martedì 13 dicembre 2016

Un atto superfluo e le tre iatture del paese




La nomina di questa sciagurata incompetente al Ministero dell'istruzione e dell'Università conferma due cose.
La prima cosa è che in Italia la formazione non serve a niente, viste le scelte di politica economica che sono state fatte a monte. Il sistema produttivo del paese è in via di smantellamento e per un'economia che campa di espedienti, evasione fiscale, salari da fame, pirateria di processo e di prodotto, pizzerie e discoteche, non c'è bisogno di persone che sappiano quello che fanno.
Scuola e università sono da tempo la prosecuzione della baby sitter o della sala giochi con altri mezzi, giusto per rinviare la domanda di disoccupazione. A occupare quella inutile poltrona si può mettere perciò chiunque, dalla Moratti alla Gelmini, dalla Giannini a una che passava di là per caso ma al momento giusto come questa qua.
La seconda cosa è il danno irreparabile che hanno fatto al paese la CGIL, il PCI e le mobilitazioni politiche e sociali del ciclo 1968-1977, tre iatture alle quali dobbiamo i 3/4 del ceto politico più ignorante e nocivo in circolazione [SGA].











Elezioni anticipate e Congresso Mossa di Renzi anti-minoranza Scontro in Direzione, Speranza: dica se c’è spazio per chi ha votato «No» Per il ritorno alle urne l’ex premier ha già in mente una data: il 4 giugno Carlo Bertini  Busiarda
Ancora non è stato convocato ma il congresso del Pd è già cominciato. Ieri in Direzione. E fuori dalle sedi ufficiali, vista la quantità di saette che già infiammano l’atmosfera. Solo per dirne una, la dissociazione di Verdini dall’esecutivo Gentiloni, dai compagni di area Bersani viene letta come «un accordo sottobanco con Matteo per far capire che il governo può cadere ed è debole». Non come una minaccia lanciata in zona Cesarini per entrare nel governo. E ancora: la disputa procedurale sulla convocazione del congresso previe dimissioni di Renzi da segretario, viene così sintetizzata nelle stanze del leader: «Matteo non ci pensa proprio a dimettersi, certo stiamo valutando se serve, ma non è detto, perché l’assemblea può votare il congresso, punto e basta». 
E a questa che sarebbe una forzatura per arrivare alle primarie il 26 febbraio o 5 marzo, c’è un contraltare, spiegato bene dal leader ai suoi. «Io il congresso non è che lo voglio fare per forza. Sono quelli della minoranza che lo hanno chiesto, ora dicano loro. Se non lo vogliono, si farà a scadenza naturale a fine anno e ciò significa che se si voterà prima decideremo noi le liste di candidati alle politiche». Tradotto, le liste dei candidati sono già in cima ai pensieri di tutti: prima di veder squadernata la formazione dei ministri, Guerini in Transatlantico si lascia sfuggire una battuta: «Vi pare che potevo andare al governo proprio ora che si decidono le liste?». E poco più in là, il fiorentino David Ermini del «giglio magico», sciorinava il sondaggio di popolarità tra gli elettori Dem uscito l’altro giorno sull’«Huffington post», una sorta di manuale Cencelli pronto all’uso per i renziani. «Da lì si vede che Franceschini gode di un seguito mi pare dell’8%. E allora il suo 30% dei parlamentari del gruppo sembra un po’ sovradimensionato o no?». 
E alle liste allude pure Speranza, quando in Direzione avverte che senza una ricucitura sui temi di sinistra il Pd rischia di morire. «Davanti alle manifestazioni organizzate e agli attacchi sul web io chiedo a Renzi di dirci se non c’è più spazio nel Pd per chi ha votato “no”, lo dica con chiarezza. Io penso che bisogna recuperare un pezzo di elettorato che ha votato “no”. Il mio seggio è a disposizione, ma non è immaginabile rinunciare alle proprie idee». Renzi gli risponde nel suo stile. Punto primo, si voterà al più presto, nella testa del leader c’è già una data, il 4 giugno: «Il Pd dovrà fare un congresso con gli iscritti e le primarie, sapendo che c’è un appuntamento imminente con le elezioni perché è evidente che nell’arco dei prossimi mesi andremo alle politiche». Punto secondo: «Il 59 per cento è un voto politico? Allora lo è anche il 41 per cento». Con la chiosa che quando gestivano loro «l’elettorato di sinistra e popolare non l’ha mai visto nemmeno col binocolo il 40 per cento». 
Ma non sono solo i compagni sotto i riflettori, «stanno facendo un partito nel partito, dire che votano le leggi scegliendo fior da fiore non esiste», sbotta il capogruppo Rosato. Ci sono pure i simil-alleati come Franceschini e Orlando nel mirino, mentre salgono le quotazioni di Orfini e Martina «che hanno tenuto botta nel momento più duro», notano i renziani doc. 
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Ritorno al Mattarellum C’è un partito trasversale contro il proporzionale Aperture anche dai centristi. Il prodiano Parisi: il Pd si batta per tornare alla legge maggioritaria Amedeo La Mattina  Busiarda
Tra i tanti tornanti che Renzi dovrà affrontare ce n’è uno che potrebbe riportarci al sistema proporzionale. Non è ancora chiaro cosa intenda fare per frenare questa tendenza cavalcata da Berlusconi e da Grillo con obiettivi opposti. Una tentazione forte che non lascia indifferente una parte del Pd e viene esaltata dal nuovo ministro degli Esteri Alfano. È l’effetto della vittoria del No. Renzi, sconfitto nelle urne referendarie, si piegherà a quello che è stato definito l’«inciucio proporzionalista»? Il suo interlocutore sarà Berlusconi? 
I renziani sostengono che ciò non avverrà: fanno girare la voce che presto ci sarà una proposta per tirare fuori dal congelatore il Mattarellum che prevede i collegi uninominali e una quota (25%) di proporzionale. Una quota che potrebbe essere allargata per convincere il Cavaliere a dire di sì. Il leader di Fi potrà eleggere i suoi parlamentari, pur dovendo fare degli accordi con Salvini e Meloni nei collegi. Salverebbe l’alleanza di centrodestra, per poi fare le larghe intese con il Pd. Ma il vento del proporzionale soffia forte nelle vele della politica italiana. 
Lo stesso Renzi, in un colloquio pubblicato ieri da «Quotidiano nazionale», ha mostrato tutto il suo scoramento. «Temo che la gente non lo abbia capito, ma con la vittoria dei No si è concluso un ciclo. Non avremo più uno che governa, ma tutti che inciuciano. I cittadini perderanno il potere di scegliersi i governi, le decisioni politiche più importanti verranno prese da pochi nel buio del Palazzo. Insomma, è tornata la Prima repubblica». Conclusione desolante dell’ex premier: «Alle prossime elezioni, presumibilmente a giugno, si voterà con il proporzionale e con il Consultellum». 
Renzi rimarrà a guardare o reagirà alla tempesta proporzionalista? Arturo Parisi, da sempre in difesa del maggioritario, invita il segretario del Pd a ingaggiare battaglia. «Il proporzionale è stato introdotto con il voto del referendum. Sono state riportate indietro le lancette dell’orologio. La logica della frammentazione è stata rappresentata sui giornali anche nel totonomi in questi giorni: i ministri venivano indicati per aree di appartenenza, espressione di porzioni del Pd. Lo stesso Pd è attraversato da due idee opposte di democrazia. Mi auguro che Renzi - dice l’ex ministro di Prodi alla Difesa, che è stato l’inventore dell’Ulivo e delle primarie - si voglia battere. Lui è figlio del maggioritario e di un’idea della democrazia in cui più della rappresentanza conta il governo, la capacità di decidere e affrontare i problemi. Mi auguro che nel Pd, al congresso, si apra un dibattito forte. Certo, siamo ammaccati dalla vittoria del No, ma non dobbiamo mai arrenderci». 
Nel Pd c’è un certo movimento a favore del Mattarellum. Ieri in Direzione Sergio Lo Giudice, esponente della minoranza, ha detto che bisogna partire da questo modello. La deputata Sandra Zampa, stretta collaboratrice di Prodi, ha sottoscritto una proposta di legge (primo firmatario Michele Nicoletti) che ripropone il ritorno Mattarellum. Domenica sull’«Unità» Veltroni è intervenuto per dire che un proporzionale con sbarramenti inesistenti al 2% e senza premio di maggioranza riprodurrebbero «coalizioni elefantiache pronte a cadere per una bizza o un posto di sottosegretario». Per Veltroni il Pd rischia di essere condannato a coalizione con Fi e di provocare una scissione. Si tornerebbe a un partito di centro e uno di sinistra. «Benvenuti nel passato, benvenuti nel caso». Meglio ripartire dal Mattarellum, dai collegi, da uno sbarramento significativo e un limitato premio di maggioranza. 
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“Verdini deve restare fuori” La partenza è sul filo dei voti Lo stop del neo premier, al Senato numeri a rischio. I renziani: più facile staccare la spinaCARMELO LOPAPA Rep
ROMA. È l’unica, vera scelta politica compiuta a sorpresa dal neonato governo Gentiloni. Fuori Denis Verdini con Ala, fuori Scelta civica e il suo viceministro Enrico Zanetti. «Vedrete, saremo più solidi senza Verdini che con lui dentro », dice il premier rassicurando i big pd al termine di una giornata frenetica culminata con giuramento e il primo cdm.
Due sigle, un unico gruppo parlamentare da 18 senatori e 16 deputati, truppa diventata “zavorra” che ha pesato sul governo Renzi, ha dilatato la ferita interna al Pd, causato l’emorragia di voti a sinistra.
Lunghe trattative, poi la scelta finale di dire no a un ministro verdiniano. Ed è rottura. «Stanno facendo di tutto per avere Saverio Romano nell’esecutivo ma non c’è storia», era trapelato ore prima da chi conduceva le trattative per Palazzo Chigi. L’uomo della discordia è il ministro all’Agricoltura dell’ultimo governo Berlusconi, palermitano, ex braccio destro di Cuffaro in Sicilia. L’unica concessione che Gentiloni può fare, è l’offerta dei pontieri, è la conferma di Zanetti alla poltrona di viceministro all’Economia. «Non vedo perché dobbiamo metterci la faccia se delle nostre facce si vergognano, si tengano la sinistra pd e si facciano garantire da loro la maggioranza, noi stiamo fuori», tuona Verdini quando alle 18 arringa la pattuglia dei suoi onorevoli convocati di fretta nella sede di Via Poli, a due passi da Palazzo Chigi. Quindi, parte la telefonata in viva voce al segretario del Pd, Renzi, che però si tira fuori, non è più lui il premier. Proteste. Tutto inutile.
La nota congiunta con Zanetti è la dichiarazione di guerra. «Avevamo dato la nostra disponibilità, ma nasce un governo fotocopia per mantenere lo status quo, non voteremo la fiducia» c’è scritto. Saverio Romano, parte in causa, appena finita la riunione serale è coi nervi a fior di pelle: «Chiedevamo un governo asciutto con una base parlamentare allargata, hanno allargato il governo per accontentare le correnti pd e si sono ritrovati una maggioranza traballante». Ponti saltati, al momento. Ma la partita è davvero chiusa? «Chiaro che la scelta di tenerli fuori è politica», commenta il neo ministro Luca Lotti con i renziani che gli chiedono lumi, essendo stato lui nell’ultimo anno il trait d’unione tra Verdini e Palazzo Chigi. «Ma con Denis torneremo a parlare e reggeremo botta al Senato», tranquillizza l’uomo forte di Renzi al governo. La sensazione diffusa al quartier generale dell’ex premier è che alla fine un esecutivo appeso ai numeri, esposto alle “intemperie”, non sia proprio un male. La probabilità di chiudere i battenti nel giro di sei mesi si fa più concreta, in qualunque momento Matteo Renzi potrebbe staccare la spina.
Già, perché con la truppa di Verdini fuori, il pallottoliere del nuovo governo a Palazzo Madama vacilla, anche se per il momento regge di una manciata di voti. Può contare sui 112 senatori Pd, i 29 di Ap di Alfano, i 15 delle Autonomie e i 9 tra gruppo Misto e Gal: fanno 165, ai quali con tutte le incognite del caso (le presenze) vanno aggiunti i 4 senatori a vita. Solo così si raggiungerebbe quota169, qualcosa in più dei 161, soglia di sopravvivenza. I 6 tra senatori di Tosi ed ex Sel già al fianco di Renzi potrebbero affiancarsi. Gentiloni rischia di ballare, il capogruppo pd Zanda dice di no: «Fiducia senza incertezze ». Uscito di scena per ora Verdini, in Fi invece le antenne si drizzano. La tentazione di tornare centrali è tanta. «Opposizione, ma notiamo un cambiamento di toni», sostiene Paolo Romani. Per l’intera mattinata, raccontano, Gianni Letta ha insistito con Silvio Berlusconi per sostenere un clamoroso e “utile” sostegno esterno, quanto meno la «non belligeranza» al governo. Il Cavaliere per ora resistite, ma non è detto che d’ora in poi - quando la maggioranza dovesse andare in affanno - tutti i 42 senatori forzisti saranno in aula.
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“Diteci se c’è spazio per noi del No” Speranza alza i toni con Renzi, in direzione il fantasma della scissione. Il segretario: per stare insieme serve lealtà Bersani: sì alla fiducia a Gentiloni ma voteremo caso per caso. Il post di Zingaretti: sconfitti dal nostro isolamentoGIOVANNA CASADIO NICOLA ZINGARETTI, L’ALA CRITICA ENRICO ROSSI, LO SFIDANTE Rep
ROMA. «Non ti nascondere, Matteo » dice Roberto Speranza a Matteo Renzi. «Di fronte alle mie responsabilità io non sono mai fuggito» gli risponde Renzi. Il momento di massima tensione ieri in Direzione è tra il leader dei bersaniani, Roberto Speranza e l’ex premier Matteo Renzi che ha perso Palazzo Chigi per lo tsunami di 19 milioni di No al referendum costituzionale. Al centro del tavolo della presidenza in maglioncino blu-relax, l’ex premier, arrivato poche ore prima da Pontassieve, parla per ultimo nell’assemblea dem che dà l’appoggio all’unanimità al governo di Paolo Gentiloni. Viene annunciata l’Assemblea dei mille delegati, domenica prossima, prima tappa verso le primarie.
Doveva essere una Direzione di tregua, solo sul governo che sta per nascere, ma Speranza rompe la cappa. «Matteo Renzi deve dire con chiarezza se non c’è spazio nel Pd per chi ha votato No al referendum. C’è o non c’è ancora spazio in questo partito? Questo Renzi deve dirlo - ripete - senza nascondersi dietro gli insulti su internet o le manifestazioni organizzate davanti al Nazareno». La sfida sulla scissione è lanciata.
Speranza, nel documento che la sinistra ha presentato ieri, attacca: «Voteremo contro i provvedimenti del governo che non condividiamo». Un attacco duro: «Vedo ancora troppa arroganza nel vantare come proprio il 40% di Sì, no a un congresso che sia la rivincita del capo ». Nel “parlamentino” dem sale il brusìo di disapprovazione. «Impara tu a rispettare gli altri…» si scalda in prima fila Valeria Fedeli, non ancora ministro dell’Istruzione: la nomina arriva poco dopo. E non basta l’ironia di Gianni Cuperlo. L’altro leader della sinistra dem, schierato però per il Sì al referendum, cerca di abbassare la tensione: «Nel Pci di Enrico Berlinguer quando ci fu lo scontro sulla scala mobile… Cosa dice Franco Marini, c’era anche lui? No, c’era Piero Fassino, correggimi Piero se sbaglio». Per dire che ci può sempre essere rispetto reciproco, anche nelle divisioni più aspre. Invece nel Pd «il clima interno sta degenerando, non è positivo» e se non c’è rispetto «siamo tutti più deboli». E poi «ci vuole correzione di rotta e svolta», non perché qualcuno tema l’accelerazione sul voto: «Non ho neppure io paura del voto, ma del risultato». Il voto anticipato, appunto.
Renzi parte da lì. «Il Pd deve fare un congresso con gli iscritti e le primarie, sapendo che c’è un appuntamento imminente con le elezioni perché è evidente che nell’arco dei prossimi mesi andremo alle elezioni politiche che noi e gli altri più di noi hanno invocato». Il segretario dem a sia volta lancia l’affondo: «Al congresso si discute anche di come si sta insieme, della lealtà che reciprocamente si deve assicurare...» E rilancia su primarie al massimo a marzo. «Io il congresso voglio farlo». Alla sinistra dem che ne fa una questione di regole, di dimissioni necessarie del segretario risponde: «Il congresso o si fa o non si fa. Se propongo il congresso mi dicono che non si può fare, se non lo propongo che sono attaccato alla poltrona». Sguardo rivolto all’angolo della sala dove sono seduti Bersani e Epifani, ex segretari, e i bersaniani. Massimo D’Alema, l’avversario renziano, è a Potenza per la presentazione di un libro. Non ci sono Sergio Chiamparino, né Michele Emiliano, né Nicola Zingaretti, i governatori di Piemonte, Puglia e Lazio, possibili sfidanti di Renzi. Zingaretti commenta poi: «Il Pd al referendum è stato sconfitto dal suo isolamento». Bersani in tv avverte: «Garantiamo la stabilità ma le misure del nuovo governo ci devono convincere». D’Alema pronostica: «Così alle prossime elezioni saremo travolti».
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L’idea di Emiliano “Sto pensando di sfidare Matteo” È scontro sulle regole La partita delle primarie entra già nel vivo. Domenica si decide la road map che porta alla consultazione ROMA. Rep
«Ci sto pensando». Michele Emiliano riceve pressioni per scendere in campo a sfidare Renzi. Non c’è ancora nulla di definitivo. Lui dice di non avere deciso: «Molte variabili ancora da sciogliere, come si fa il congresso, in quali tempi...». E poi c’è la passione per il lavoro di governatore della Puglia che si è impegnato a portare a termine. Però la sua discesa in gara è data come sempre più probabile.
Il congresso del Pd entra già nel vivo. Nonostante la frenata della sinistra dem bersaniana, che vede nell’accelerazione impressa da Renzi l’ennesimo plebiscito cercato dal segretario, domenica prossima sarà l’Assemblea nazionale a discutere della road map renziana: in 45 giorni andare alle primarie.
Prima della Direzione ieri, nella stanza del segretario al Nazareno - che in questi mille giorni da premier Renzi ha frequentato pochissimo - riunione con il vice Lorenzo Guerini, con il presidente del partito Matteo Orfini, con i capigruppo Luigi Zanda e Ettore Rosato. Si discute di regole, di come si fa un congresso veloce.
La sinistra dem vuole che Renzi si presenti dimissionario all’Assemblea dei mille delegati di domenica a Roma. Minaccia anche l’Aventino se Renzi cerca una prova di forza. Ricorda che lo Statuto del Pd lo prevede, fa l’esempio di Bersani che si dimise all’indomani dello scandalo dei 101 franchi tiratori che non votarono Prodi per il Quirinale. Bersani si dimise e venne eletto Gugliemo Epifani. «Si fa così, niente blitz sulle regole - ripete Davide Zoggia - se no, non ci stiamo».
Ma i renziani mostrano un tweet in cui Salvatore Vassallo sintetizza l’altra possibilità: « Non è necessario che Renzi lasci la segreteria per anticipare il congresso, se l’Assemblea condivide e non elegge un successore. #statutopd». Vassallo è stato il presidente della commissione Statuto del neonato Pd nel 2007. Renzi ne ascolta i consigli. Guerini ammette che c’è incertezza sul percorso da seguire per il congresso. Una cosa però è certa: non si perderà tempo.
Quindi niente interim a una figura di garanzia. «Il congresso si fa in anticipo oppure non si fa». Scandisce Renzi in Direzione. Si spetterà cioè novembre 2017 con la previsione- secondo i renziani -che a giugno ci siano le elezioni e quindi Renzi sia automaticamente candidato premier senza una rilegittimazione popolare.
Guerini che ha un ruolo di cerniera con la minoranza, prevede colloqui con Speranza, Stumpo, Zoggia per cercare di trovare un compromesso. Però il percorso previsto è: lunedì 19 o martedì 20 riunione della direzione che sceglie la commissione di garanzia per il congresso: cinque o al massimo sette garanti. Entro fine anno la commissione vara il regolamento per il congresso. Così da stabilire il tempo entro il quale si possono presentare le candidature alle primarie per il segretario-premier. Al Nazareno sostengono che la scadenza potrebbe essere il 20 gennaio. La minoranza è convinta che ci voglia assai più tempo.
Dopo la presentazione delle candidature, ci sono due mesi di tempo per la campagna delle primarie. Previsione: il 20 marzo le primarie. A scaldare i muscoli sono in tanti per competere con Renzi-Roberto Speranza nella Direzione lancia il guanto. Nei mesi passati la minoranza bersaniana l’ha incoronato leader anche se lui non ha mia sciolto la riserva.
Per ora a formalizzare la sua candidatura alla guida del Pd c’è Enrico Rossi il governatore della Toscana. Un altro governatore, il presidente del Lazio, Nicola Zingaretti questa volta sembra pensarci, mentre alle primarie del 2012 e del 2013 si era defilato. Anche Sergio Chiamparino, presidente del Piemonte, è indicato come sfidante.
( g. c.) ©RIPRODUZIONE RISERVATA

L’ULTIMA AMNESIA COME SE ALLE URNE AVESSE VINTO IL SÌ STEFANO FOLLI Rep
IERI sera, mentre i ministri giuravano al Quirinale, qualcuno faceva notare con ironia che il nuovo governo sarebbe stato perfetto se avesse vinto il Sì. In quel caso al posto di Gentiloni avremmo visto ancora Renzi, ma per il resto nessuna differenza. Maria Elena Boschi sarebbe stata premiata come in effetti è avvenuto: sottosegretario alla presidenza del Consiglio, un posto chiave per il quale occorre esperienza, tatto e profonda conoscenza della macchina statale. Doti che l’ex ministra delle Riforme non ha mai mostrato di possedere, se non altro per via della giovane età. In questo caso, tuttavia, le sarà sufficiente tener d’occhio il calendario delle nomine nei grandi enti e negli altri centri di potere, badando che i prescelti non siano sgraditi al segretario del Pd. Luca Lotti sarebbe diventato ministro, sia pure senza portafoglio. E davvero lo è diventato, mantenendo peraltro il suo ufficio a Palazzo Chigi, con competenza sull’editoria e, per buona misura, anche sul Cipe. In caso di vittoria del Sì il ministro dell’Interno avrebbe potuto pretendere un premio alla propria lealtà. Lo ha ottenuto lo stesso, visto che Alfano è da ieri ministro degli Esteri, responsabile delle relazioni internazionali dell’Italia, forse la poltrona più importante.
Si pensava che fosse interesse del nuovo presidente del Consiglio marcare un qualche grado di autonomia e non consegnarsi mani e piedi alla polemica dei Cinque Stelle e della Lega. Invece il tema del governo fotocopia, agitato dalle opposizioni, acquista legittimazione e addirittura viene sbandierato da un segmento scontento e frustrato della maggioranza come il gruppo di Denis Verdini, rimasto a mani vuote. Quasi fotocopia, per la verità: si deve riconoscere che l’ingresso di Anna Finocchiaro, parlamentare competente e da tutti stimata, è una delle poche note positive. Insieme ad altre due. La prima è la nomina di De Vincenti a ministro della Coesione nazionale, pur se il governo avrebbe tratto vantaggio dalla sua permanenza a Palazzo Chigi come sottosegretario alla presidenza e gestore dei dossier più delicati (il lavoro che da oggi, come si è detto, dovrebbe esser svolto da Maria Elena Boschi).
La seconda novità è la decisione di Gentiloni di trattenere per sé le deleghe sui servizi di sicurezza che nel precedente esecutivo erano nelle mani di Minniti, persona affidabile a cui è stata data la responsabilità del Viminale. Non è dato sapere con certezza se in questa scelta abbia pesato il consiglio di Mattarella. Di certo è fallito il complicato percorso di cui si vociferava e che avrebbe dovuto concludersi con le deleghe assegnate a Luca Lotti, l’efficiente amico e consigliere di Renzi. Questo è il punto politicamente più rilevante della giornata. La prova indiretta che il governo Gentiloni vive, come è ovvio, dell’appoggio parlamentare del Pd e dei centristi, ma anche di una buona relazione fra il nuovo premier e il capo dello Stato. È in una certa misura, o almeno dovrebbe essere, una sorta di “governo del presidente” che si appoggia da un lato al Parlamento e dall’altro al Quirinale. Al punto che si poteva immaginare che l’influenza del Colle riuscisse a favorire la nascita di un esecutivo dal profilo più alto e soprattutto più innovativo.
Così non è stato e il calcolo di Gentiloni è oggi quello di non approfondire il solco con Largo del Nazareno. Dove in effetti Renzi agisce come se il referendum avesse regalato al Pd un successo da coltivare con cura. L’idea, un filo paradossale, è che il 41 per cento del Sì costituisce un patrimonio del Pd e del suo leader. Quindi il problema è quello di non disperdere quei voti e di metterli nell’urna delle prossime politiche. Il che spiega anche perché nessun esponente del No sia stato invitato a entrare nel governo semi-fotocopia. Si capisce che il cammino di Gentiloni è impervio, forse più di quanto egli stesso immaginasse. Tuttavia il futuro è ancora da scrivere. Il nodo della legge elettorale resta cruciale e qui i toni misurati e concilianti del presidente del Consiglio, che non vuole invadere lo spazio del Parlamento, permetteranno — si spera — alle parti politiche di avviare un negoziato serio. Non saranno le “larghe intese”, ma è chiaro che la legge avrà bisogno del concorso di Berlusconi. Il che apre scenari non del tutto prevedibili.
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IL MOTORE SPENTO DEI DEMOCRATICI STEFANO CAPPELLINI Rep
MATTEO Renzi ha consegnato al suo successore Paolo Gentiloni un voluminoso report sull’attività di governo. Un passaggio di consegne, certo, ma anche e soprattutto un modo di rivendicare l’operato dei suoi mille giorni a Palazzo Chigi. Non c’è invece — e probabilmente non ci sarà — un dossier sui tre anni da segretario del Partito democratico che Renzi dovrebbe consegnare a se stesso.
CON tutta probabilità, infatti, continuerà a essere il capo del principale partito della sinistra italiana anche dopo il congresso annunciato per febbraio. Ed è un peccato non ci sia, questo report, perché risulterebbe un’utile riflessione autocritica. Risponderebbe forse Renzi: è sufficiente l’inventario dell’azione del governo a dare il segno dell’impronta politica del Pd. Ma questa convinzione rischia di essere solo un’altra illusione.
La verità è che il Partito democratico di Matteo Renzi non è mai nato. Non è nato per una scelta volontaria del leader, appunto nella convinzione che non servisse costruirlo, il nuovo Pd, dotarlo di un pensiero autonomo rispetto all’agenda di governo, arricchirlo di un gruppo dirigente animato da caratteristiche diverse dalla fedeltà al leader, calarlo nella società con modalità meno effimere del ricorso personale ai social network e agli appelli tv.
Renzi ha sempre mostrato fastidio per il suo partito. Ne ha irriso — non a torto — certi passatismi e rituali. Lo ha definito una zavorra dopo una dura sconfitta alle amministrative liquidata con la parola d’ordine del localismo. Ma ha rimosso che spettava al leader cambiarlo e rilanciarlo. Nel suo progetto di disintermediazione, anche il Pd era uno di quei corpi intermedi da aggirare, magari alimentando l’equivoco del suo esserne un po’ dentro un po’ fuori. Senza rendersi conto che questo, oltre a indebolire la sua base di consenso elettorale, nuoceva pure alla credibilità generale del suo messaggio.
La legittima paura renziana di un ritorno all’identitarismo, a un corbynismo all’italiana, è diventata in questi anni l’alibi per rinunciare a qualsiasi identità che non fosse l’azione sul campo del leader. Una sorta di dannunzianesimo politico nel quale c’è ogni volta una nuova Fiume da conquistare e da lasciarsi alle spalle senza troppi rimpianti ma spesso con molte macerie. «Questa iniziativa non è né di destra né di sinistra », ha ripetuto decine di volte l’ex premier presentando le mosse del suo esecutivo. La ricercata rottura degli schemi è stata insieme il marchio della sua ascesa e un modo di mettersi in sintonia coi tempi (non lo ripetono ossessivamente anche i Cinque Stelle?), il tentativo dichiarato di sedurre l’elettorato altrui. Obiettivo giusto in sé ma che si è rivelato nel corso del tempo più un modo di sostituire i consensi mancanti in casa propria che una via per allargare la base elettorale.
Il Renzi segretario del Pd non ha mai coltivato l’ambizione di costruire una dottrina che lo collocasse in un suo campo ben definito. Campo di idee, alleanze, organizzazione. Si è crogiolato nel lascito più scivoloso degli anni Novanta, la semplificazione del rapporto tra cittadini e politica fino alla sua completa ossificazione. Eppure, come ammonisce la parabola del leader che ha brevettato il modello, Silvio Berlusconi, nemmeno il più solido patrimonio di consenso personale sopravvive alla complessità del reale e all’inflazione della crisi se non si radica in un progetto, in una comunità politica cementata da un orizzonte comune oltre che dagli interessi, sacrosanti ma volatili, degli 80 euro in busta paga o dell’abolizione (peraltro indiscriminata) dell’Imu.
Districarsi tra la vocazione pragmatica di governo, che deve parlare a tutti, e la costruzione di una identità, che deve necessariamente parlare alla propria parte, è complicato ma irrinunciabile. Senza questo sforzo — che richiede studio, fatica, delega — l’unico esito è il plebiscitarismo, la suggestione di una osmosi tra il leader e il popolo. È una finta scorciatoia che la sinistra italiana, per mascherare le sue lacune, ha imboccato anni prima di Renzi, grazie a quel surrogato di partecipazione reale rappresentato dalle primarie. Esattamente il lavacro che oggi Renzi insegue, facendo di conto sul teorema presunto matematico secondo il quale il 40 per cento del Sì al referendum diventerà 80 per cento al congresso dem e poi di nuovo 40 per cento alle prossime elezioni.
Nel frattempo, non certo solo per responsabilità dell’attuale segretario, il Pd come comunità politica si è sfarinato, avvizzito nelle sempre più autoreferenziali beghe di corrente: ha perso voti, iscritti, ruolo. E oggi è un partito in coma, stritolato dalle debolezze di tutte le sue componenti, dalla tentazione renziana di costruire un nuovo partito a immagine e somiglianza del leader e da quella speculare della sinistra interna che, priva della forza per sfidarlo sul campo, medita di sottrarsi alla battaglia congressuale.
Il taxi, già ammaccato dalle elezioni del 2013, che ha portato Renzi a Palazzo Chigi è stato lasciato in garage tre anni. Ora si vorrebbe rimetterlo in moto per ripetere l’operazione, ma il rischio è che stavolta il motore non parta più. E che, nell’Italia dove aumenta a ogni tornata la quota di elettori che pensano di poter fare a meno della sinistra, siano altre forze a lucrare sul disagio e lo scontento dei dimenticati italiani. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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