domenica 11 dicembre 2016

"Oltre il confine": la nuova Fondazione Feltrinelli, la storia della Rivoluzione russa e l'Europa


“Lavoro e cultura l’utopia possibile dell’uguaglianza” 

Il valore della lettura. La sinistra Suo padre. Intervista a Carlo Feltrinelli, che oggi inaugura la nuova sede della Fondazione

DARIO CRESTO-DINA Rep 13 12 2016
MILANO Andiamo a trovare i libri, suggerisce Carlo Feltrinelli mentre preme il tasto dell’ascensore. Bisogna scendere a meno due, dove fa freddo come dentro un laboratorio di crioterapia, se si vuole scoprire la scommessa della nuova Fondazione che porta il nome di Giangiacomo Feltrinelli e che apre oggi a Porta Volta. Nella Milano delle cinquecentesche mura spagnole, dove le bombe della seconda guerra mondiale avevano sepolto in un cratere di macerie un magazzino di legname della famiglia, c’è adesso una cascina lunga di vetro e cemento disegnata dagli architetti svizzeri Jacques Herzog e Pierre de Meuron che con la sua orizzontalità sfida l’arroganza dei grattacieli e custodisce un po’ dello spirito buono del Novecento. «Tante cose stanno nascendo dal basso», mi dice Carlo Feltrinelli. La politica o qualcosa che gli somiglia, la protesta, il lavoro,
perché no?, la cultura. Qui sotto ci sono 12 chilometri di archivi, un milione e mezzo di carteggi storici, 260 mila libri, 17 mila riviste, diecimila manifesti. Si respira, soprattutto, l’aria di un tempo che va scomparendo: la vecchia carta, le care copertine e il ferro degli scaffali retrattili i cui sipari si aprono ruotando senza sforzo un timone simile a quello delle navi. Siamo nell’anti-wikipedia o la sua alternativa. Carlo, 54 anni di incessante, timido movimento, mi guida poi al quinto piano. Fino alla sala di lettura. Dominata dal sole e dal drappo rosso della Comune di Parigi, resterà aperta ogni giorno dalle nove e trenta alle cinque e mezzo del pomeriggio con quaranta postazioni gratuite. Dal freddo i libri saliranno quassù, restituiti dal pianale di un montacarichi alla luce e alle mani dei lettori.
Che cos’è oggi un libro?
«Uno strumento fantastico di conoscenza dotato, qualcuno dirà purtroppo ma io dico per fortuna, di una sua fisicità. Leggere un libro è diventato un gesto rivoluzionario, significa rimanere soli con se stessi, fare fatica. Ma è anche un investimento per stare meglio al mondo».
Ma il mondo si è allargato, una volta sembrava che potessimo contenerlo in un pugno.
Oggi addentrarsi nelle sue foreste significa entrare in un labirinto di cambiamenti. Come intende trasformarsi la Fondazione che suo padre, assieme a Giuseppe Del Bo, aveva immaginato come un luogo dove raccogliere e studiare la storia delle lotte politiche e sociali per l’uguaglianza?
«È il tentativo di un nuovo inizio. La storia e la politica non saranno più le uniche matrici della fondazione, guarderemo soprattutto verso il futuro in una dimensione molto economica. La discontinuità è nei fatti, nella vita quotidiana di ciascuno di noi. Forse mai siamo stati così precari. Fatichiamo a tenere la barra dritta nella tensione permanente tra innovazione e tradizione. Qui si farà ricerca in quattro direzioni: il lavoro nell’era della rivoluzione digitale, la globalizzazione sostenibile, le nuove dinamiche di partecipazione politica, la cittadinanza europea. È inutile che aggiunga che vorremmo pensare soprattutto ai ragazzi che sono sprofondati in un vuoto di rappresentanza ».
Sul futuro, ammonisce il filosofo Salvatore Veca, pesa la dittatura del presente. Dove sta il varco, quell’utopia possibile che avete scelto come incipit?
«Restituire un senso di speranza condiviso, da soli non ne usciamo, siamo condannati all’immobilità. Abbiamo bisogno di aiutarci gli uni con gli altri come in un nuovo dopoguerra. L’Europa è percorsa da una ondata di fenomeni populisti che non sono certo nati in questo periodo, anzi, sono ben radicati nelle culture politiche di molti paesi, ma di recente hanno preso sembianze e ruolo inedito».
Che cosa la spaventa di più di ciò che ci circonda?
«Il fondamentalismo finanziario, per esempio. Il protezionismo cieco e l’esaltazione di un nazionalismo novecentesco, a tratti condito da accenni coloniali, che hanno un solo obiettivo: cavalcare la paura del diverso, chiudere le porte al dialogo, assecondare una cultura politica del tutto e subito».
Non crede che il populismo della politica non sia altro che lo specchio di una società in disgregazione?
«La politica affronta la complessità della società con metodi sbrigativi. Messaggi violenti, privi di reale contenuto, spesso contraddetti il giorno dopo e spesso dettati da contingenze elettorali che mai nessuno andrà a verificare, trovano il consenso di milioni di cittadini che sembrano non volere andare oltre. Si accontentano di un muro o di uno slogan per una rassicurazione effimera”.
Lei è ancora un uomo di sinistra?
«Resto fedele a un grappolo di principi, anche se sono rimasto senza partito. Forse il mio partito è qui dentro. Oggi la qualità della politica è preoccupante, prevale un leaderismo spinto, nessuno sguardo sistemico, nessuna profondità di vedute, nessuna voglia di fare tesoro degli errori e degli insegnamenti del passato».
Stiamo cercando di uscire da una crisi di governo dopo il no alla riforma costituzionale che ha spinto Renzi alle dimissioni. Come giudica l’esperienza renziana?
«A Renzi va riconosciuto il merito di avere impresso un ritmo diverso alla politica italiana e al centrosinistra. Forse è caduto per avere estremizzato il suo metodo di semplificazione. Ha concentrato solo su di sé un ruolo e un’epoca, direi che è rimasto vittima del narcisismo che accompagna questa stagione della politica ».
Ma non è che la politica incarna all’ennesima potenza l’ossessione generalizzata del selfie, l’immagine prima di ogni altra cosa come unica prova della propria esistenza?
«Non sono così presuntuoso da azzardare una risposta. Non so come sia possibile combinare una profondità di pensiero e di vedute con i mezzi di comunicazione che oggi consentono a milioni di persone di condividere un messaggio. Credo che questo parossismo della comunicazione e la schiavitù del consenso ci abbiano privato di una cultura della politica. L’immaturità politica ha prodotto uno stato generale di paranoia, da cui dobbiamo impegnarci a uscire. Qui vogliamo provare a misurarci anche con questa tempesta».
Chi è oggi l’editore?
«Uno che fa tanti mestieri diversi: il libraio, il barista, il ristoratore, il produttore televisivo. Non c’è altra strada per salvare i libri e i posti di lavoro».
Come editore qual è lo scrittore che le manca in catalogo?
«Mi sarebbe piaciuto pubblicare Roberto Bolaño».
Lei richiama alla responsabilità civile in un mondo fragile.
Ebbene, nella fragilità dell’editoria c’era bisogno di dividersi in due saloncini del libro distanti meno di cento chilometri l’uno dall’altro?
«Non se ne sentiva l’urgenza e la Feltrinelli lo ha dichiarato con il suo voto contrario. Infatti, saremo sia a Torino sia a Milano, auspicando che gli esiti siano tali da giustificare gli investimenti».
Che cosa resta tra queste mura di Giangiacomo Feltrinelli?
«Nei suoi confronti credo di avere fatto tutto ciò che dovevo fare. Ho scritto un libro su di lui, su di noi. Ho rimesso in fila tanti pezzi complicati e dolorosi della mia vita. Le idee e la genialità di mio padre sono qui. La sua inquietudine, soprattutto, sarà sempre qui».
Ma che cos’è l’inquietudine?
«L’ansia, la fame, la voglia di non accontentarsi». ©RIPRODUZIONE RISERVATA

Fare cultura a Milano, l'occasione e i rischi - Corriere.it

Milano, una cattedrale gotica per la Rivoluzione bolscevica 
Si inaugura martedì la nuova sede della Fondazione Feltrinelli: nel centenario dell’Ottobre, uno straordinario archivio di 120 mila documenti sarà digitalizzato e messo a disposizione del pubblico e dei ricercatori 

Anna Zafesova Busiarda 11 12 2016
La Russia è parte dell’Europa, o un mondo a parte? Una domanda che ha tormentato gli ultimi tre secoli di storia, e che continua a rimanere il perno della storia e dell’attualità dei rapporti tra Est e Ovest del continente. Nel centenario della Rivoluzione d’Ottobre, il progetto «Oltre il confine» della Fondazione Feltrinelli si propone di tornare alle origini della grande frattura tra Russia e Europa, per provare a ripartire da un 2017 in cui tanti equilibri si spostano e si rompono.
Non è un’iniziativa commemorativa, spiega il responsabile del progetto Giovanni Sanicola: «La rivoluzione bolscevica è interessante in quanto ha impattato la narrazione collettiva, cercheremo di capirne l’eredità nel contesto del rapporto tra Russia e Europa». Con l’ausilio di fondi e archivi unici in Italia e in Europa, già trasferiti nella nuova sede della Fondazione Feltrinelli a Milano che verrà inaugurata martedì: 120 mila documenti che nell’ambito della ricerca verranno digitalizzati e messi a disposizione del pubblico e dei ricercatori, libri, riviste, giornali, saggi, che rappresentano e indagano la storia delle rivoluzioni russe, dei vari movimenti di emancipazione di contadini e operai, di pensatori di fine ’800-inizio ’900. E al centro un gioiello tutto da scoprire: gli oltre 4 mila manifesti dell’epoca sovietica, molti veri capolavori di grafica, tutti capolavori della propaganda, che insieme alle 10 mila cartoline del periodo zarista e comunista sono una testimonianza di grande impatto del Secolo breve.
Si tratta di un’esperienza nuova anche per la Fondazione Feltrinelli, spiega il suo responsabile editoriale, David Bidussa: «Ci siamo occupati di storia, di economia, di ricerche sociali, non abbiamo mai affrontato i problemi del linguaggio e della sua costruzione». Con l’arrivo dell’archivio dei manifesti e delle cartoline, parte della leggendaria collezione di Alberto Sandretti, si cominciano a esplorare nuove discipline, anche per raggiungere un pubblico non solo di addetti ai lavori, con la grande mostra di grafica che si terrà nella Fondazione a ottobre-novembre 2017. Ma «Oltre il confine» non vuole essere solo un progetto di studio degli archivi, per quanto ricchi possano essere: è una ricerca che per i prossimi due anni si articolerà tra il mondo «fisico» - con conferenze e incontri - e virtuale, con piattaforme di dibattito aperte anche al largo pubblico, presenza sui social network, creazione di kit didattici, ebook e materiali messi in rete sul sito www.legranditrasformazioni.it, il progetto lanciato dalla Fondazione con l’anniversario della Prima guerra mondiale. 
I partner italiani e russi dell’iniziativa sono prestigiosi ed eterogenei, «abbiamo messo insieme persone e entità che di solito non si parlano e non si vogliono parlare», dice Bidussa. Perché i confini da superare sono più di uno: quello che la Russia ha cercato più volte di costruire per isolarsi dall’Europa, pur determinando da sempre la propria identità in un confronto con il continente di cui si sente parte, cercando un dialogo declinato a volte in forme conflittuali, a volte subalterne, ma anche il confine con cui l’Europa ha cercato di «contenere» la Russia. Il progetto di ricerca non vuole avere una ricaduta politica, ma è inevitabile fare i paralleli tra passato e presente, quando «finito il mito e l’antimito, rotti gli equilibri, stanno emergendo identità locali nuove e conflittuali». Fragili e quindi aggressive. La trasformazione delle identità nazionali è infatti una delle tre direzioni della ricerca, insieme all’economia e alla partecipazione politica, per dare una definizione all’idea dell’Europa. BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

Un luogo da abitare intellettualmente 
Mario Baudino  Busiarda 11 12 2016
Il segno architettonico è molto evidente, a ridosso di Porta Volta nell’area tra viale Pasubio e viale Crispi, con le sue guglie di vetro e cemento quasi neogotiche, gli spioventi a sesto acuto, la verticalità che culmina al quinto piano con la grande sala-lettura. La nuova sede della Fondazione Feltrinelli, che sarà inaugurata a Milano martedì (attesi il Presidente emerito Giorgio Napolitano e vari membri di quello che è stato il governo Renzi, ma al momento è difficile immaginare chi verrà), si propone come luogo di studio, archivio, biblioteca e soprattutto spazio per i cittadini e per le realtà più all’avanguardia, dall’arte alla ricerca nelle scienze sociali.
Fino al 17 propone cinque giorni di letture, incontri, proiezioni e spettacoli, a sottolineare la funzione di «second home» del palazzo costruito dagli architetti svizzeri Herzog & de Meuron: un luogo dove restare, studiare, discutere, insomma abitare intellettualmente, come ci spiega il segretario generale Massimiliano Tarantini. Mette insieme due idee europee: «È il nostro Beaubourg e nello stesso tempo il nostro Barbican, per quanto riguarda le arti performative». In altre parole, «un antidoto all’indifferenza».
Non sarà solo archivio, anche se la parte archivistica dedicata alla storia dei movimenti operai è da sempre il nerbo della Fondazione (col suo milione e mezzo di carte e i 270 mila volumi) ma semmai «un luogo di analisi e di confronto sulle trasformazioni sociali che trae alimento da questo patrimonio». Rivolto al legislatore e all’opinione pubblica: «Rendere comprensibile e utile la ricerca ai non specialisti è la nostra sfida». Ampia la rosa dei progetti, a partire dall’International Panel on Social Progress, con 500 esperti, presieduto da Amartya Sen.
Il più immediato è «Oltre il confine» (di cui parliamo in questa pagina) che trae ispirazione dal patrimonio documentale sul pensiero politico russo tra XIX e XX secolo, con particolare riguardo alle rivoluzioni del 1905 e a quelle del 1917.  BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

Un edificio troppo laconico
Architettura. Qualche considerazione in merito alla nuova fondazione Feltrinelli di Milano, realizzata dagli svizzeri Herzog&deMeuronMaurizio Giufrè Alias Manifesto 14.1.2017, 20:16
Inaugurata poco prima di Natale, la nuova sede della Fondazione Feltrinelli degli architetti svizzeri Herzog&De Meuron (con SD Partners) è l’ultima in ordine di tempo delle architetture «d’autore» concentrate intorno al quadrante Garibaldi-Repubblica. È quella che definisce il Piano Integrato d’Intervento di Porta Volta-Pasubio: un lungo lotto che sottende sul piano urbanistico le stesse finalità di quello più esteso e complesso prima richiamato e che consideriamo una tra le più impegnative manifestazioni di gentrificazione passata per riqualificazione urbana.
Dopo le fanfare e le lodi che hanno accolto l’inaugurazione della Fondazione, torniamo allo steccone cuspidato di via Pasubio per alcune brevi considerazioni sulla qualità delle idee e la misura delle decisioni che guidano l’urbanistica di Milano e la sua area metropolitana. Si può partire da un dato di realtà: per definirlo finito il lungo blocco (circa duecento metri) poggiato a terra su via Pasubio manca della sua prosecuzione di là del secondo casello daziario di Porta Volta.
Corpi speculari
È un pezzo dell’edificio importante, con gli stessi caratteri formali dell’altro costruito, seppure ridotto in lunghezza, ma senza il quale il progetto degli svizzeri è un’altra cosa. Il volume doveva essere realizzato a spese del Comune che solo nel 2014 si accorse di non avere le risorse economiche per compiere l’opera. Tentò di cedere la volumetria con una gara ma com’era prevedibile, andò deserta.
Il risultato di replicare l’effetto gateway building, ossia di segnare un punto d’ingresso alla città (o a una sua porzione) come Herzog&De Meuron fecero a Basilea con il complesso terziario e residenziale di St. Jakob Turm (2003-2008) è per il momento rinviato.
Per ammirare i due corpi speculari e simmetrici a ridosso di Porta Volta con i caselli ridotti a dimora di lillipuziani, non resta che accontentarsi di un render in notturno e per il momento attendere. Lo stesso riguarda la sistemazione esterna a giardino sul lato interno, dove sono ancora presenti i resti delle mura spagnole. Si dovrà aspettare la piantumazione degli alberi e la sistemazione delle superfici a terra per verificare se quella striscia di futura area verde sarà uno spazio pubblico e non una sorta di largo spartitraffico.
Nel percorrerla adesso, disadorna e liscia dal cemento, il pensiero non va certo al vivaio e al lungo tunnel del lavaggio auto che lì rendevano felici appassionati di piante e motori, ma più indietro ancora nel tempo, negli anni degli albori del moderno, durante i quali se i milanesi si fossero accontentati di simili ritagli di verde – come pure gli fu promesso all’epoca del piano regolatore del Beruto – non avrebbero mai visto il Parco Sempione.
Non è insensato chiedersi perché si decida per un monolite come quello di Herzog&De Meuron a sede della propria fondazione consegnandola come evento di valore urbanistico alla città.
Non è una questione di gusto né una ricerca delle ragioni che hanno portato alla «castità semantica» come solo gli svizzeri – ha ragione Stanislaus von Moos – sanno fare. Va però segnalato che non ci troviamo davanti a un progetto che commenta polemicamente il ridondante e caotico sfoggio linguistico che pullula intorno. Non siamo nella Michaelerplatz viennese e i due svizzeri non sono Loos. Interessa, casomai, evidenziare la spessa crosta di retorica che ormai accompagna ogni produzione corrente di architettura, che nasconde la realtà dei fatti, soprattutto quando questi investono la sfera pubblica coinvolgendo, come nel nostro caso, un’istituzione di alta cultura com’è la Fondazione Feltrinelli: operante come un qualsiasi altro soggetto immobiliare nella città.
Partiamo dall’inizio. Dalla relazione degli uffici comunali già eravamo a conoscenza che il progetto di riqualificazione degli svizzeri si sarebbe distinto per «l’alta qualità architettonica proposta sia nelle nuove architetture che reinterpretano la tradizione lombarda, sia nel disegno e nell’organizzazione degli spazi aperti». È evidente che qui la storia dell’architettura serva solo a legittimare. Senza perdersi nelle pagine del Reggiori o del Cantù, sarebbe bastato superare Chiasso o aver letto qualche capitolo di Natural History di Philip Ursprung (CCA-Lars Müller Publishers, 2002) per comprendere che quella sezione lunga e monotona di tetto a doppia falda, così alto e spiovente, proviene da un altro mondo, che nulla centra con la «tradizione lombarda». Si sarebbe chiarito che il repêchage dall’architettura alpina – in altre parole, dall’anonimo vernacolare engadinese – al quale si aggiunge il razionalismo di Aldo Rossi, arriva fino a noi con la sua carica «perturbante» e straniante – nell’accezione che ne ha dato Anthony Vidler (The Architectural Uncanny, 1992) – solo per sorprenderci.
L’essenziale e l’ordinario
Durante il percorso gli svizzeri hanno però perso la dimensione umana della prima e quella poetica del secondo. Dentro la stecca di Herzog&De Meuron c’è dell’altro, forse la cosa più importante per il committente e quella più propriamente svizzera: rendere quanto più essenziale e ordinario il progetto come cifra della sua «distinzione culturale». Inoltre, se la modernità ha definito i propri canoni di bellezza con la funzionalità e la normalità anche in relazione all’economicità, qualche dubbio sorge, non fosse altro nel pensare ai consumi per climatizzare tutta quella superficie trasparente.
In ogni caso, sono i principi della «Nuova Semplicità» – una volta modellata a proprio uso sia l’eredità di Max Bill sia il riduzionismo formale e tecnologico di Mies van der Rohe – che hanno permesso di far convergere interessi imprenditoriali con valori estetici, le finalità comunicative del brand (l’edificio ospiterà anche Microsof Italia) con la «forma forte» di una facciata ridotta a un laconico, pur leggibilissimo, piano di sezione. Herzog&De Meuron provano a tenere architettura e arte tra loro in equilibrio in un gioco che, da tempo, ha mostrato i suoi limiti. Un’eternità è trascorsa da quando inaugurarono il loro megastadio per i giochi olimpici di Beijing. Oggi ha ancora un senso costruire per «puritana civetteria» un’architettura che non avrebbero condiviso neppure i protagonisti della Glasarchitektur? Fino a quando dovremmo vedere ancora separati cultura e città dai diritti sociali dei cittadini?

Nessun commento: