha senso costruire — come propone Pisapia — una nuova forza di sinistra che nasca con incorporato il dogma del Tina? La vera sfida è costruire una forza che ambisca a diminuire la diseguaglianza, e non la democrazia. Una forza persuasa che «guasto è il mondo, preda / di mali che si susseguono, dove la ricchezza si accumula / e gli uomini vanno in rovina » ( Oliver Goldsmith, The Deserted Village): e che sia venuto il momento di ripararlo, non di limitarsi a oliarne i meccanismi perversi. ©RIPRODUZIONE RISERVATA


Il comitato del No diventa movimento “I nuovi Girotondi” 

Rodotà e Pace: “Il Colle ci consulti, diamo voce ai cittadini”. Le tappe: Italicum e referendum Cgil
GIOVANNA CASADIO Rep 9 12 2016
ROMA. A Marconia, frazione di Pisticci, difficilmente molleranno. Per citare un luogo, in provincia di Matera, dove il comitato per il No al referendum costituzionale ha riunito 50 persone, praticamente una folla. Che il comitato del No - di Zagrebelsky, Pace, Rodotà, Grandi, Villone, Vita e Falcone - avrebbe avuto vita dopo il referendum del 4 dicembre, era scommessa di pochi. Ma sarà così. Mercoledì prossimo prima riunione della fase numero due sulla legge elettorale, a gennaio assemblea con tutti i comitati locali. Pancho Pardi, che fu leader dei Girotondi, e che ha fatto 76 assemblee pubbliche per il No al referendum negli ultimi tre mesi, ricostruisce: «In realtà ce lo siamo detti subito: se vinciamo, non dobbiamo mollare. Nascerà un movimento? Forse sì, ce n’è richiesta. Simile a quello dei Girotondi? Ci sono molte analogie, ma oggi ci sono tantissimi giovani».
Ecco i giovani e la domanda di continuare la mobilitazione giunta dai circa 750 comitati del No sorti in tutta Italia. Sono questi gli ingredienti del “dopo” 4 dicembre. Stefano Rodotà, costituzionalista, intellettuale che piaceva ai grillini come presidente della Repubblica, segnala: «L’anno prossimo ci saranno occasioni per fare sentire la voce dei cittadini». Ci sono infatti i referendum della Cgil (se la Cassazione darà il via libera), su voucher e articolo 18. «Torneremo al protagonismo dei cittadini che hanno dimostrato di volere esercitare le loro prerogative in proprio», analizza Rodotà.
Potrebbe abbattersi un altro “giudizio di dio” su chiunque sarà al governo. Marina Carpani, dei comitati degli studenti per il No, rivendica il «No dei giovani». Le organizzazione studentesche si vogliono riprendere la scena e la politica. Sui futuri referendum si mobiliteranno e intanto hanno preparato un video per spiegare che il movimento continua a vivere. Un movimento del “No sociale”.
«Non c’entra affatto la forma- partito, ma si tratta di mantenere una mobilitazione e di essere soggetto civile nella partita politica », riflette Vincenzo Vita. Massimo Villone, costituzionalista, ex senatore dei Ds, ironizza: «Io se si trattasse di fare un partito non ci starei, non rientro nel circo equestre... ». Il momento è delicato. In una conferenza stampa con Alessandro Pace, il presidente, il comitato ha gettato un sasso nello stagno: «Il presidente della Repubblica dovrebbe consultare anche noi al Quirinale per la crisi». Irrituale. Però - spiega Alfiero Grandi - rappresentiamo un pezzo di paese che ha battuto un colpo, con Smuraglia dell’Anpi, la Cgil, l’Arci. Ci hanno dato dei “professoroni”, dei “gufi”: lo ritengo un omaggio. Abbiamo tante cose da dire su legge elettorale e manutenzione della Costituzione». C’è vita al di fuori dei Palazzi della politica tradizionale e la stravittoria del No - dice Grandi - è bene che non se la intestino i partiti politici, perché il movimento è stato assai più capillare, diffuso. La voce dei cittadini. Il gruppo di testa, anche con Sandra Bonsanti, Tina Stumpo (sorella del dem Nico), Pardi appronterà una bozza di iniziative.
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LA TENAGLIA CHE STRINGE MATTEO 

STEFANO FOLLI Rep 9 12 2016
COME è ovvio, la crisi di governo è tutt’altro che risolta, anzi è appena agli inizi; tuttavia s’intravede un canovaccio e al tempo stesso si avverte un pericolo. Il canovaccio è stato predisposto da Sergio Mattarella e prevede che le tensioni si stemperino nei colloqui riservati e nelle procedure protocollari. A molti gli incontri con decine di gruppi e gruppetti parlamentari che si godono il loro quarto d’ora di popolarità nei saloni del Quirinale sembrano una perdita di tempo; in realtà è il modo tradizionale attraverso cui il sistema scosso cerca di ritrovare un equilibrio. Di fatto il presidente della Repubblica è di nuovo al centro della scena e il capo del governo dimissionario sconta una repentina perdita di potere e d’influenza. Ma è pur vero che Renzi è fornito di una forte personalità, oltre che di una natura sospettosa. Non è semplice per lui uscire di scena, prendersi quella fase di riflessione che gli sarebbe utile per tornare in campo ritemprato fra qualche mese. D’altro canto si rende conto di quanto sia arduo e controproducente per lui restare a Palazzo Chigi dopo i proclami delle scorse settimane, quando era certo che l’annuncio “se perdo me ne vado” avrebbe spinto gli italiani a votare a suo favore. La contraddizione in cui Renzi si dibatte è dolorosa. Da un lato, un po’ per convinzione e un po’ per farsi coraggio, sostiene la tesi che il 40 per cento dei Sì rappresenta un plebiscito per lui e per il partito personale di cui si sente il leader. Dall’altro teme — non a torto — che lontano da Palazzo Chigi e dalle leve del potere la residua magia del “renzismo” sia destinata ad appannarsi.
È tentato di dedicarsi al Pd per distruggere gli oppositori interni e preparare delle liste perfettamente lealiste, cioè depurate da ogni personaggio scomodo, in vista delle prossime elezioni che comunque giudica vicine. Ma anche questo è un indice di inquietudine psicologica: semmai dovrà guardarsi, all’interno del partito, da coloro che fino a ieri lo applaudivano e oggi gli hanno già voltato le spalle. In ogni caso è chiaro che egli vive con ansia crescente la strategia d’attacco dei Cinque Stelle e della Lega: un conto è difendersi e ribattere colpo su colpo essendo alla guida del governo; altra cosa è trovarsi a Largo del Nazareno, impegnato nelle beghe interne, e dover tutelare di malavoglia un governo che sarà pure “amico”, ma in certi momenti gli sembrerà composto di usurpatori. Per di più usurpatori che scriveranno la legge elettorale grazie a qualche accordo con una parte dell’opposizione, a cominciare da Forza Italia. O che potrebbero affrontare con successo, chissà, lo psicodramma delle banche: protetti dal mantello del Quirinale che desidera un governo vero, non fragile e precario, almeno fin quando si deciderà che la legislatura è davvero finita. Del resto, lasciare l’esecutivo a Padoan, al fedele Gentiloni e persino al presidente del Senato Grasso non risolve il problema del logoramento. Al dunque sarà lui, Renzi, a finire sotto tiro, perché verrà visto dagli avversari e da una fetta di opinione pubblica come il vero referente del governo, l’uomo che nell’ombra tira i fili. Magari non sarà vero, magari avrà dovuto accettare dei compromessi, ma tutto gli sarà messo in conto.
Qui nasce il pericolo. Per uscire dalle strettoie, il segretario del Pd darà il via all’attività che più lo elettrizza: la campagna elettorale. Smanioso di portare il confronto con i Cinque Stelle sul consueto terreno: “o io o loro”. Questo condannerebbe il paese ad altri sei mesi di conflitti. In totale, fra referendum e voto politico, sarà oltre un anno. Una nevrosi che nessun paese ha sperimentato in anni recenti. La Spagna, ad esempio, è rimasta a lungo senza governo, ma tra un’elezione e l’altra il paese non subiva traumi quotidiani. D’altra parte, l’alternativa è quasi inesistente. Non essendo in condizione di rifare la legge elettorale in Parlamento, dopo l’infortunio dell’Italicum, la classe politica si arrovella in attesa della Corte costituzionale. Né è pensabile che l’attuale governo dimissionario resti in carica fino alla sentenza, alla fine di gennaio, per poi risorgere dalle ceneri come l’Araba Fenice. La tenaglia in cui è stretto Renzi non si allenterà tanto facilmente.
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di C. LOPAPA, S. MESSINA, M.PUCCIARELLI. video di F.BUTERA e S.NITTOLI



Vendola: «Sinistra stampella di Renzi? Fantapolitica» 

Alleanze . Il presidente di Sel: la proposta di Giuliano Pisapia? Fatta a prescindere dalle politiche del premier. Significa non aver capito lo tsunami del No. Io sarei diventato estremista? Ho molte esperienze di governo, ho combattuto il radicalismo, ma ora il problema mi sembra il governismo a oltranza

Daniela Preziosi Manifesto ROMA 8.12.2016, 23:59 

Presidente Vendola, Giuliano Pisapia lancia «Campo largo», una formazione di sinistra che si allei con Renzi. Ma non sarà il suo «campo». 

Quella di Pisapia è una proposta, direbbe Totò, a prescindere: dall’esito referendario, dalla crisi del paese, dallo sfaldamento del centrosinistra per mano renziana. È una proposta in buona fede ma disancorata dalla realtà. Persino retrodatata, sembra un’intervista fatta prima del referendum immaginando un esito diverso. Difficile interloquire su questa base. Come ha detto Enrico Rossi, sembra una stampella per il renzismo declinante. 

Dei suoi nessuno ha detto sì, neanche quelli in disaccordo con la strada imboccata da Sinistra italiana. 

Tutte le sinistre si sono incontrate nel referendum. La Cgil, l’associazionismo, l’Anpi, noi, la sinistra del Pd. Il referendum è uno spartiacque. Quella di Pisapia è un’idea fondata su alchimie politicistiche e un vago sentimento unitario. Noi dobbiamo ripartire dall’analisi di cosa ha generato lo tsunami che ha travolto il Pd, da quel 60% che ha votato No. 

Che però in larga misura non è di sinistra. 

È successo un fatto enorme: a dispetto della cosiddetta antipolitica, e capovolgendo la deriva astensionistica, c’è stata una mobilitazione democratica inimmaginabile: per dire No,non solo allo sfregio alla Costituzione, ma anche allo sfregio fatto alla scuola, alla condizione del lavoro, alla democrazia delle comunità territoriali. Appunto: i famosi mille giorni di Renzi. Le riforme non sono un bene in sé, se peggiorano le condizioni materiali di vita di milioni di persone, se diventano una minaccia, è ridicola la retorica di un riformismo senza alcuna qualificazione sociale. La verità è che stanno venendo al pettine, nel mondo, i nodi di un riformismo capovolto, quello per cui le sinistre moderate si danno dell’agenda della destra economica, ovviamente addizionate di frammenti di welfare e di diritti civili. Senza lo schermo e il fascino di Obama, pure il Partito democratico americano appare come un re nudo. Il socialismo europeo è un re nudo. Il renzismo è dentro la crisi verticale del riformismo. Dico a Pisapia: ma come si può evitare di guardare in faccia le politiche sociali di Renzi? Come si può dimenticare che il suo Pd ha portato a casa il programma di Berlusconi, a partire dall’art.18? 

Sta dicendo ’mai più governi di centrosinistra’. 

No. Dico che se la contesa è tra liberismo selvaggio e liberismo temperato alla fine vinceranno i Trump e il populismo reazionario. Se la bandiera impugnata in Europa è quella di qualche grammo di flessibilità, può vincere Salvini. 

Il Pd di Renzi è così diverso da quello di Bersani con cui vi siete alleati? 

Renzi certo non lo ha portato la cicogna, è nato dentro la crisi del Pd, che ha progressivamente smaltito il suo legame col mondo del lavoro subordinato, e da ultimo è frutto di quella coazione al naufragio che ha spinto il centrosinistra nelle secche del montismo. 

Ma voi vi siete alleati con il Pd dopo il governo Monti. 

Su un programma elettorale che sulla carta liquidava il montismo. Ma solo sulla carta. 

Prima parlava del No. C’è pure qualcuno di sinistra che ha votato Sì. È irrecuperabile? 

Non dico questo, nessuna preclusione. Dico che i compagni che hanno votato Sì hanno creduto alla retorica del ’caos’. Ma il caos c’è quando la sinistra rinuncia a essere speranza e cambiamento. Questo voto è una fotografia sociale: della disperazione del sud, della spoliazione di futuro dei giovani. Evocare il lupo mannaro del populismo è autoconsolatorio. 

Anche la sinistra Pd ha criticato la proposta Pisapia. Che sembra una manovra interna al Pd. Tant’è che è stata elogiata da Renzi in direzione. 

Non lo so. Ma una sinistra subalterna alla cultura renziana è una suggestione fantapolitica. E ai nostalgici del centrosinistra voglio ricordare che il programma sulla base del quale il Pd ha preso i voti è il contrario dei mille giorni di Renzi. 

Sel è alle ultime battute. Lei ne fa un bilancio molto amaro, «una forza ambiziosa ma ingenua». È andata così male? 

Sel è stata una bella anomalia, nata da tante storie che era riuscita a riarticolare una speranza che travalicava il nostro consenso elettorale. Ha interloquito con quello che sembrava l’autocritica del socialismo europeo. Che invece poi si è alleato con il blocco conservatore di Merkel. Noi abbiamo sempre avuto la capacità di giocare a tutto campo una partita politica, con la vicenda dei sindaci, dei governatori, anche con l’elezione dei vertici dello stato. Non siamo mai stati una ridotta minoritaria, senza mai rinunciare a essere un’alternativa. Ma siamo stati sconfitti. 

Alcuni dei sindaci, come Zedda e Pisapia, non verranno con voi. Neanche Cofferati. Perché perdete persone importanti per la vostra storia? 

Abbiamo perso Cofferati? Non credo. Si è una creatura appena nata. Tutti insieme abbiamo il dovere di rifondare un progetto di trasformazione. Le preoccupazioni, sia sulle pulsioni minoritarie che su quelle governiste, vanno sciolte in un dibattito limpido, plurale, che ha un tratto comune: l’alternatività al renzismo. 

Al renzismo e non al Pd in sé? 

Quello che sarà il Pd non lo sappiamo. Io di esperienze di governo ne ho fatte molte. È curioso che ora mi si appiccichi l’etichetta di estremista o di minoritario. 

Alle elezioni, forse non lontane, Si che dovrebbe fare? 

Evitare di discutere in astratto di alleanze. Radicarsi nella società italiana come un soggetto popolare e dell’innovazione, sapendo che le alleanze necessarie o corrispondono a un sentire largo e a interessi sociali limpidi oppure sono solo episodi della vita di palazzo. 

C’è chi dice che vi avviate verso un ’cartellino elettorale’ della sinistra radicale. 

Altra obiezione curiosa. Io e tanti insieme a me abbiamo combattuto battaglie contro il minoritarismo e l’autosufficienza di una certa sinistra radicale, contro sia la propensione al governismo ma anche quella al radicalismo. Ma per essere franco oggi il problema non è il radicalismo: mi pare un feticcio polemico. 

In ogni caso potreste tornare insieme, da alleati, con il Prc. 

Sì, ma è una discussione pretestuosa: conta la qualità del progetto politico. Rifondazione, lo dico con rispetto, mi pare poca cosa nella società italiana. Comunque le diaspore della sinistra sono state infinite, non si ricostruisce dai rancori ma mettendo al primo posto una sinistra utile al paese. 

Renzi sale al Quirinale. Cosa deve fare il futuro governo? 

Renzi deve uscire da Palazzo Chigi, serve un governo di scopo senza lui per una buona legge elettorale, proporzionale, e un’agenda circoscritta. Per andare al voto quanto prima. 

E il ruolo di Vendola, dopo il ’sabbatico’, quale sarà? 

Senza più l’incarico di segretario di partito, ma con tanta voglia di fare politica. Per quelli come me la discussione sulla politica, cioè sulla vita, è irrinunciabile. Mi piacerebbe dare una mano al nuovo soggetto, stando di lato.



Paolo Berdini scomodo soprattutto a Grillo

Roma. Ma l’assessore rimane al suo posto

Manifesto 8.12.2016, 23:59
A volere Paolo Berdini fuori dalla luminosa via verso lo Stadio della Roma, necessaria al Movimento 5 Stelle anche per aprire alleanze politiche e rapporti finanziari vitali in tempi di elezioni nazionali, sarebbe addirittura lo stesso Beppe Grillo. L’ordine di spingere alle dimissioni l’assessore all’urbanistica di Roma sarebbe stato impartito dall’alto alla sindaca Virginia Raggi, stando ai rumors di fonti qualificate di Palazzo Senatorio.
Un diktat talmente pesante che già qualcuno ieri dava per certo il rimpasto di giunta e avviata la ricerca del sostituto. Ma fare fuori Paolo Berdini, forse l’urbanista italiano più esperto del sacco edilizio di Roma, non è cosa semplice. E forse neppure troppo popolare, anche se il tornaconto populista potrebbe puntare, per rilanciare l’immagine di una giunta immobile da cinque mesi, sulla costruzione dello Stadio della Roma. Al quale però l’assessore Berdini non si oppone, anche se mantiene un secco no ai 650 mila metri cubi di cemento e acciaio dei tre grattacieli del business park di James Pallotta.
Ieri il nome più gettonato – e quindi già bruciato – era quello di Emanuele Montini, pentastellato esperto di urbanistica, vicino al vicesindaco Daniele Frongia, ma inviso a una parte del Movimento per il suo passato nella giunta Rutelli. Ma dopo qualche ora, pur nel silenzio totale che continua ad avvolgere le stanze della sindaca Virginia Raggi, si sono levate alcune voci di smentita. «È tutto a posto», ha assicurato il presidente pentastellato dell’Assemblea capitolina, Marcello De Vito. E il suo vice, Enrico Stefano: «A quanto mi risulta Paolo Berdini fa parte della giunta e sta continuando a lavorare». A margine della seduta, in Aula anche il capogruppo dei consiglieri a 5S, Paolo Ferrara, giura: «Se stiamo pensando a Emanuele Montini come successore di Berdini all’assessorato all’Urbanistica? Non mi risulta, stiamo lavorando. Se stiamo pensando già a un sostituto di Berdini? Assolutamente no».
Anche l’associazione costruttori edili di Roma e Provincia, si è schierata contro l’epurazione: «A noi serve un interlocutore stabile e competente e Paolo Berdini lo è», ha sottolineato il presidente dell’Acer, Edoardo Bianchi. «Come Acer – ha spiegato Bianchi – siamo preoccupati. Siamo pro Berdini, sia perché se ogni quattro mesi cambiamo assessore ricominciamo da zero, sia perché è un urbanista di navigata esperienza, con una visione dei problemi a tutto tondo. Non è l’ultimo arrivato, conosce e ha praticato questa materia. Lui aveva partecipato alla nostra assemblea e ci aveva proposto che da lì a breve avremmo discusso di un patto. Ora – conclude il presidente dell’Acer – ci chiediamo cosa succederà».
Chi lo conosce bene, come Sandro Simoncini, docente di urbanistica all’università la Sapienza di Roma e presidente di Sogeea Spa, spiega che «la delega urbanistica a Berdini ha costituito un importante segnale di discontinuità rispetto al passato» avendo «sempre condotto battaglie contro la cementificazione, con un occhio particolarmente attento alle periferie . Non ci si può certo sorprendere che possa avere avanzato dubbi sulle cubature del nuovo stadio di Tor di Valle o su quelle del progetto di dismissione dell’ex Fiera di Roma».

Il piano di Matteo: resa dei conti nel Pd Gentiloni o Padoan a Palazzo Chigi 

I sospetti su Franceschini, che avrebbe cercato una sponda con Berlusconi 

Francesco Bei 

È sera, l’auto corre veloce verso Pontassieve, Matteo Renzi ha bisogno di mettere una distanza fisica e mentale tra sé e la Capitale. «Mi tolgo dalla scena, vado via con un atto di dignità politica», dice.
Il governo è caduto in piedi, con 173 senatori che hanno votato la fiducia. Adesso è il momento di valutare la tattica più giusta per arrivare all’obiettivo, contare gli amici e difendersi dai nemici.
Perché il progetto ormai è delineato e non confligge con quel «percorso ordinato» che ha in mente il capo dello Stato: consentire la nascita di un nuovo governo che duri tutto il tempo necessario ad approvare una nuova legge elettorale, mettere in sicurezza i conti e le banche, non far sfigurare l’Italia al G7 che si terrà a maggio in Sicilia. Un esecutivo guidato da una personalità riconosciuta a livello internazionale. E ci sono, agli occhi del segretario Pd, vari profili sia interni che esterni al governo a cui affidare questo incarico. Un poker con le facce di Pier Carlo Padoan, Paolo Gentiloni, ma anche Giuliano Amato o Romano Prodi. Per i nomi è ancora presto, «non si possono bruciare le tappe», confida ai suoi il premier dimissionario.
Ma Renzi, per raggiungere la meta, ha bisogno che la crisi si svolga davanti al Paese, che vengano squadernate chiaramente le responsabilità di tutti i giocatori. A partire naturalmente dalle opposizioni. «Devo andare a vedere le loro carte», dice Renzi. Per questo le consultazioni che inizieranno oggi al Quirinale assumono un valore fondamentale. I grillini dovranno ammettere che per approvare una nuova legge elettorale, fosse anche l’estensione dell’Italicum al Senato, bisogna dar vita a un nuovo governo e aspettare la sentenza della Consulta a fine gennaio. Lo stesso dovrà ammettere Berlusconi, per fare una legge elettorale che vada bene a tutti non bastano poche settimane, secondo la previsione di Renzi «occorreranno sei mesi». Senza contare la data fatidica del 16 settembre, quando per i parlamentari di prima legislatura scatterà il diritto alla pensione. 
Insomma, il leader del Pd, prima di acconsentire alla nascita di un nuovo governo, ha la necessità che M5S, Salvini e Berlusconi si espongano. «Io non ho paura di votare – ripete in privato – e non posso certo farmi dire da questi che diamo vita di nuovo a un governo non eletto che tradisce il popolo. Devono essere loro, le opposizioni, a chiederci di far proseguire la legislatura».
E lui, Renzi, adesso cosa farà? Davvero non succederà a se stesso? L’interessato lo esclude in maniera categorica. «Il Renzi-Bis esiste solo se me lo chiedono Grillo e Salvini». Ovvero è un’ipotesi dell’irrealtà. Nelle conversazioni di queste ore con i fedelissimi è un altro il compito che si assegna. Si dedicherà in toto al partito. E farà piazza pulita dei suoi oppositori. Con un congresso, certo. Da fare il prima possibile, «subito», soprattutto in caso di accelerazione sul governo. Insomma, nella testa del segretario il nuovo esecutivo Padoan o Gentiloni durerà il tempo necessario, anche un anno se serve. «Nel frattempo io rifaccio la squadra al partito e preparo la ricandidatura alle politiche». L’ex premier è convinto che lo spazio ci sia, la sconfitta al referendum, invece di abbatterlo, sembra averlo galvanizzato. Parla di migliaia di mail arrivate al partito, di «tanta gente incazzata che ha voglia di battersi», di un boom di iscrizioni: «E’ come il popolo dei fax, come quando la gente piangeva dopo la caduta di Prodi». Un movimento di popolo quindi, non una questione interna al Pd e alle sue eterne lotte fratricide. Certo, oltre al ruolo giocato in pubblico e in campo aperto dalla minoranza bersaniana e da D’Alema, in queste ore Renzi sta considerando anche quello che starebbe svolgendo dietro le quinte il principale «stakeholder» del partito: Dario Franceschini. Con il quale dire che è calato il gelo è un eufemismo. Il segretario non si fida affatto, pensa che il ministro stia giocando in queste ore una sua partita personale. Cercando persino, così gli è stato riferito, la sponda di Berlusconi per pugnalare il leader del suo partito.
La cosa che più lo ha fatto imbestialire è il sospetto che Franceschini stia lavorando per farlo litigare con Mattarella. O per accreditare all’esterno l’immagine di un diverbio tra il segretario Pd e il capo dello Stato. Anche per regolare questi conti servirà il congresso prossimo venturo. 
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La rabbia di Bersani “Vuole un governissimo senza discuterne” 

I renziani temono di non avere i numeri per accelerare le urne L’ex segretario: se rimuove la sconfitta allora non ha capito nulla 

Carlo Bertini  Busiarda

Se non è ancora un tutti contro tutti ci manca poco: di congresso Pd nessuno parla, Bersani ritiene che non serve farlo subito, Cuperlo al rovescio, interpretando bene cosa va dicendo il leader nelle ultime ore. E cioè che se non si vota, lui lo farà questo congresso, spianando tutti quelli che lo osteggiano. Fuori dal Palazzo del Nazareno, gipponi della polizia presidiano il terreno, i tifosi del premier sbandierano cartelli e fischiano i compagni della minoranza come Davide Zoggia che arrivano alla spicciolata. Dentro, quando Renzi finisce di parlare e Orfini rinvia il dibattito sine die, la faccia basita di Walter Tocci che sale sul podio per dire la sua e viene rispedito al suo posto, è la raffigurazione plastica di cosa pensa la minoranza. Michele Emiliano già tuona da sfidante di Renzi, «sono senza parole: convocare centinaia di persone da tutta l’Italia per confezionare una scena del genere è una mortificazione della democrazia interna e della dignità del partito». Bersani, che pure aveva avuto un abboccamento tramite i rispettivi plenipotenziari col leader per concordare questo canovaccio del monologo, poi sbotta in un capannello con Epifani, Zoggia, Speranza. «Per carità di patria non facciamo polemiche, chiaro? Ma se dopo che hai preso una botta come questa non apri una riflessione nel partito, allora non hai capito cosa è capitato».
Nel salone della Direzione l’aria è irrespirabile, facce tese, qualcuno accenna battute e sorrisi, ma l’elaborazione del lutto è lontana da venire. «Ma come si fa ad andare da Mattarella a dire la posizione del Pd senza discuterla, senza parlare di cosa è successo, esattamente come ha fatto dopo le amministrative? Vabbè, ora dobbiamo mettere al sicuro il Paese», allarga le braccia l’ex leader. Che insieme ai suoi ha di nuovo la sensazione di esser stato raggirato, perché negli abboccamenti pre-riunione loro avevano chiesto che tra giovedì e lunedì fosse convocata un’altra Direzione per «discutere tra noi e invece ci rispondono ad libitum, che quando gli altri partiti ci avranno risposto sul governissimo ne parleremo». 
Insomma, la rabbia si mescola all’indignazione, fino al bollare come «una provocazione», parole di Davide Zoggia, l’approdo da proporre a Mattarella di un governissimo appoggiato da tutte le forze politiche, perché «l’urgenza è avere comunque un governo in grado di fare la legge elettorale». Ovvero, un governo con mandato pieno. Bersani vede per il paese la necessità di avere un governo «politico» retto da un dirigente del Pd, che oltre alla legge elettorale si carichi sulle spalle una manovra e poi vada al voto. Una posizione convergente di fatto con quella di Franceschini, pure se i due allo stato sono su sponde opposte. 
Sì perché allo stato il Pd si spacca in due ufficialmente: da una parte quelli della minoranza di Bersani e Speranza che derubricano il governissimo a pura tattica per perdere tempo e dare così a Renzi la possibilità di rientrare in gioco con le elezioni a marzo; e poi le altre correnti, quella dei «giovani turchi» di Orlando e Orfini, di Areadem di Franceschini, di Sinistra è Cambiamento di Martina e Damiano, che lanciano con Renzi il governissimo ma sanno che questa prospettiva non esiste. In mezzo, diverse aspirazioni inconfessate e un grosso punto interrogativo su cosa succederà al partito che esprime 400 parlamentari su 900 e passa.
Tra una settimana o più, quando il gioco si farà duro e toccherà decidere, «la soluzione della crisi passerà dai numeri del Pd», è la formula usata nel “giglio magico”. Tradotto, se Renzi avrà ancora saldi i numeri in Direzione e nei gruppi, si potrà spingere per accelerare verso le urne, con un Pd sulla linea di Grillo e Salvini, a fine marzo-aprile. Viceversa, se ci sarà la frana, si andrà verso un governo politico senza scadenza immediata, che faccia legge elettorale, leggi economiche e arrivi oltre il G7, per votare in estate-autunno. Questo è lo spartiacque.
Ma il sospetto si ingigantisce col passare delle ore, nel cerchio stretto del premier sono convinti che Franceschini stia servendo lo stesso piatto che servì ad Enrico Letta a suo tempo, lavorando per costruire le condizioni di un suo approdo a palazzo Chigi: cosa che gli uomini del ministro negano con forza sostenendo che non esiste questo sbocco perché senza il sostegno di Matteo non sarebbe praticabile. La partita è appena cominciata. 
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Sale la fiducia in Renzi Con un suo partito prenderebbe più del Pd 

Il 55% vuole votare subito, ma uno su tre è contrario 

Busiarda

Le dimissioni hanno fatto bene a Matteo Renzi. È la conclusione che salta all’occhio guardando i risultati del sondaggio che abbiamo realizzato dopo la netta vittoria del No al referendum. Il 59% degli intervistati ha gradito il passo indietro annunciato domenica sera e la fiducia nel premier dimissionario è cresciuta di due punti rispetto alla settimana precedente. 
Un risultato abbastanza sorprendente, se si considera che i «vincitori» del referendum, ovvero Luigi Di Maio e Beppe Grillo, hanno perso rispettivamente uno e tre punti in popolarità, mentre Salvini è rimasto stabile. L’unico vero vincitore a destra, in termini di immagine, risulta essere Silvio Berlusconi, che guadagna due punti (la sua base di partenza era però molto bassa). Ma c’è di più. Se Matteo Renzi decidesse di fondare un nuovo partito di centro sinistra, un intervistato su tre (33%) si è dichiarato disposto a votarlo. Un dato maggiore, se incrociato con le intenzioni di voto, rispetto a quanto prenderebbe il Pd (32,5%).
Il post crisi
Per quanto riguarda il dopo Renzi, invece, è stato chiesto a chi dovrebbe affidare Mattarella l’incarico di formare un nuovo governo. Ci sono tre nomi in evidenza, tra cui quello dello stesso leader Pd. In testa troviamo il presidente del Senato Pietro Grasso (16%) e il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan (16%), seguiti proprio da Matteo Renzi (14%). Nel centro destra e tra i grillini i nomi più gettonati sono il leader della Lega Nord Matteo Salvini (11%), il membro del direttorio Cinquestelle Luigi di Maio (11%) e il redivivo Silvio Berlusconi (7%). 
L’ipotesi di elezioni anticipate, poi, è caldeggiata dal 55% del totale degli intervistati. Più nel dettaglio, il 70% degli elettori di centrodestra e M5S vorrebbero andare subito alle urne. Quelli di centro sinistra, invece, vorrebbero che la legislatura continuasse fino alla naturale scadenza del 2018. 
Stabile il Pd
Un’altra sorpresa arriva osservando le intenzioni di voto, in cui il Pd risulta assolutamente stabile (come se nulla fosse accaduto), mentre il Movimento 5 Stelle scende di un punto e la Lega di mezzo punto. L’unico partito non di sinistra che guadagna (un punto in più) è Forza Italia, per il rientro nei propri ranghi (almeno in termini di immaginario) di Berlusconi.
Capitolo referendum. Più di metà degli intervistati (51%) si sono dichiarati soddisfatti del risultato, con particolare gradimento tra gli elettori di centrodestra e del Movimento 5 Stelle, che sono anche coloro che hanno apprezzato maggiormente le dimissioni televisive del presidente del Consiglio. Il sentimento dominante, correlato con i risultati del referendum, è stato positivo (gioia, soddisfazione, senso di speranza) per il 43% degli italiani. Viceversa circa un terzo degli intervistati ha provato uno stato d’animo negativo: senso di delusione, tristezza e sconfitta, talvolta declinati in rassegnazione. Lo stato d’animo positivo ha trovato il suo epicentro in coloro che normalmente votano per il centrodestra e il Movimento 5 Stelle. Mentre lo stato d’animo negativo ha pervaso coloro che votano per la sinistra e per il centrosinistra. Due Italie quindi: a destra i vincitori, a sinistra gli sconfitti.
Ma chi sono stati, secondo l’opinione pubblica, il vero vincitore e il vero sconfitto dopo il voto popolare? Uno solo risulta vincitore: il Movimento 5 Stelle, che appanna tutti gli altri. Ciononostante anche Lega Nord, Forza Italia e persino il Partito democratico compaiono come eventuali «partecipi» della vittoria. Quanto al vero perdente, gli intervistati ne hanno identificato uno soltanto: il Pd. Tutti gli altri partiti, in termini di sconfitta, sono «comparse laterali».
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Così nasce il partito di Matteo 

Marcello Sorgi  Busiarda

Il 7 dicembre verrà ricordato, non solo come il giorno delle dimissioni formali del premier e della fine del suo governo, ma anche del battesimo del Partito di Renzi. Un partito nuovo, nato domenica nelle urne del referendum in cui la riforma costituzionale è stata sconfitta, ma oltre tredici milioni di elettori hanno votato «Sì». Un partito che forse non sarà del 40 per cento, il numero magico che ha accompagnato fin qui la carriera del leader del Pd - dalla sconfitta alle primarie del 2012 contro Bersani, alla vittoria alle Europee del 2014, alla crisi di governo, provocata dall’exploit del «No» al 60 per cento -, ma secondo gli studiosi dei flussi elettorali può puntare tranquillamente al consenso di un italiano su quattro, una percentuale ragguardevole, per giocare nella nuova (o vecchia?) stagione che sta per aprirsi del ritorno al proporzionale e alla Repubblica partitocratica.

Renzi ha detto che i risultati referendari, a suo giudizio, hanno abbattuto la riforma, il Parlamento che l’aveva votata sei volte e il governo che conseguentemente va a casa. 
Ma non lui, che solo temporaneamente si fa da parte per prepararsi alle prossime elezioni, portando il bilancio dei suoi mille giorni, le riforme fatte e non fatte, il miglioramento delle condizioni del Paese, che magari avrebbe voluto più consistente ma considera non trascurabile. Va da sé che Renzi, anche se non lo ha detto esplicitamente, considera irrimediabile la frattura aperta dalla minoranza del suo partito schierandosi con il «No»; e per definire i contorni della sua iniziativa guarda al popolo del «Sì» e alla linea di fondo che ha accompagnato il suo lavoro a Palazzo Chigi, «più diritti e meno tasse»: sarà questo lo slogan con cui si ripresenterà presto davanti agli elettori. Guardando, a sinistra, non ai suoi avversari interni, che sdegnosamente non ha neppure citato, ma al progetto dell’ex sindaco di Milano Pisapia: mirato, tra molte difficoltà, a riunire in Italia le possibili frange di uno schieramento frastagliato, dentro e fuori il Pd, con la sola discriminante di volersi impegnare in una prospettiva riformista, e non nella serie infinita di vendette che animano il partito dalla sua fondazione. L’addio a D’Alema, Bersani, Speranza e agli ex comunisti del «No» non potrà certo essere stabilito nei termini di uno sfratto: ma è ormai consumato, e Renzi, sforzandosi di non mostrare rancore, ha fatto capire che non intende tornare indietro. Del resto, bastava guardare sotto la sede del Nazareno la folla degli iscritti divisa in due schiere che stavano per venire alle mani, per capire che la separazione tra le due anime del Pd, che dev’essere ancora formalizzata al vertice, nella base è già avvenuta.
Resta ancora da capire quali saranno le conseguenze della svolta di ieri sulla crisi. Renzi non parteciperà neppure alle consultazioni, al Presidente della Repubblica ha spiegato che è disposto ad appoggiare un nuovo governo, per il tempo breve necessario all’approvazione della nuova legge elettorale, solo se anche gli altri partiti di opposizione saranno disposti a condividerne la responsabilità. In altre parole, pur rispettoso delle prerogative del Capo dello Stato, si dichiara indisponibile a pagare il conto presentato dagli elettori a Bersani nel 2013, dopo che il centrodestra era passato all’opposizione e il peso delle scelte del governo Monti era ricaduto per intero sulle spalle del centrosinistra.
Il Quirinale avvia oggi le consultazioni: ma a parte Berlusconi, che non s’è pronunciato chiaramente, Salvini, Meloni e Grillo hanno già detto che vogliono il voto. Se non ci saranno novità, dunque, a Mattarella non resterà che decidere se mandare in Parlamento un governo del Presidente, tecnico o istituzionale, a cercarsi la maggioranza, oppure, a sorpresa, in assenza di alternative, chiedere a Renzi di fare il bis.
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I “turbo renziani” assediano la sede del partito Rivolta su internet: “Andatevene”
Dai social alla piazza è guerra civile nel Pd “Traditori”.“Squadristi” 
GIOVANNA CASADIO MILITANTI RENZIANI FRANCESCO BOCCIA DEPUTATO PD
ROMA. Rep
«A votareee», gridano, mentre entra Nico Stumpo, sinistra dem del No.
«Ele-zio-ni, ele-zio-ni». Quando arriva Gianni Cuperlo, sinistra del Sì.
«Fuori! Vattene!», urlano a Francesco Boccia, che ha detto che Renzi deve dimettersi da segretario.
Davanti al Nazareno piovono insulti all’indirizzo dei dirigenti della minoranza del partito. È lo specchio della guerra civile che da domenica notte attraversa tutto il Pd, nelle piazze, in tv, sui social. Una lacerazione che sarà difficile ricomporre. «Renzi è il nostro segretario » scrivono “i turborenziani” capitanati da Luciano Nobili, dirigente romano. Fanno fatica a riconoscersi, quando si ritrovano davanti al Nazareno, perché sono amici di chat non di sezione. «Però niente insulti, siamo qui solo a difesa di Renzi», assicura Nobili. In rete poi, si sa, accade quel che accade e le cose sfuggono di mano. Così accanto all’appello “andiamo a dare la nostra solidarietà a Matteo» che in quattro ore ha avuto oltre mille adesioni - lanciato da Silvio Marino, si affianca il volantino con le facce dei leader dem del No - D’Alema, Bersani, Speranza, Gotor, Emiliano - e la scritta: «Espulsione!».
Il clima è pesante e la rete amplifica lo strappo profondo che sta dividendo un Pd già in cattiva salute. Dentro, in direzione, nella breve comunicazione Renzi l’ha detto: «Dopo avere affrontato la crisi, il passaggio tra noi sarà molto duro». E si è tolto quel masso dalla scarpa: «So che nel Pd qualcuno ha festeggiato in modo prorompente e non elegantissimo alla vittoria del No. Lo stile è come il coraggio di don Abbondio...». E aggiunge che però verrà il giorno della rivincita e sarà lui a festeggiare. Il riferimento a D’Alema e alla gioia del comitato dalemiano per il No è del tutto voluto. Il dramma democratico lo può capire solo chi si è fatto un giro tra i militanti, dalla toscana Buggiano a Centocelle, da Reggio Emilia a Palermo. La delusione. Lo scoraggiamento. Lo spaesamento.
L’Unità, il giornale fondato da Gramsci, e ora diretto da Sergio Staino e Andrea Romano, ha pubblicato un paginone di lettere di rabbia («Bersani e compagni secondo me devono essere espulsi dal Pd», Giovanni Cardellini); di amarezza («Non demordiamo...», Henriette). In prima pagina ecco la scelta di «Sinibaldi Antonio (anni 75) che «dopo avere dedicato 30 anni al Partito, dal Pci al Pd», lascia «perché persone del mio partito remavano contro, e questo mi ha fatto molto male». L’ex segretario Bersani, Roberto Speranza, Guglielmo Epifani anche lui ex segretario, in direzione ieri entrano dalla porta carraia, in auto. Si evitano le contestazioni, c’è stato del resto un vero e proprio allarme che ha fatto chiedere al bersaniano Zoggia: «I vertici del partito ci garantiscano la possibilità di partecipare alla direzione » . Su Facebook insulti a Bersani evocano i manganelli. All’ex segretario, si rimprovera di tutto anche di avere riso in tv alle battute di Crozza. Chiara Geloni, ex direttrice della tv del Pd, bersaniana, è attaccata da Anna Leonardi, la dem pronta a candidarsi a Platì: ”Quella grassa che portava le birre e prendeva seimila euro...». Speranza ricorda l’altro Pd, quello dell’Anpi, dell’Arci, vicino alla Cgil che ha apprezzato la scelta della sinistra dem di presidiare il fronte del No al referendum costituzionale. Sotto il Nazareno, puntuali e agitati i simpatizzanti applaudono i renziani: «Ao’ c’è Davide, ce riconosce, Davide Sassòli... forse è Sàssoli ». «Non siamo fascio grillini»: spiega un contestatore alle telecamere. Una simpatizzante renziana sui dem del No: «Gente che smacchia le mucche».
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“Giusto ricostruire tutto, a cominciare dal Pd” 

ALESSANDRA LONGO GIANNI CUPERLO
L’INTERVISTA. GIANNI CUPERLO: “BISOGNA PRENDERE DI PETTO LA SOFFERENZA SOCIALE, BASTA MAGGIORANZE IMPROPRIE”
ROMA. Rep
Cuperlo, l’ex sindaco di Milano Giuliano Pisapia sostiene che c’è un popolo di sinistra che non aspetta altro che la nascita di «un campo aperto progressista», un soggetto politico alla sinistra del Pd. Interessato?
«Sono interessato a ricostruire un centrosinistra di governo che sia unito e competitivo. Penso, come Pisapia, che debba essere un campo largo, civico e alternativo alla destra in tutte le sue espressioni. Per riuscirci non basta solo il Pd ma senza il Pd la sinistra non vince».
Perdoni la cautela. Ma di “cantieri” annunciati è pieno il cimitero. Ci sono altri, a sinistra, che stanno lavorando. A febbraio c’è il congresso di Sinistra Italiana. Sono compagni da coinvolgere oppure il progetto di Pisapia è alternativo?
«Campo aperto vuol dire chiudere la stagione delle maggioranze improprie e prendere di petto sofferenza sociale e bisogni oggi senza voce. Soffro per una sinistra divisa perché so che è anche una sinistra più fragile e lontana dalle persone».
Civati ironizza: Pisapia vuol fare un ponte con Renzi ma Renzi il ponte - quello di Messina - ha già deciso di farlo con Alfano.
«Temo non sia tempo di battute o calembour ma della chiarezza tra noi. Con la destra si deve cercare la condivisione sulle regole ma se vogliamo condurre l’Italia fuori dalla crisi peggiore della nostra vita servono riforme e valori di un nuovo centrosinistra ».
Nel merito come si rapporterebbe questo centrosinistra con le riforme di Renzi, dal Jobs Act alla Buona Scuola? Non vi siete intesi prima perché dovrebbe essere possibile farlo ora?
«Potrei dirle che quelle due riforme io come alcuni altri non le ho votate ma il punto è capire che in quelle scelte c’erano anche elementi vissuti come ingiustizie da chi avremmo dovuto rappresentare. Per questo serve una svolta radicale, di contenuto e di classi dirigenti».
Credete di avere tempo per costruire questo ponte?
«Il tempo non è infinito perché c’è una destra nuova, reazionaria, che incalza e fonda il suo consenso sulla crisi delle democrazie. Ma anche questo dovrebbe spingere tanti a vedere il pericolo e a lavorare per una sinistra diversa».
Renzi è il segretario giusto per “cambiare verso“?
«Lui ha guidato questa stagione. Ha avuto intuizione e coraggio su alcuni temi ma ha anche lacerato il paese e diviso il suo campo. Al congresso servirà una alternativa radicale di impianto e concezione del partito. Sarà una sfida sul vero cambiamento possibile e necessario. Io lavorerò per quello».
Subito congresso Pd o subito elezioni?
«Congresso al più presto. Elezioni appena il Parlamento avrà licenziato le nuove leggi elettorali per Camera e Senato. Nessuno può immaginare di arrivare al 2018 ma mettiamo in sicurezza le istituzioni e le regole della rappresentanza».
Renzi, alla direzione del partito, dice che il confronto interno sarà molto duro. Non è un approccio da sconfitto.
«Serve un confronto vero che colga il buono di questi anni ma senza tacere i limiti e gli errori, compresi quelli che hanno portato alla sconfitta di domenica. Quando una parte così larga del Paese dice che è contro questo Pd la risposta non può essere arroccarsi ma capire dove, quando e perché si è spezzato un legame anche sentimentale, una fiducia che dobbiamo ricostruire. Non sarà facile ma altra via non c’è».

Dalla Boldrini a Sala la rete di Pisapia ma la sinistra si spacca 

Renzi: “Pone una questione reale, la affronteremo più avanti” Parte di Sel pronta a seguire l’ex sindaco. L’interesse dei prodiani

LAVINIA RIVARA Rep
ROMA. Da Virginio Merola a Beppe Sala, da Massimo Zedda a Gianni Cuperlo. E poi ancora Luigi de Magistris, Marco Doria, settori della Cgil, pezzi di Sel e di Sinistra italiana. Sono gli interlocutori del nuovo soggetto della sinistra lanciato Giuliano Pisapia. Alcuni impegnati a fargli da sponda dentro al Pd, altri coinvolti direttamente. Di certo Laura Boldrini, presidente della Camera eletta da un’area progressista, guarda con molto interesse alla proposta, anche perché ha sempre considerato innaturale la divisione profonda che attraversa quell’area. E non è un caso se la parola che ha usato di più nelle ultime settimane è stata “ricucire”.
Lo stesso Renzi riconosce che la questione posta dall’ex sindaco di Milano è «tutt’altro che banale: il tema c’è, chiaro e forte e lo riprenderemo più avanti». Cioè quando si decideranno le alleanze per le politiche. Certo all’indomani della vittoria del No e in piena crisi di governo, l’annuncio dell’ex sindaco di Milano in una intervista a
Repubblica
ha avuto un effetto dirompente: da un parte il consenso di sindaci del Pd, della minoranza cuperliana, dall’altra una sinistra che si divide tra un no secco, a volte aspro e una adesione frenata dalla dichiarata volontà di Pisapia di dialogare con Matteo Renzi.
«Credo che il modello Milano di sinistra unita sia l’unico possibile» dice Sala che, grazie a quel modello ereditato proprio da Pisapia, ha vinto le comunali. «Bisogna capire chi saranno i compagni di viaggio che si aggregheranno. Comunque è uno spazio assolutamente prezioso». Merola e Cuperlo si ritroveranno insieme a Pisapia il 19 dicembre, per una iniziativa voluta proprio dal sindaco bolognese nella sua città. Ci sarà anche il primo cittadino di Cagliari, Massimo Zedda, di Sel. E ci saranno i prodiani Sandra Zampa e Sandro Gozi: anche l’ex premier infatti sembra guardare con favore al tentativo di ricomporre il centrosinistra. Che, per Merola, non mette in discussione la leadership di Renzi. «Sono convinto – dice - che vada aperta una prospettiva nuova rispetto alla crisi della sinistra, di un campo progressista. Spero che si vada al voto presto con un partito unito, che non metta in discussione la guida di Matteo». In ogni caso la vittoria del No, sostiene, «non deve essere l’occasione per dividersi a sinistra». E chi può fare da ponte – aggiunge il cuperliano Andrea De Maria – è proprio «chi ha difeso il Sì da posizioni di sinistra. Su questa strada noi andiamo avanti, e non è un progetto contro Renzi». E infatti i renziani la prendono bene, anche se non si sbilanciano su quello stop agli Alfano e ai Verdini pronunciato dall’ex sindaco di Milano. «Non parliamo delle esclusioni ma delle inclusioni. Per noi conta un quadro di ricucitura del centrosinistra» apre il capogruppo alla Camera Ettore Rosato. Pisapia è un interlocutore importante». È a Rosy Bindi e ai bersaniani che la proposta non piace: temono che una sinistra forte fuori dal Pd «spinga il partito verso il centro». «Noi vogliamo costruire una alternativa a Renzi all’interno» spiega Miguel Gotor. Freddo anche Michele Emiliano, governatore della Puglia.
Chi si spacca invece è l’area della sinistra extra Pd. Nichi Vendola boccia il progetto, come Stefano Fassina e il capogruppo di Sel Loredana De Petris, che consiglia all’ex sindaco di «tornare a fare l’avvocato». Ma c’è tutta una parte di Sel che invece benedice Pisapia. Zedda in primis. Lui, con i senatori Dario Stefàno e Luciano Uras, non entrerà in Sinistra Italiana (il congresso costituente è previsto per febbraio). E un altro drappello di 10-12 deputati sarebbe pronto a staccarsi. Su questo fronte anche il vice presidente della Regione Lazio, Massimiliano Smeriglio, che ha organizzato per il 18 con Pisapia una iniziativa con sindaci (tra cui quelli di Latina e di Rieti) e amministratori, un migliaio di persone. Dice Smeriglio: «L’agenda Renzi non ha visto il disagio sociale e va archiviata. Ma a me non interessa rifare un piccolo partito comunista anni ‘50. E Giuliano per noi è un interlocutore privilegiato». ©RIPRODUZIONE RISERVATA

Il voto ha indicato una rotta, attrezziamoci a una lunga marcia
Il No deve essere interpretato come la volontà di riaffermare i principi della Costituzione, determinazione espressa con uno spirito tutt’altro che conservatoreGaetano Azzariti Manifesto 11.12.2016, 10:50
Abbiamo evitato il peggio. E ora? Nessuno si illuda, la strada è ancora in salita. Se non vogliamo cadere non possiamo star fermi, dobbiamo continuare ad arrampicarci. Soprattutto evitiamo d’inciampare. Non lasciamo che una nobile e non scontata vittoria della democrazia costituzionale, da noi così faticosamente costruita, sia ricondotta alle miserie della cronaca, per poi svanire nel nulla. Il rischio è di ritrovarci, tra qualche anno, ancora sotto assedio, di nuovo a difendere i principi costituzionali da un sistema politico che da tempo si mostra insofferente ai limiti che le leggi supreme pongono ai sovrani di turno.
I primi commenti, dopo il referendum, sono tutti orientati a valutare le ripercussioni politiche immediate; concentrati sulla crisi di governo, sui nuovi equilibri all’interno delle diverse forze politiche, sul futuro personale di Renzi. Molti partiti cercano di cavalcare la vittoria, per ottenere un successo fulmineo, andando alle elezioni. Persino il partito responsabile della débâcle referendaria tenta di risorgere dalle ceneri, mettendosi il più rapidamente possibile alle spalle la questione della costituzione e della sua riforma, per ripresentarsi agli elettori come se nulla fosse accaduto.
C’è un gran bisogno di qualcuno che guardi più in là se si vuol far sì che il referendum abbia un seguito non effimero. Una decisione popolare sulla costituzione deve intervenire sul corso della storia politica e sociale di questo paese che da oltre vent’anni arretra: può legittimare un cambiamento radicale. Arrestare il lungo regresso, è questo il compito ampio, ambizioso, ma ineludibile, che la cesura espressa dal voto popolare ci affida. Un’impresa che non può essere semplicemente delegata ai partiti, perlopiù screditati e compromessi; un obiettivo che non può essere barattato neppure con la vittoria alle prossime elezioni.
Sarebbe probabilmente una vittoria di Pirro, che condannerebbe comunque i vincitori ad operare entro un sistema istituzionale e culturale compromesso a tal punto da rendere assai probabile il fallimento. Inutile nasconderlo: dobbiamo attrezzarci ad una lunga marcia.
Per cambiare finalmente strada, muovendosi nella giusta direzione, bisogna anzitutto comprendere il senso profondo del voto che si è espresso contro la riforma Renzi-Boschi. Esso deve essere interpretato come la volontà di riaffermare i principi della costituzione, determinazione espressa con uno spirito tutt’altro che conservatore. Solo la retorica del potere poteva far credere che si era contro questa riforma perché soddisfatti dello stato di cose presenti. Nessuno ha difeso l’odierno bicameralismo agonico, né l’attuale regionalismo caotico, in caso s’è compreso che la riforma avrebbe peggiorato la crisi. Il rifiuto ha riguardato la pretesa di accentrare il potere, contrapponendo un’altra idea di costituzione. Un voto arrabbiato, in caso, ma non certo arreso. Tant’è che contro la riforma si sono espressi soprattutto i più giovani e i meno abbienti, da sempre il motore del cambiamento. Ma – si potrebbe replicare – anche i fautori della riforma intendevano «cambiare».
È vero: la riforma avrebbe indubbiamente prodotto una profonda trasformazione dell’assetto istituzionale definito in costituzione. Dunque, a ben vedere, si sono scontrati due diversi modi di intendere il rapporto tra governanti e governati, diverse visioni di democrazia costituzionale. Da un lato, coloro che ritengono essenziale semplificare la complessità sociale e rendere autoreferenziale il sistema politico e le istituzioni rappresentative (seguendo il modello classico della democrazia d’investitura), dall’altro chi crede si debba estendere la partecipazione e legittimare i conflitti sociali, rendendo le istituzioni rappresentative il luogo della composizione e del compromesso politico (secondo un diverso e altrettanto tipico modello di democrazia pluralista e conflittuale). La prima prospettiva è quella perseguita negli ultimi vent’anni non solo in Italia. La seconda ha vinto il referendum.
Entro questo secondo schema dovremmo dunque lavorare, non sarà facile dare forma e sostanza al modello indicato. D’altronde, non può pretendersi che il rifiuto del 4 dicembre si trasformi come d’incanto in un progetto costituzionale inverato. Sta a noi costruirlo. Un viatico però c’è, ed è la costituzione, che non a caso esprime proprio quel certo modello di democrazia pluralista e conflittuale che da tempo si vuole sterilizzare. Sono dunque i suoi principi che ci indicano la rotta. Tutti coloro che in questi anni si sono adoperati per favorire un cambiamento contro la costituzione avranno difficoltà a comprendere che essa possa oggi rappresentare la leva della trasformazione radicale della realtà. Ma non può invece stupire chi conosce la forza prescrittiva (“rivoluzionaria”) che i testi costituzionali hanno espresso nella storia. E che ancora possono dispiegare.
Certo per impegnarsi in questa direzione diventa necessario recuperare una solida cultura costituzionale. Essa sembrava essere scomparsa, affogata nella retorica del revisionismo costituzionale dominante. E invece l’abbiamo ritrovata – anche con qualche meraviglia – nei tanti incontri che hanno caratterizzato questa lunga, interminabile campagna referendaria. In fondo un merito grande dobbiamo riconoscerlo ai nostri improvvidi revisionisti. Grazie a loro di costituzione abbiamo discusso per mesi e il popolo ha risposto non solo nelle urne, ma anche nelle piazze. In giro per l’Italia sono sorti comitati, si sono impegnati in riflessioni, né facili né consuete, gruppi sociali, associazioni, singoli individui. Una riscoperta del valore della costituzione c’è stata.
Se questo è il quadro, qual è l’agenda? Quali, in concreto, le rivendicazioni possibili? Quali i cambiamenti pretesi? Non è difficile indicarli, anzi lo abbiamo già fatto in tutti i nostri incontri prima del referendum.
La riforma sepolta voleva ridurre ulteriormente l’autonomia e il ruolo costituzionale del parlamento a favore di una idea distorta e impropria di stabilità dei governi. Noi abbiamo rilevato la necessità di recuperare la centralità dell’organo della rappresentanza politica e quella delle persone concrete. Se veramente vogliamo invertire la rotta non rimane che mettere in pratica le misure necessarie:
una legge elettorale che permetta ai diversi soggetti sociali di trovare una rappresentanza istituzionale e che ricolleghi l’elettore all’eletto, senza cedere all’eccesso di frammentazione (ovverosia un sistema proporzionale uninominale con sbarramento);
il rafforzamento degli istituti di partecipazione diretta che si affianchino alle istituzioni di democrazia rappresentativa (non si tratta solo di ripensare i referendum, ma anche dare contenuto agli strumenti d’iniziativa popolare che devono essere discussi dagli organi della rappresentanza, come una semplice modifica dei regolamenti parlamentari potrebbe garantire);
nuove regole di discussione parlamentare (il che vuol dire riscrivere i regolamenti parlamentari, abbandonando le attuali logiche “decidenti”, per adottare nuovi principi che assicurino, da un lato, alcune prerogative della maggioranza, dall’altro, la possibilità delle opposizioni di partecipare a pieno titolo alla decisione garantendo l’esame approfondito delle proposte di tutti);
la limitazione dell’invasività del governo in parlamento (basterebbe impedire – sempre per via regolamentare – la possibilità di proporre maxiemendamenti e limitare l’abuso delle richieste di fiducia sui disegni di legge, si dovrebbe inoltre dare applicazione alla normativa e alla giurisprudenza costituzionale esistente per limitare la decretazione d’urgenza);
la ridefinizione dei ruoli costituzionali del legislativo e dell’esecutivo (con una riduzione del numero delle leggi grazie ad una legislazione solo di principio e una semplificazione della fase di attuazione della normativa da affidare ai governi);
la razionalizzazione dei rapporti tra Stato centrale e enti territoriali, in base ad una coerente scelta di sistema (che può portare alla abolizione del Senato e alla riorganizzazione della Conferenza Stato-autonomie, ovvero alla definizione di un equilibrato regionalismo solidale).
Questo è un primo incompleto elenco delle possibili innovazioni con riferimento all’organizzazione dello stato, quella su cui si voleva intervenire con la riforma sconfitta. Possibili cambiamenti in nome della costituzione, opposti a quelli che si volevano imporre contro di essa. Ma, il nostro riformismo radicale non può certo accontentarsi di riorganizzare lo Stato-apparato: non abbiamo mai creduto alla favola della costituzione fatta a fette. La prima parte sui diritti intangibile e buona di per sé, la seconda sui poteri liberamente modificabile e nella totale disponibilità del revisore. Un modo per sterilizzare la costituzione nel suo complesso.
Il rilancio della cultura costituzionale deve voler dire anche abbandonare queste mistificazioni. Una migliore organizzazione dei poteri serve in primo luogo per dare effettiva attuazione ai diritti costituzionali. È da qui che possiamo partire. Non sarà facile vista la drammatica assenza di una rappresentanza politica a sinistra. Ciò non toglie che ciascuno dovrà fare la sua parte ed assumersi le proprie responsabilità. Soprattutto a sinistra.

Sinistra, un’alternativa costituzionale

È un sollievo sentirsi ancora felicemente protetti e difesi dalla Costituzione. Con la soddisfazione dei giusti, ci sentiamo protagonisti della vittoria referendaria di domenica scorsa e guardiamo con maggiore fiducia al nostro futuro. Ci siamo schierati per il No non solo per salvaguardare la Costituzione, ma soprattutto per valorizzare la sua preziosa cultura giuridica, riproporre la sua sensibilità sociale, impegnarci ad attuarla compiutamente. Non un riflesso di retroguardia, dunque, ma uno slancio, una tensione che siamo sicuri aiuteranno il paese a diventare migliore.
Con un risultato squillante sono state sconfitte le oligarchie liberiste e le centrali finanziarie, strapazzato il conformismo interessato e gli istinti rassegnati. In quel voto si scorge soprattutto una rivolta sociale, che ha largamente oltrepassato bacini elettorali e indicazioni di partito. E’ stata l’Italia sfruttata, impoverita, precaria, deprivata a vincere il referendum. Un’Italia sfinita e sfiduciata che ha tuttavia trovato la forza di chiedere un cambiamento, quell’alternativa che gran parte della politica non sembra in grado di raccogliere e rappresentare né, tanto meno, di imprimere. Ed è esattamente a questa furente domanda che dovremmo provare a offrire un’adeguata risposta. Superando le incertezze e le cautele che ci imprigionano, abbandonando movenze e liturgie consunte e inutili, se non proprio impedienti.
Ci siamo serenamente ritrovati in una battaglia che non era scontato potesse vederci tanto uniti e motivati. Associazioni, partiti, sindacati, movimenti, intellettualità, civismo. Ed è innanzitutto per questa ragione che il nostro contributo è risultato così prezioso: per vincere il referendum, ma anche per dimostrare, intanto a noi stessi, quanto sia proficuo ed efficace lottare insieme.
Sentiamo pertanto l’esigenza di mettere a disposizione un’occasione d’incontro collettivo, dove poter valorizzare il protagonismo dei tanti che hanno partecipato alla battaglia referendaria, chiamando tutti noi, tutte noi a riflettere, discutere, ragionare, progettare. Riteniamo necessario un confronto politico che raccolga le nostre energie e le nostre passioni. Per provare a comporre nuovi percorsi da condividere, in grado di poter incidere sullo scenario politico, sociale e culturale che si sta delineando con la vittoria del No. E cominciando finalmente a costruire insieme quell’alternativa al neo-liberismo di cui il paese ha urgente bisogno.
Con lo stesso sentimento unitario con cui abbiamo lottato in questi ultimi mesi abbiamo promosso l’appuntamento di domenica prossima: un’assemblea libera e plurale, inclusiva e partecipata, in cui tutte le componenti, le soggettività, le singolarità possano manifestarsi ed esprimersi. Con la speranza che tutti i nostri No si trasformino presto in una “politica in comune”.

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