mercoledì 7 dicembre 2016

Per una sinistra nazionale e popolare diciamo subito No alla sinistra pisapia



Sinistra pisapia, sinistra castellina e sinistra fratoianna sono tre varianti dello stesso schema politico centrosinistro: una più liberal e dirittumanista, l'altra più socialdemocratica, l'altra ancora più libertaria e postmoderna.

In tutti i casi il senso è lo stesso: raccogliere bisogni, speranze e voti a sinistra per portarli - ora o domani - al PD, con Renzi o possibilmente senza di lui ma con quelli che c'erano prima e lo hanno allevato.
Si tratta sempre della stessa linea catastrofica che ci ha ridotti alla'insignificanza. Perché con la scusa di scegliere "il male minore" contro il "fascismo berlusconiano" e adesso contro il "populismo", ci ha obbligati nel corso di un ventennio a farci portatori d'acqua di politiche sbagliate e antipopolari. Politiche che hanno accresciuto le disuguaglianze sociali e i rischi di guerra, finché gli stessi ceti che dicevamo di voler difedere ci hanno voltato le spalle con un pernacchio avvicinandosi a Grillo o persino alle destre e ora nemmeno ci degnano di uno sguardo.
Adesso, scampato il pericolo dell'usurpatore maggioritario Renzi, il ceto politico responsabile di mille sconfitte - Pisapia, lo stato maggiore del Manifesto, le due o duemila anime di SEL, i transfughi fassini del PD, i reduci di un'interminabile rivoluzione sessantottina immaginaria - vorrebbe riproporsi per completare l'opera. Diciamo anche a loro un inequivocabile No.
Oppure volete ricominciare da capo la giostra, rimuovendo il fatto che Renzi non è altro che la conseguenza dei governi di centrosinistra?
Dove c'è puzza di SEL, lì c'è già la destra. Dobbiamo unire le sinistre vere, non unirci con le destre. Dobbiamo rifarci una verginità, non "governare" processi più grandi e più forti di noi, processi che ci piegherebbero in un batter d'occhio.
Chi dà false speranze e prospetta conigli che escono dal cilindro e ci salvano è un avversario politico. Solo dopo aver ricostruito la nostra credibilità attraverso la coerenza - solo dopo un lavoro ventennale nel vivo della società ed esserci rafforzati tornando ad essere un punto di riferimento per larghe masse - potremo porci il problema del "governo".
Altro che settarismo!
Proprio per essere nazionali e popolari domani, nostro dovere è l'intransigenza assoluta oggi, in una fase di ritirata straegica nella quale ogni compromesso, dati i rapporti di forza, sarebbe un compromesso al ribasso e un pannicello caldo per la sofferenza dei più deboli. [SGA].


L'ex sindaco di Milano: "Lancio Campo Progressista, un'idea per arrivare al governo"



Il leader Pd accerchiato Scontro con Franceschini sulla data delle elezioni Bersani: non sono un traditore. Oggi la Direzione Carlo Bertini  Busiarda
Di tutte le mosse, forse una rispecchia di più lo spirito dello scontro con le fazioni dei dissidenti e la vis pugnace di Renzi: far sapere che se si andrà al voto in tempi brevi, come prevede sempre il piano A, cioè a fine marzo, non ci sarà spazio per congresso, gazebo e primarie. Dunque il leader resterà lui, come prevede la norma dello statuto che identifica la figura di segretario con quella di candidato premier. «Non ci sarebbe tempo per il congresso anticipato in una situazione di crisi come questa», spiegano i suoi uomini. Il che vuol dire che le liste elettorali le scriverà Renzi con la sua maggioranza congressuale, «tenendo fuori tutti i traditori, dei compagni che ci hanno fatto la campagna contro qui non entrerà più nessuno», garantisce uno del cerchio magico. Bersani non ci sta: «Chi ha votato No non si senta traditore del Pd».
Ma come si farà questo blitz? Con un voto che conferisce all’Assemblea nazionale del Pd il potere di approvare le liste delle candidature, senza convocare i congressi provinciali, nazionale, nè le primarie per la premiership. Azzerando tutte le aspettative di visibilità dei vari capicorrente, possibili candidati se pure di minoranza. Del resto, il film di un Renzi accerchiato da mille tentacoli che cercano di avvolgerlo per frenarne i bollenti spiriti va in scena fin dalla mattina. Nella parte della piovra gigante Dario Franceschini, con il quale Renzi ingaggia una lotta muscolare a tattica, con Ettore Rosato e Lorenzo Guerini nelle vesti di mediatori. «Guarda Dario, che nei gruppi parlamentari è un conto, ma in Direzione Matteo ha la maggioranza da solo e quindi bisogna accordarsi», fanno notare i fedelissimi. Gli stessi che dicono ai renziani che «Matteo deve superare queste paranoie, Dario non vuole andare a Palazzo Chigi...». Alla fine il leader della corrente che al Senato dispone di trenta e passa voti in grado di bloccare tutto, stretto interlocutore del capo dello Stato, si convince a non mettersi di traverso: la tregua viene siglata con la scelta di concedere ai frenatori la disponibilità ad un governo istituzionale con dentro tutti o una buona parte di quelli, come Berlusconi, Salvini e Grillo, pronti a rosolare Renzi chiedendo urne anticipate e urlando che il Pd vuole tenersi le poltrone. Un’apertura che serve a gettare la palla tra le gambe di Berlusconi, ma pure a sedare gli animi di un Pd lacerato: dove nessuno smania per andare al voto, nè la sinistra leale, nè i turchi, nè i mattarelliani, tantomeno quelli della sinistra di Bersani.
Le correnti si riuniscono e tutti temono un altro frontale con il popolo italiano, ma si accodano a Renzi, tranne Bersani e compagni, perché non hanno alternative e altri leader in grado di scalzare Matteo dal podio del partito. «Si deve votare dopo aver fatto una legge elettorale in Parlamento», dicono in coro Damiano, Fioroni, Speranza. Ma Renzi sospetta di tutti, teme che il suo piano A sia travolto da una manovra a tenaglia di Franceschini con la sponda del Colle. Non si fida di un governo che nasca senza orizzonte temporale. Anche se oggi in Direzione si voterà per un governo istituzionale, dato che le opposizioni già hanno detto no, si andrà alle urne anticipate. Quando? Due mesi dopo la pronuncia della Consulta, nella testa del premier c’è già una data, il 26 marzo. Ma i renziani temono che possa vincere Franceschini: se Mattarella non procederà con lo scioglimento delle Camere a fine gennaio, se il Parlamento dovesse procedere a uniformare i sistemi elettorali non limitandosi a recepire le sentenze della Consulta, allora si andrebbe a votare in estate o in autunno, come chiede Bersani, «una cosa che per Matteo è il male assoluto...». Ma che centinaia di parlamentari agognano, scattando per quelli di prima nomina il diritto alla pensione il 1 ottobre 2017...

Caccia al consenso dei nuovi poveri Così Grillo spinge i 5 Stelle a destra Ma Di Maio nega la possibilità di accordi elettorali con Lega e Forza Italia Andrea Malaguti  Busiarda
Barra a destra. Beppe Grillo è un uomo perfettamente adeguato al disordine che gli sta attorno. Lo capisce più degli altri e ci si trova decisamente a suo agio. Non è un caso se nel secondo giorno del velenoso dibattito sulla vittoria del No, decide di aprire il suo blog con una analisi sul Vecchio Continente prodotta dal «Social Justice Index»: «118 milioni di europei sulle soglie della povertà». Il tema è destinato a diventare il tormentone della campagna elettorale.
Che cosa dice il Social Justice Index? Questo: «È in costante crescita il numero di cittadini europei che, nonostante abbiano un impiego a tempo pieno, sono a rischio povertà. Specie nell’Europa del Sud». Per vivere non è più sufficiente trovare un impiego. E se i datori di lavoro impongono salari sempre più bassi è perché le norme lo consentono. Il sistema ha messo la retromarcia.
Dibattito che dovrebbe essere particolarmente caro alla sinistra europeista e che invece è diventato territorio di pascolo delle destre sovraniste, in un ribaltamento insensato che Grillo ha intuito con largo anticipo. Se hai capito il problema non è detto che le tue ricette per risolverlo siano giuste, ma per lo meno puoi recapitare un messaggio chiaro agli elettori: io vi ho visto. La Brexit e l’elezione di Donald Trump sono nate così.
E così si spiegano, in parte, anche le dichiarazioni, poi rettificate, del pentastellato bolognese Max Bugani, che aveva alluso a un’alleanza parlamentare con Lega Nord e Forza Italia, o quantomeno alla richiesta di un appoggio esterno, per dare una spallata definitiva al sistema e andare al voto di gran carriera. Anche Luigi Di Maio si è preso la briga di negare l’eventualità - «non ci alleiamo con nessuno» - però Bugani non è un 5 Stelle qualunque, ma uno degli uomini più vicini a Davide Casaleggio e forse non ne interpreta letteralmente il pensiero, ma certamente ne conosce gli umori. Sin dall’inizio il Movimento cerca una complicata sintesi tra la spinta alla globalizzazione imposta da quelle tecnologie che sono alla base del suo successo e la possibilità di rivendicare il diritto alla diversità, con il rafforzamento di spinte di tipo particolaristico.
Il livello teorico è complesso, quello pratico un po’ meno: le fasce sociali più deboli si sentono più tutelate a destra. Chiariamo che siamo là anche noi. Come farlo senza perdere tutta quella parte di sostenitori che alle origini del movimento erano stati attratti dalle battaglie sull’acqua pubblica o sul consumo del suolo (vale a dire sinistra ultra classica)? Ad esempio mettendo l’energia al primo punto del nascituro programma. Un tocco verde da Austria Felix su un quadro identitario indefinibile. Dopo tre anni in Parlamento non è ancora chiaro che cosa voglia il M5S dal futuro. Europa, euro, immigrazione, difesa, relazioni internazionali. Buio totale. Ma per governare sarà necessario dirlo.
Il post di Grillo si conclude ricordando che: «In Grecia, Italia, Spagna e Portogallo un bambino su tre è a rischio di povertà». Sotto testo: voi da che parte state, con i buoni o con i cattivi? E se la riga successiva non dicesse: «Fai una donazione a Rousseau», cioè al sito, sarebbe tutto un filo più elegante. Ma siamo ai dettagli, perché dalla parte opposta c’è il Pd, ovvero un partito abituato a ringraziare senza gratitudine e a soffermarsi sui problemi degli altri con uno sguardo tutto intelletto e niente sentimento. Giocare con loro è facile. E i 5 Stelle si limiteranno ad aspettare la fine della direzione di oggi prima di riunirsi per imbastire una strategia di riflesso. Una strategia che, al di là dei proclami, sarebbe più facile da preparare se le urne si aprissero dopo l’estate. Ipotesi non peregrina considerato che il 15 settembre del 2017 scatterebbe la pensione per 608 onorevoli e senatori, vale a dire i due terzi del parlamento. Così se anche Berlusconi, Salvini e Renzi, che nel Palazzo non ci sono, volessero il voto subito, come lo spiegherebbero ai loro peones?
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Il premier mette i paletti “Tutti dentro o non ci sto non ho paura delle elezioni” Mentre prepara gli scatoloni, il leader lancia frecciate a Bersani: “Pur di mandare a casa me, accetta di ufficializzare Verdini”GOFFREDO DE MARCHIS Rep
ROMA. Se ingoia lo stop del Quirinale e l’ipotesi di «un governo di responsabilità nazionale», come lo chiama lui, Matteo Renzi lo fa marcando subito le distanze e lasciando intuire quale sarà il suo atteggiamento nei confronti del successore, sempre che ne venga fuori uno. Mentre fa gli scatoloni, nello studio al primo piano di Palazzo Chigi, tra una telefonata di Hollande e una di Obama, il premier prepara la direzione del Pd di questo pomeriggio, le dimissioni da presidente del Consiglio che consegnerà a Sergio Mattarella «oggi o domani», ma soprattutto il futuro. «Il 60 per cento del No viene interpretato come un voto politico, giusto? Contro di me, contro il mio carattere, contro i nostri provvedimenti. Allora anch’io posso considerare politico il 40 per cento del Sì. Questo me lo concederanno», dice ai suoi collaboratori. «Non me lo intesto tutto, per carità. Non saranno 13 milioni di voti miei, è ovvio. Ma saranno 10-11-12? Lo vedremo ». Lo vedremo presto stando al film che Renzi ha in testa. «Il titolo giusto sui giornali non è “Renzi vuole le elezioni anticipate”, ma “Renzi non ha paura delle elezioni anticipate”», spiega ai suoi interloutori. E questa dovrebbe essere la linea sposata dal Partito democratico. «Caro Pd...». Comincia come una lettera il discorso che Renzi vuole fare alla direzione di oggi. «Dobbiamo decidere tra due soluzioni. Lavorare per la nascita di un governo di responsabilità istituzionale. C’è da fare l’anniversario dei trattati di Roma a marzo, il G7 a maggio, l’ingresso nel consiglio di sicurezza dell’Onu. Oltre alla legge elettorale». Così le elezioni potrebbero scivolare a giugno. Ma un esecutivo del genere, spiega il premier, funziona se «tutti ci mettiamo d’accordo, con un sostegno di forze politiche in Parlamento il più ampio possibile». Da Forza Italia al Pd. E Grillo? Resta un problema gigante. «Continuerà a dire che abbiamo paura del voto degli italiani. E noi sembreremo quelli che se la fanno sotto».
Renzi «rimetterà la valutazione ai dirigenti del Pd». Ma da qui a dire che l’idea sia di suo gradimento ce ne corre. «Andiamo a fare l’ennesimo governo non eletto. Sarebbe il quarto. Dopo Monti, Letta e dopo il mio. Quelli di prima erano costruiti su alcune motivazioni di fondo solide. Ma questo, perchè lo fai?». Per la legge elettorale, un passaggio obbligato dopo la bocciatura della riforma. «Certo. Ma nel dna del Pd c’è il maggioritario, invece con una maggioranza di tutti dentro o quasi dovremo accettare il proporzionale, che è già contenuto nell’Italicum e nel Consultellum, la legge con cui si voterà per il Senato». Come dire: non è un grande affare.
Sembra chiaro che per Renzi la formazione di questo non sarà una passeggiata, anche con la collaborazione piena del Pd. Solo uno «scherzo del destino» lo fa sorridere. «Verdini entrerà ufficialmente in maggioranza. Dunque Bersani, pur di mandare a casa me, andrà a braccetto con Verdini nel governo di scopo. Bel risultato».
La strada va percorsa. Il pressing del Colle, dei parlamentari del Pd, delle correnti interne non può essere ignorato, tanto più «dopo la botta», come la chiama il premier, cioè la sconfitta pesantissima di domenica. La folle corsa al voto a febbraio finisce nel cestino. Grazie alla frenata di Mattarella e alla novità della sentenza della Corte costituzionale sull’Italicum fissata per il 24 gennaio.
Eppure Renzi non rinuncia a un’alternativa più renziana, più arrembante. Quindi a un altro tipo di governo. Chi lo guiderebbe? Le sue dimissioni sono sicure. Ma se fallisce l’esecutivo di scopo, chi può escludere che sia lo stesso presidente della Repubblica a chiedergli di formarne uno nuovo in attesa della sentenza della Consulta per poi andare subito alle urne? È un’ipotesi sul tavolo, anzi per Mattarella il renzi bis resta la prima scelta. «Lasciamo stare me, non sono io il problema - ripete Renzi ai suoi collaboratori illustrando la seconda strada -. La Consulta potrebbe intervenire sulla soglia minima di votanti oltre il quale il ballottaggio è valido. Non so se il Parlamento è in grado di trovare un accordo su quella soglia, ma dovrebbe essere semplice. A quel punto le leggi elettorali ci sono». Significa che alla fine di gennaio le Camere si potrebbero sciogliere. Con la garanzia del voto, forse i grillini favorirebbero un ritocco rapido. «Al G7 di Taormina - dicono a Palazzo Chigi - andremmo con una nuova legislatura e un nuovo governo».
Il rimpianto di Renzi è che, in ogni caso, «avremo le larghe intese. Dopo aver combattuto l’inciucio, ce le terremo per sempre ». La certezza è che lui sarà in campo. Nonostante la «botta». Con un bacino di elettori su cui lavorare. Se i tempi sono più stretti, il congresso dem si allontana. Ma Renzi affronterà lo stesso le primarie? «Vedremo. So che per statuto il segretario è automaticamente candidato premier... ».
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UNA LEZIONE ATTUALE SALVATORE SETTIS rep
IL DATO più rilevante nei risultati del 4 dicembre emerge dal confronto con l’esito del referendum costituzionale del 2006. In ambo i casi il voto popolare ha respinto una riforma costituzionale assai invasiva (54 articoli modificati nel 2006, 47 nel 2016), approvata a maggioranza semplice da una coalizione di governo che ostentava sicurezza per bocca di un premier (allora Berlusconi, ora Renzi) in cerca di un’investitura plebiscitaria. Le due riforme abortite non sono identiche, ma vicine in aspetti cruciali (la fiducia riservata alla sola Camera e il nebbioso ruolo del Senato). Se guardiamo ai numeri, il confronto è impressionante: nel 2006 i No furono il 61,29%, nel 2016 il 59,25; quanto ai Sì, si passa dal 38,71% (2006) al 40,05 (2016). Un rapporto di forze simile, che diventa più significativo se pensiamo che l’affluenza 2016 (68,48%) è molto superiore a quella del 2006 (52,46%): allora votarono 26 milioni di elettori, oggi ben 32 milioni, in controtendenza rispetto al crescente astensionismo delle Europee 2014 e delle Regionali dello stesso anno.
Eppure, dal 2006 ad oggi il paesaggio politico è completamente cambiato, per l’ascesa dei 5Stelle, la frammentazione della destra berlusconiana, le fratture di quella che fu la sinistra. Più affluenza oggi di dieci anni fa, un cambio di generazioni, con milioni di giovani che votavano per la prima volta a un referendum costituzionale: eppure, nonostante i mutamenti di scenario, un risultato sostanzialmente identico, con un No intorno al 60%. Una notevole prova di stabilità di quel “partito della Costituzione” che rifiuta modifiche così estese e confuse. Esso è per sua natura un “partito” trasversale, come lo fu la maggioranza che varò la Costituzione, e che andava da Croce a De Gasperi, Nenni, Calamandrei, Togliatti. Il messaggio per i professionisti della politica è chiaro: non si possono, non si devono fare mai più riforme così estese e con il piccolo margine di una maggioranza di parte. Nel 2006 e nel 2016, due governi diversissimi hanno cercato di ripetere il discutibile “miracolo” del referendum 2001, quando la riforma del Titolo V (17 articoli) fu approvata con il 64% di Sì contro un No al 36%: ma allora l’affluenza si era fermata al 34% (16 milioni di elettori). Si è visto in seguito che quella riforma, varata dalle Camere con esiguo margine, era mal fatta; e si è capito che astenersi in un referendum costituzionale vuol dire rinunciare alla sovranità popolare, principio supremo dell’articolo 1 della Costituzione.
Per evitare il ripetersi (sarebbe la terza volta) di ogni tentativo di forzare la mano cambiando la Costituzione con esigue maggioranze, la miglior medicina è tornare a un disegno di riforma costituzionale (nr. 2115), firmato nel 1995 da Sergio Mattarella, Giorgio Napolitano, Leopoldo Elia, Franco Bassanini. Esso prevedeva di modificare l’art. 138 Cost. nel senso che ogni riforma della Costituzione debba sempre essere «approvata da ciascuna Camera a maggioranza dei due terzi dei suoi componenti», e ciò senza rinunciare alla possibilità di ricorrere al referendum popolare. Questo l’art. 4; ma anche gli altri di quella proposta troppo frettolosamente archiviata sarebbero da rilanciare. L’art. 2 prevedeva che la maggioranza necessaria per eleggere il Presidente della Repubblica debba sempre essere dei due terzi dell’assemblea (l’opposto della defunta proposta Renzi-Boschi, che avrebbe reso possibile l’elezione da parte dei tre quinti dei votanti, senza computare assenti e astenuti); e che qualora l’assemblea non riesca ad eleggere il Capo dello Stato «le funzioni di Presidente della Repubblica sono provvisoriamente assunte dal Presidente della Corte Costituzionale ». L’art. 3, prevedendo situazioni di stallo nell’elezione da parte del Parlamento dei membri della Consulta di sua spettanza, prevedeva che dopo tre mesi dalla cessazione di un giudice, se il Parlamento non riesce a eleggere il successore «vi provvede la Corte Costituzionale stessa, a maggioranza assoluta dei suoi componenti». Previsione lungimirante: è fresco il ricordo del lungo stallo delle nomine alla Corte, finché nel dicembre 2015 si riuscì a nominare tre giudici dopo ben 30 tentativi falliti.
In quelle proposte, come si vede, la Corte Costituzionale aveva un ruolo centrale, e il rafforzamento delle istituzioni passava attraverso un innalzamento delle maggioranze necessarie per passaggi istituzionali cruciali, come le riforme costituzionali o l’elezione del Capo dello Stato. In un momento di incertezza come quello che attraversiamo, quella lezione dovrebbe tornare di attualità, anche se molti firmatari di quella legge sembrano essersene dimenticati. La riforma Renzi- Boschi è stata bocciata, ma fra le sue pesanti eredità resta una cattiva legge elettorale, l’Italicum, che la Consulta potrebbe condannare tra poche settimane, e che comunque vale solo per la Camera. Compito urgente del nuovo governo, chiunque lo presieda, sarà dunque produrre al più presto una legge elettorale finalmente decorosa, e compatibile (si spera) con riforme costituzionali come quelle sopra citate. Le prossime elezioni politiche, anticipate o no, dovranno portare alle Camere deputati e senatori liberamente eletti dai cittadini e non nominati nel retrobottega dei partiti. Il referendum da cui veniamo è stato un grande banco di prova per la democrazia: ma ora è il momento di mostrare, per i cittadini del No e per quelli del Sì, che sappiamo essere “popolo” senza essere “populisti”. Che per la maggioranza degli italiani la definizione di “popolo”, della sua sovranità e dei suoi (dei nostri) diritti coincide con quella della Costituzione, la sola che abbiamo. Il “ritorno alla Costituzione” che ha segnato i mesi scorsi e che ha portato all’esito del referendum mostra che è possibile.
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5 commenti:

odradekkkk ha detto...

Compagno. D'accordo su tanto. Figuriamoci su Pisapia. Ma così ci rimani solo tu. In più, va bene il no al governismo ecc...Ma vent'anni è un po' tanti eh. Dici, strategia nazional-popolare. Ma non me pare che Totonno fosse un extraparlamentare. Settarismo. Andrebbe pure bene in una fase iniziale...Ma qual'è 'ssa setta ? Scusa eh...Sono un aficionado del sito. Mi permetto.

materialismostorico ha detto...

Perché quanti anni sono passati da quando non contiamo più niente? Dal 2018 sono già quasi 10. Non era meglio impiegarli a ricostruirsi una verginità? QUanto ai paragoni con il passato, vanno comparate fasi omogenee, non una fase di offensiva complessiva con una fase di ritirata strategica.

odradek ha detto...
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
odradek ha detto...

10 anni...Appunto. Basta. Perchè aggiungercene 20, così, volontariamente ? La fase e la ritirata strategica. La faccio brutalmente corta e chiedo scusa. E premetto che hai perfettamente ragione sulla frenesia inconcepibile dei professori ecc...Ma. Scenario vago astratto e politicista : proporzionale con premio di governabilità. Nasce una "robba a sinistra del PD", un PD a sua volta spostato a sinistra. Prende più voti "la robba" ed insieme avrebbero la maggioranza. Che me dici ? Ecco. Non puoi volere il proporzionale e governare da solo. Le cose sono in contraddizione. Questo è importante per definire quella "robba".

materialismostorico ha detto...

Dico che quello che scrivi è l'eterno ritorno dell'uguale. Buona fortuna.

Ma ci vuole molto a capire che la fase complessiva va verso uno scenario postdemocratico? Siete troppo legati a una fase conclusa ormai 30 anni fa.