venerdì 16 dicembre 2016

Sinistra Martina Sinistra Ichina. Il ruolo dei sindacati nella stabilizzazione politica del paese


















Corriere



Corriere della Sera


Per il giuslavorista Ichino il Sì fermerebbe il Paese “La legge non si cambia quesito inammissibile” 

GIOVANNA CASADIO Rep 16 12 2016
ROMA. «Il Jobs Act non va toccato. Il referendum della Cgil azzera tutto il cammino fatto finora sul lavoro». Pietro Ichino, giuslavorista, democratico, è convinto che il quesito sull’articolo 18 sia inammissibile.
Professor Ichino, il referendum della Cgil disfa il Jobs Act?
«Bisogna innanzitutto verificare che il quesito sull’articolo 18 sia ammissibile».
Pensa possa non esserlo? Perché?
«Un primo profilo di inammissibilità del quesito sta nel fatto che esso deve avere un contenuto unitario. Qui invece ce ne sono addirittura tre: “volete abrogare la parte del Jobs relativa ai licenziamenti, per gli assunti dal marzo 2015?”; e poi “per gli assunti prima del marzo 2015, volete abrogare le modifiche dell’articolo 18 contenute nella legge Fornero del 2012?”; infine : “volete voi che il vecchio articolo 18, così ripristinato, si applichi a tutti i datori di lavoro che abbiano almeno sei dipendenti?”. Un secondo profilo di inammissibilità sta nel fatto che quest’ultimo quesito non ha per oggetto l’abrogazione di una norma, ma la creazione di una norma nuova, che non è mai esistita. Per questa parte, il referendum promosso dalla Cgil diventa propositivo. Ma l’istituzione del referendum propositivo è stata bocciata proprio dieci giorni fa con il referendum sulla riforma costituzionale ».
E se ammesso, quando si terrebbe il referendum?
«Nella primavera prossima o in quella del 2018, a seconda di quando si scioglie il Parlamento ».
Lei non sarebbe favorevole a cambiare la riforma per evitare i quesiti?
«No. Stiamo compiendo il passo decisivo di una transizione che il nostro Paese attende da trent’anni, il passaggio dal modello mediterraneo di mercato del lavoro al modello nord-europeo. La cosa peggiore che potrebbe accadere al Paese è di fermarsi in mezzo al guado, o addirittura tornare al punto di partenza.
La Cgil però obietta che i frutti di questa riforma non si sono visti. «Non è così. Nell’ultimo biennio è nettamente aumentato il flusso degli investimenti diretti esteri nel nostro Paese, che prima si era quasi azzerato: ed è solo da questo aumento che oggi possiamo attenderci un aumento della domanda di lavoro, e quindi anche dell’occupazione e delle retribuzioni. Nel biennio 2015-2016 l’Inps ha registrato 1,2 milioni di assunzioni regolari in più rispetto al biennio precedente, delle quali 815.089 a tempo indeterminato » Un altro quesito referendario mira ad abolire i voucher: i buoni-lavoro hanno moltiplicato il precariato?
«Senta, in un periodo in cui, come si è detto, sono aumentate di 1,2 milioni le assunzioni regolari, e tra queste quelle stabili di 800mila, si sono registrati anche 115 milioni di ore di lavoro accessorio retribuito con i voucher, cioè l’equivalente di circa 60.000 posti di lavoro precario se fossero stati tutti a tempo pieno. Non è plausibile che questi siano tutti casi di precarizzazione di lavoro che altrimenti si sarebbe svolto in modo regolare».
Ma hanno sanato il lavoro nero?
«Non hanno certo eliminato questa piaga. Ma un contributo certamente l’hanno dato. Studiamo il fenomeno, individuiamo le anomalie da correggere, ma eliminare drasticamente i buoni-lavoro mi sembra proprio una misura demagogica. Porterebbe solo un aumento del lavoro nero».
Se si andasse al voto anticipato, si congelerebbero i quesiti. È una furberia, come dice la segretaria Cgil, Camusso?
«Sì. Non deve essere questo il criterio in base al quale anticipare le elezioni».
Insomma è bene o no fare questo referendum?
«Sui due quesiti ammissibili è giusto che si celebri il referendum. Il referendum mira ad azzerare tutto il cammino fatto dalla riforma Treu del 1997. Non sarebbe affatto un buon servizio, né per i lavoratori italiani, né per le imprese che vogliono operare in Italia». ©RIPRODUZIONE RISERVATA


L’impennata dei voucher 

VALENTINA CONTE Rep
ROMA. Quasi quattro miliardi di euro. Tanto valgono i 387 milioni di voucher venduti dal 2008, primo anno di sperimentazione, fino allo scorso settembre. I buoni lavoro esentasse da 10 euro lordi – 7 euro e mezzo netti, tolti i mini contributi e la quota Inail – da quando crescono al galoppo bruciando di mese in mese ogni record storico, grazie alla liberalizzazione della legge Fornero nel 2012 (che li estese ad ogni ambito) e al generoso innalzamento del tetto deciso dal governo Renzi (da 5 mila a 7 euro all’anno), si sono guadagnati la triste fama di «nuova frontiera del precariato». La definizione del presidente Inps Boeri non è però condivisa da tutti. Gli studiosi invitano alla prudenza, il fenomeno sembra vischioso, come si legge nell’ultimo studio, pubblicato qualche mese fa proprio per l’Inps, di Bruno Anastasia, Saverio Bombelli e Stefania Maschio. Distinguo a parte, il tema è però all’ordine del giorno della politica.
Uno dei tre referendum proposti dalla Cgil – e sulla cui ammissibilità si esprimerà la Corte Costituzionale a partire dall’11 gennaio – ne chiede l’abrogazione (accanto al ripristino dell’articolo 18, dunque la liquefazione del Jobs Act). Eliminiamoli subito in edilizia e agricoltura, suggerisce la Cisl. Tanto per sminare il percorso del governo Gentiloni, alle prese con una consultazione elettorale potenzialmente dannosa (a favore della cancellazione ci sono tutte le opposizioni e la sinistra Pd, in pratica lo schieramento del 4 dicembre). In effetti, un intervento di Palazzo Chigi potrebbe rendere inutile almeno il quesito sui voucher (quasi impossibile disinnescare l’altro sull’articolo 18). Il ministro del Lavoro Poletti è in attesa di leggere il primo report sulla tracciabilità dei buoni (arriverà nei primi giorni di gennaio), obbligatoria dall’8 ottobre, come deterrente per il lavoro nero mascherato dai voucher: il datore di lavoro deve inviare un sms o una mail almeno 60 minuti prima dell’inizio della prestazione all’Ispettorato nazionale, pena una sanzione da 400 a 2.400 euro. Se il risultato non sarà buono, in mancanza cioè di «una sensibile diminuzione » nella vendita dei ticket, spiegano i tecnici del dicastero, allora si metterà mano alla normativa, rendendola più severa.
La situazione nei territori sembra però allarmante. Le Regioni che più fanno uso dei buoni sono le più produttive. Dopo la Lombardia (con 20 milioni venduti nei primi nove mesi) c’è il Veneto (con 18 milioni). «Ma l’agricoltura veneta, settore con il più alto tasso di utilizzo spesso irregolare di voucher, attraversa un periodo positivo che ne giustifica ancora meno il ricorso. Siamo a un voucherista ogni tre dipendenti», spiega Onofrio Rota, segretario Cisl Veneto. Nella provincia di Napoli è addirittura il settore pubblico a farne un uso dubbio. «Su 90 Comuni, almeno la metà li utilizzano per le politiche sociali: assistenza ai disabili o ai malati », avverte Angelo Savio, segretario Nidil Cgil di Napoli. Un groviglio da quasi 110 milioni di voucher. In soli 9 mesi.
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Jobs Act e congresso, la sfida di Orlando 

Il ministro della Giustizia replica a Poletti: il voto anticipato non deve evitare il referendum, il Pd apra al sindacato Il tema del lavoro agita il centrosinistra. Camusso: sciogliere le Camere prima è solo un modo per farsi del male

SILVIO BUZZANCA Rep 
ROMA. «Domenica andrò intanto ad ascoltare la relazione del segretario. Sono convinto che, dopo il risultato referendario, dobbiamo utilizzare le energie che abbiamo per ascoltare e parlare al Paese e riflettere su quale partito vogliamo, prima ancora di dare il via a una campagna che rischia di essere un po’ una disfida pre-elettorale».
Andrea Orlando, riconfermato ministro della Giustizia lancia la sfida a Matteo Renzi e parla da possibile candidato alla segreteria del Pd. Anche se intervistato da Bianca Berlinguer a Carta Bianca dice che è troppo presto parlare di candidature. Però l’impressione che il Guardasigilli voglia correre al prossimo congresso del Pd è forte. Una sensazione rafforzata anche dalle parole con cui replica a Giuliano Poletti sul Jobs act e i referendum della Cgil. «Non credo che lo scopo del voto anticipato debba essere quello di evitare il referendum. Dobbiamo capire se si può aprire interlocuzione col sindacato e se sono possibili modifiche, valutare se la via del referendum è l’unica possibile. Non possiamo andare avanti costantemente con sfide muscolari ».
Mosse e contromosse nel complicato scacchiere del Pd in fibrillazione precongressuale. Ma anche intorno al partito di Matteo Renzi il dibattito ferve. C’è chi interviene in maniera istituzionale, quasi a ricordare che le prerogative dello scioglimento delle Camere spettano al presidente della Repubblica. E il caso di Laura Boldrini, presidente della Camera, che dice: «Fare le elezioni prima del dovuto per evitare il referendum sarebbe inopportuno». Altri parlano e fanno rivivere il fronte del no. «Giù le mani dai referendum della Cgil. Il ministro Poletti ha il merito di aver rivelato quello che altri pensano. Questi referendum fanno paura perché avrebbero buone possibilità di passare e questo sarebbe per Renzi e l’attuale governo un secondo sonoro schiaffo», dice Alfiero Grandi, del Comitato per il No. replica che i referendum sono inammissibili e economicamente antistorici. Ma per Susanna Camusso bisogna solo aspettare. Secondo la leader della Cgil sciogliere le Camere «è un modo di farsi del male. Comunque si voterà dopo e dal tema non si scappa». Maurizio Landini, aggiunge: «Siamo di fronte al paradosso e alla schizofrenia. Hanno appena avuto la fiducia e il primo problema del governo è chiedere la sfiducia per andare a votare». Nel dibattito fa irruzione anche la proposta grillina di disinnescare il problema: approvare una legge che deroga alle norme sullo svolgimento dei referendum per permettere di tenere Politiche e referendum nello stesso anno.
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I PARTITI DELLA COSTITUZIONE E I POPULISMI 
 La retorica divisiva e l’uso plebiscitario del referendum sono stati un errore ma lo è anche appropriarsi della Carta per una nuova sigla politica

ANDREA PERTICI NADIA URBINATI Rep 16 12 2016
IL RISULTATO del referendum del 4 dicembre ci restituisce una Costituzione forte. Forte sin dalla nascita perché frutto di un lavoro comune dei partiti rappresentati alla Costituente, che la elaborarono insieme nella Commissione dei Settantacinque e l’approvarono a larghissima maggioranza in Assemblea, con l’88% dei voti favorevoli. Tutti, al di là delle posizioni politiche, spesso molto distanti, si riconobbero sempre in quel testo. Dal referendum del 4 dicembre la Costituzione esce addirittura rafforzata, perché gli italiani hanno chiaramente detto (con 19.420.730 di “No”), di non volere “riforme grandi” che modifichino radicalmente gli equilibri tra i poteri e, implicitamente, le stesse forme di attuazione e tutela dei principi fondamentali e dei diritti inviolabili. Naturalmente, questo non impedisce le mirate modifiche e gli interventi di manutenzione che siano ritenuti necessari da un’ampia maggioranza parlamentare.
Una Costituzione forte, anche per la sua stabilità, è in sostanza — per dirla con la Corte Suprema degli Stati Uniti d’America (ex parte Milligan, 1866) — «una legge per il tempo di guerra e per il tempo di pace», in grado di fronteggiare cioè qualunque situazione (anche straordinaria) e di contenere il potere, chiunque lo detenga in quel determinato momento. Stupisce, quindi, che modifiche radicali o ribaltamenti della Costituzione, volti a indebolirla, alterando l’equilibrio tra Governo e Parlamento e introducendo disposizioni complesse e talvolta oscure (rimesse fatalmente all’interpretazione della maggioranza di turno), siano (stati) sostenuti come argini nei confronti del “populismo”. Al di là delle approssimazioni sull’utilizzo di questo termine, infatti, proprio il “rischio” di un governo populista dovrebbe spingere a salvaguardare una Costituzione forte nella limitazione del potere della maggioranza. Che poi è il senso stesso della Costituzione.
Invece — e paradossalmente — abbiamo assistito, durante la lunga campagna referendaria, ad allarmi contro il rischio di populismo da parte di un governo che ha adottato nei fatti e in più occasioni atteggiamenti populisti, sostenendo la riforma con argomenti propri della retorica dell’anti-politica, come quello di “meno politici” o di “meno poltrone”. Al di là di tutte le valutazioni che si potranno fare, possiamo dire che quello del 4 dicembre è stato un voto in effetti contro il populismo — quello più insopportabile quello del governo, come ha ben chiarito Ezio Mauro all’indomani del voto su questo giornale.
Certamente, la retorica divisiva e l’uso plebiscitario del referendum costituzionale hanno fagocitato altri populismi. E possono ora favorire un fenomeno che deve destare preoccupazione: quello di pensare che la difesa della Costituzione sia essa stessa un partito, che il “no” a quella revisione contenga un messaggio che vada oltre l’obiettivo specifico, raggiunto il 4 dicembre. Lo scarsissimo spazio che i media hanno inteso dare durante la campagna referendaria alle posizioni politiche — e costituzionali — più ragionate e ragionevoli ha una sua responsabilità nell’aver istigato questo uso populista della battaglia per il “No”. Una responsabilità che si assomma a quella di chi, a fronte di una richiesta di rottura rispetto a modalità decisionali verticistiche e chiuse rispetto ai cittadini, non si preoccupa, oggi, di elaborare risposte convincenti, ma continui ad arroccarsi nei palazzi, offrendo risposte sbagliate o insoddisfacenti.
Tutto questo giustifica la preoccupazione circa il permanere di una pratica e di un linguaggio populisti, il persistere di populismi opposti, di una lotta politica che è giocata con le armi plebiscitarie. Sì, abbiamo una Costituzione capace di limitare il potere di chiunque sarà in maggioranza e anche le loro tendenze populiste, ma è irresponsabile sottovalutare l’erosione delle aggregazioni partitiche a tutto vantaggio dei vertici plebiscitari che questa lunga campagna ha consolidato.
Riemerge così il significato portante della Costituzione come testo condiviso da tutti e a tutti capace di “opporsi” in particolare quando siano al potere. Con il referendum questo significato è stato confermato, e anzi riconquistato (per la seconda a distanza di dieci anni). Si tratta di un significato da custodire (senza che questo comporti la rinuncia a interventi puntuali e di manutenzione costituzionale) da parte di tutti, e anche contro ogni altro tentativo di farne un programma di lotta politica, quasi che ci possa essere un “partito della Costituzione”. La Costituzione non poteva diventare il testo di una parte che affermava la “sua” riforma così come non può essere rivendicata come “propria” dalla parte che a quella stessa riforma si è opposta. Chi si è espresso contro la riforma costituzionale per avere una Costituzione forte e capace di unire non può farne infatti un documento fondante per una parte o — peggio — per un partito. I partiti — potremmo dire riprendendo Costantino Mortati — sono “parti totali” mentre la Costituzione è “il totale” nel cui ambito si svolge il confronto tra i diversi partiti politici della Repubblica.

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