lunedì 12 dicembre 2016

Paolo De Benedetti

Addio Paolo De Benedetti mio amico sapiente che non avrai mai riposo 
E' morto il grande teologo che amava gli animali e diceva “Non hanno voluto essere come Dio, e tuttavia hanno seguito l’uomo nella sua rovina e continuano a soffrire con lui e da lui”

ENZO BIANCHI Rep
«Isapienti non hanno riposo né in questo mondo né nel mondo che verrà». Questa frase del midrash non mi abbandona da quando, poco fa, mi hanno avvisato della morte di Paolo De Benedetti. Difficile attribuire solo al caso il fatto che io fossi all’Eremo di Camaldoli impegnato in un dialogo con il rabbino Piperno di Napoli a conclusione delle giornate del Colloquio ebraico- cristiano dedicate a “Ebrei e cristiani testimoni della Parola”: stavamo riflettendo sul nostro “impegno comune” nella lettura delle Scritture, ed ecco che mi comunicano che è venuto a mancare chi di questo impegno comune è stato infaticabile promotore e impareggiabile maestro. Paolo De Benedetti — zikhronò livrakha, «la sua memoria sia in benedizione» — è uno di quei sapienti che non ha conosciuto riposo nel sondare gli imperscrutabili disegni di Dio e che, se prestiamo fede al midrash, riposo non trova neanche ora che ha raggiunto “il mondo che verrà”.
Ma in quale delle sue poliedriche attività sarà ora impegnato colui che io considero il maestro che nella mia giovinezza ha maggiormente influenzato la mia lettura della Bibbia? De Benedetti — di famiglia ebraica, ma battezzato, per rispetto del padre verso la madre cattolica — è stato una delle menti più lucide dell’editoria italiana del secolo scorso. Alla Bompiani, dove lavorò con il conterraneo astigiano Sergio Boato e l’alessandrino Umberto Eco, diede vita alla collana La ricerca religiosa, facendo pubblicare, con intuizione geniale, le opere di Dietrich Bonhoeffer: in particolare Resistenza e resa, le lettere dal carcere del teologo luterano poi condannato a morte da Hitler, e il corposo saggio Etica. Il pubblico italiano poté così conoscere un pensatore che rimane ancora oggi fondamentale per comprendere il rapporto tra fede e religione, il significato della presenza dei credenti nella società postcristiana e la centralità del vangelo nell’orientare la sequela cristiana. Passato in Garzanti, Paolo De Benedetti lavorò assiduamente nella redazione dell’Enciclopedia Universale e nella “Garzantina” dedicata alle religioni, curando non solo le voci attinenti al giudaismo, ma anche la dialettica tra quest’ultimo e il pensiero cristiano. È di quegli anni anche la collaborazione con Dossena e Spagnol a Linus, dove i suoi nonsense, limerick e paradossi obbligavano a pensare, sempre con il sorriso sulle labbra: Paolo aveva in questo una capacità unica di produrre corti circuiti folgoranti stabilendo rapporti che, a prima vista inconcepibili, diventavano, dopo che lui li aveva istituiti, tanto chiarificanti da parere ovvi.
Ma la “condizione marrana” di Paolo De Benedetti — che lui stesso definiva come «una compresenza di categorie mentali e fedeltà ebraiche e di alcune convinzioni cristiane, in combinazione instabile ma irrinunciabile » — gli consentì di essere uno degli esperti di ebraismo più autorevoli e anche più ascoltati in ambito cristiano: non solo nelle università dove insegnava (dalla Facoltà teologica di Milano all’Università di Urbino, chiamato da Italo Mancini, all’Ateneo di Trento) ma nelle più svariate realtà sul terreno: parrocchie, gruppi di dialogo, seminari di giovani, trasmissioni radiofoniche... Basterebbe ripercorrere il numero monografico che la rivista Qol gli dedicò per i suoi ottant’anni per scoprire quanto il seme del pensiero di Paolo De Benedetti abbia fecondato realtà diversissime tra loro. Un universo di interessi e di passioni che emergeva ogni volta che godevo del dono di pranzare con lui, a Milano sotto una sukkà o in Comunità a Bose: erano parole condite di senso e di gusto, di fine umorismo e di sagace rilettura della sapienza antica.
Davvero la cultura italiana, non solo teologica, deve molto a De Benedetti per quanto ha saputo stimolare, incoraggiare, criticare, correggere nel pensiero contemporaneo attorno alla Scrittura sacra per ebrei e cristiani. Ma quest’uomo appassionato dell’incessante diatriba tra l’uomo e Dio aveva la freschezza del bambino nell’inserire in questo dialogo di sussurri e silenzi, di imperativi e interrogativi, la voce e il cuore degli animali, «che non hanno voluto essere come Dio, che non hanno nella loro natura la capacità della malizia» e che tuttavia «hanno seguito l’uomo nella sua rovina, e continuano a soffrire con lui e da lui». Così la “leggerezza profonda” che caratterizzava costantemente l’argomentare di De Benedetti trovava campo aperto e fertile nel suo amore per gli animali, ai quali — cani e gatti in particolare — ha dedicato pagine di intensa spiritualità, immaginandoseli accanto in paradiso.
Anche ora il sapiente che è stato Paolo De Benedetti non ha riposo e proprio in questo momento vorrei chiudere questo ricordo con le parole che mi lasciò nell’ultimo incontro poche settimane fa. Riprendendo ancora una volta una frase di rabbi Tarfon che gli era particolarmente cara — «Non sta a te compiere l’opera, ma non sei libero di sottrartene» — mi disse: «Usiamo questo come strumento per tutte le nostre attività, non abbiamo la pretesa di finire quello che cominciamo, sempre che siano inizi di qualcosa di positivo… Non abbiamo la pretesa di finire quello che iniziamo, però io so, non essendo libero di sottrarmene, che Dio ha creato ciascuno di noi dandoci, tra le tante cose, anche delle ispirazioni, che restano e non giungono a compimento fino al mondo che verrà… E non dimentichiamo però che quando Dio ci chiamerà, lo farà con un bacio». L’opera non è compiuta, ma quel bacio è arrivato.
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De Benedetti, fedeltà ebraiche e convinzioni cristiane 
Biblista e studioso di giudaismo, è morto ad Asti a 89 anni: un alfiere dell’ecumenismo 

Bruno Quaranta  Busiarda
«I giorni del mondo chi potrà contarli?» domanda Siracide, un libro biblico. Ieri, ad Asti, dov’era nato nel 1927, è scomparso ottantanovenne Paolo De Benedetti, già docente di Giudaismo a Milano e di Antico testamento a Urbino e a Trento, tra i curatori dell’Enciclopedia Europea Garzanti, un alfiere dell’ecumenismo (correvano gli Anni Sessanta quando introdusse in Italia con Italo Mancini il Bonhoeffer di Resistenza e resa), non a caso in sintonia con un altro piemontese quale Carlo Maria Martini.
Non esitava a definirsi un «marrano», Paolo De Benedetti, che ricevette il battesimo a dieci anni. Ma sempre oscillando tra fedeltà ebraiche (ebreo era il padre) e convinzioni cristiane, considerate «egualmente irrinunciabili». 
Una volta, a Bose, a tavola con il priore Enzo Bianchi, fu fatto notare a De Benedetti che Giovanni Paolo II aveva mostrato una speciale considerazione verso i figli di Sara e di Abramo chiamandoli nella Sinagoga di Roma «fratelli maggiori». Con la sua voce metallica, quasi stridula, sfarinò ogni eventuale lusinga: «Di solito i fratelli minori divorano i fratelli maggiori».
Asti cardinale nell’esistenza di Paolo De Benedetti, che vi faceva ritorno appena possibile, dove lo aspettava la sorella Maria, la sua ancella: «Nella frazione di Casabianca», era solito ricordare, «la mia famiglia giunse a fine Ottocento, da allora mai abbandonandola». Di Pasqua in Pasqua rinnovando l’augurio: «Un altr’anno a Gerusalemme».
Tra i numerosi libri che custodiscono la sapienza di Paolo De Benedetti, Quale Dio? e Introduzione al giudaismo (entrambi per Morcelliana), Ciò che tarda avverrà e E l’asina disse… (per Qiqajon), Il paradiso delle piccole cose (Imprimatur), un dialogo a cura di Piero Mariani Cerati e Luigi Rigazzi (con la prefazione di Umberto Eco: «A noi Paolo insegna il segreto nome di Dio»).
Quale il Dio di De Benedetti? «Noi cerchiamo», spiegava, «un Dio che non meni vanto di questo mondo così infelice, noi abbiamo bisogno di cambiare Dio per conservarlo (e perché lui conservi noi). Forse ciò vuol dire soltanto cambiare il nostro pensare Dio. O forse no?». Di interrogazione in interrogazione. Non a caso era l’Ecclesiaste il suo libro, il libro «di chi non riesce a credere in maniera tranquilla».
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Una mente enciclopedica
Ritratti. Paolo De Benedetti è morto domenica all'età di 89 anni. Con Bompiani ha diretto la collana Studi Religiosi e curò l'Almanacco. Con lo pseudonimo collettivo «I Wutki» era tra i creatori di nonsense di LinusGianandrea Piccioli Manifesto 13.12.2016, 18:16
De Benedetti è stato un grande dell’editoria italiana: cominciò alla Bompiani, ai tempi del Dizionario delle opere e dei personaggi, e, negli anni del Concilio, sempre in Bompiani ideò e diresse la Collana di Studi Religiosi, pubblicando in prima traduzione italiana le Lettere dal carcere e l’Etica di Dietrich Bonhoeffer, l’ultimo libro di Karl Barth, Introduzione alla teologia evangelica, e altri testi fondamentali della miglior teologia novecentesca.
Curò anche numeri del glorioso Almanacco. Era la Bompiani di Valentino, naturalmente, ma anche di Eco, Franco Quadri, Paci, Giampaolo Dossena…
Dalla Bompiani passò poi in Garzanti, dove, fra gli altri, erano presenti, a vario titolo, Geymonat e Andrea Bonomi, Piero Gelli e Giovanni Raboni, Attilio Bertolucci e Gianni Vattimo, Furio Jesi e Giorgio Cusatelli… Qui fu tra i direttori dell’Enciclopedia europea, e coordinatore dell’ultimo volume, una borgesiana Bibliografia universale, dove si fecero le ossa molti giovani destinati poi a ricoprire importanti ruoli nell’editoria o nella cultura italiane, da Antonella Tarpino ad Aurelio Mottola ad Alessandro Baricco.
Contemporaneamente, insieme con Giampaolo Dossena e Mario Spagnol, sotto lo pseudonimo collettivo «I Wutki», De Benedetti collaborava a Linus: i Wutki erano inesausti creatori di nonsense e organizzavano concorsi tra i lettori della mitica rivista, allora diretta da Oreste Del Buono per la Milano Libri dei Gandini.
Il nonsense, su cui De Benedetti pubblicò un fondamentale saggio in un Almanacco Bompiani, rispondeva anche a un suo modo profondo e sorridente di stabilire nessi impensabili e di creare logiche apparentemente anomale ma preziose per comprendere più a fondo la realtà, sia la più evidente sia la più nascosta. Ma PDB, come veniva chiamato nell’ambiente editoriale, così come Del Buono era OdB, era anche infaticabile scopritore e suggeritore di titoli, specie di cultura ebraica.
Perché De Benedetti, di madre cristiana e padre ebreo, è stato anche un teologo che ha edificato ponti tra ebraismo e cristianesimo, riscoprendo, fuori da tutti gli schemi, il giudeo-cristianesimo, praticando così e favorendo una lettura eccentrica e vivificante della tradizione religiosa.
Fu per decenni presidente e anima culturale di Biblia, Associazione laica di cultura biblica; e della Bibbia fu lettore sensibile e originale con traduzioni insolite e spiazzanti, sempre aperte a un senso ulteriore: la tradizione rabbinica parla di settanta possibili sensi del testo sacro, De Benedetti diceva che ce n’è sempre un settantunesimo, perché ogni uomo ha il suo da scoprire e impedirglielo è un impoverimento di tutti, per questo con la morte di un singolo muore un mondo.
Collaborò con le edizioni Paoline e col cardinale Martini, insegnò alla Facoltà teologica di Milano e alle università di Urbino e Trento. Si considerava pigro, era tutto un levare, come si diceva nei vecchi manuali di solfeggio, ma per costruire.
La sua bibliografia, Fare libri, curata da Agnese Cini, edita da Morcelliana, presso cui De Benedetti ha pubblicato quasi tutti i suoi libri, è un volume di quasi trecento pagine.
Negli ultimi anni aveva sviluppato una personalissima «teologia degli animali» (così anche il titolo di un suo scritto) e delle cose minime: citava spesso la splendida novella di Pirandello, Canta l’epistola.
Credeva che, al momento di lasciare la vita, quel Dio con cui lui pensava si potesse discutere, interloquire e magari litigare, gli si sarebbe presentato come un grande cane bianco e gli avrebbe leccato il naso.

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