martedì 24 gennaio 2017

Alberto Burgio: perché la sinistra italiana rimarrà strutturalmente marginale per una lunga fase










I tempi lunghi della sinistra per uscire dal ghetto
Sinistra. Una crisi di consenso e di voti a fronte di una crisi del sistema che, tuttavia, porta acqua al mulino dell’avversario. In un momento politico di debolezza del governo
Alberto Burgio Manifesto 21.1.2017, 23:59
Ci sono tutti gli ingredienti per considerare questo un momento delicato, se non proprio cruciale. Da una parte c’è un governo precario, nato, stando all’ufficialità, per fare la legge elettorale e portare il paese alle urne, benché la missione sia un’altra.
Quella di far decantare la batosta del referendum e far maturare il diritto al vitalizio per i parlamentari in carica. Dall’altra, la sinistra sembra nuovamente in grado di svolgere un ruolo, benché frammentata tra le anime belle della minoranza Pd (un paradigma di subalternità) e il cantiere in perenne ristrutturazione della cosiddetta sinistra radicale, paralizzata dall’eterno dilemma tra intransigentismo e realismo.
Si capisce che ci si interroghi su come trarre vantaggio dalla congiuntura, ma come stanno le cose? È davvero ragionevole attendersi sviluppi positivi?
Facciamo come al cospetto di un dipinto di grandi dimensioni, indietreggiamo per cogliere la scena nel suo insieme. Sul piano sociale, una crisi sempre più severa: poco lavoro (e sempre più precario e mal pagato); quindi diffusa povertà, mentre lo Stato sociale (ma anche la scuola e l’università, per non dire del territorio e delle infrastrutture) fa acqua da ogni parte. Né potrebbe essere altrimenti, con buona pace del ministro Padoan novello critico dell’austerity, visto che – al netto della crisi mondiale – su nessun altro paese «avanzato» grava (protetta da tutti i governi) una manomorta strutturale come quella costituita in Italia da corruzione, evasione ed elusione fiscale; e dato che nessun paese industriale può permettersi una cronica mancanza di politiche industriali e di investimenti nella ricerca tecnologica.
Sul piano politico, una crisi verticale della rappresentanza alimenta l’astensionismo e fa la fortuna di imprenditori della protesta capaci di incanalare il risentimento dentro una generica critica del sistema. È questa una situazione non priva di pericoli ma in teoria ottimale per la sinistra, perché cosa c’è di più fecondo di una crisi che nasce dalla sofferenza del mondo del lavoro e che nessuna forza conservatrice è in grado di affrontare? Eppure la sinistra nel suo intero, dentro e fuori il Pd, raccoglie oggi forse un 10% dei consensi. Quindi da una domanda bisognerebbe partire, al di là delle scelte tattiche o di convenienza: perché questa persistente marginalità che non accenna a venir meno, che anzi si stabilizza e tende ad apparire inevitabile?
Propongo due risposte, inevitabilmente sgradevoli, che riguardano le due componenti della sinistra.
Per quanto concerne la crisi della sinistra Pd penso che essa rifletta le sue enormi responsabilità nel disastro abbattutosi sul lavoro in questi trent’anni. Il problema non è che Bersani e D’Alema non critichino l’Europa nemmeno quando ammettono di essersi sbagliati sul conto della globalizzazione neoliberale. È che questa autocritica è superficiale e di facciata. Spieghino quali furono le cause (ideologiche e politiche) di quell’errore e quali, soprattutto, le sue conseguenze (politiche e sociali). I loro silenzi mostrano che siamo lontani anni luce dal superamento di una prospettiva che ha disancorato la parte maggioritaria della sinistra italiana dal conflitto sociale, o meglio: che l’ha di fatto schierata dalla parte del grande capitale, privando il paese di un’efficace forza di opposizione radicata nel mondo del lavoro.
Quanto alla sinistra «radicale», reca anch’essa serie responsabilità. Che risalgono in parte agli anni Novanta (quando le scissioni del Prc uccisero la speranza di contrastare efficacemente la Bolognina) ma che perdurano: che concernono l’incapacità di rinnovarsi (nonostante la lunga sequenza di sconfitte) ed evocano gli spettri del settarismo (il male antico della litigiosità interna) e del carrierismo.
Tutto questo per dire che la sinistra italiana è marginale (a guardar bene dalla fine del Pci) e tale resterà nonostante sussistano in linea di principio le premesse per una riscossa.
Nel Pd non succederà nulla, ma soprattutto, anche in caso di scissione, che cosa ce ne faremmo di un Bersani e della sua scuola? Non succederà nulla neanche a sinistra del Pd, dove tutte le manovre in corso alludono al perpetuarsi della situazione attuale, con un drappello di parlamentari intenti a esercitare il «diritto di tribuna» nel teatro politico. Il che non solo giova a poco (salvo che a un’infantile nostalgia identitaria) ma, come ogni finzione, sortisce anche effetti perversi.
C’è un’alternativa? Si potrebbe fare qualcosa per uscire da questo ghetto? Nell’immediato probabilmente no. Non basta la buona volontà per lasciarsi alle spalle una distruzione sistematica e capillare. Sarebbe tuttavia già un passo avanti riconoscere che la sinistra in Italia (come in tutta Europa) risorgerà solo se e quando una nuova leva di animali politici nascerà direttamente nei luoghi del disagio sociale e del conflitto, lungo i confini fisici e simbolici delle nostre città.

Ferrero: Non farò il segretario, ma la linea resta Sinistra/Intervista. Il segretario lascia il vertice Prc dopo dieci anni. «Sono a disposizione. La sinistra non ripeta gli errori, non basta un cartello elettorale. 5 stelle sono cresciuti dagli errori della sinistra, nel governo Prodi abbiamo aperto una prateria. Il guaio non fu la lista Arcobaleno, come si continua a ripetere. Il nuovo percorso deve partire subito. Aspettare la data del voto per fare in gran fretta una lista con i soliti bilancini stavolta porterebbe al disastro» Daniela Preziosi Manifesto 24.1.2017, 23:59
Paolo Ferrero, lei è segretario del Partito della rifondazione comunista dal 2008. Al congresso di marzo si ricandida per la quarta volta?
No. Proporrò di cambiare.
Pronto a ripensarci se i delegati glielo chiedono?
Oggi ci sono tutte le condizioni per il ricambio. Fin qui c’era chi chiedeva di cambiare il segretario volendo in realtà cambiare linea. Per questo non ho mollato. Oggi invece il 70 per cento del comitato politico ha votato in sintonia totale, fra noi non c’è mai stata una maggioranza così. Oggi si può cambiare senza rischio di cambiare linea.
Eppure lei è stato un segretario di minoranza.
Il mio indirizzo è oggi ampiamente maggioritario: un partito comunista senza nostalgie e che vuole costruire un soggetto della sinistra antiliberista.
Indicherà il prossimo segretario e/o segretaria?
No, non siamo una monarchia. C’è un gruppo dirigente perfettamente in grado di esprimere la successione. Io resto completamente a disposizione. Sarò il primo ex segretario del Prc che resterà nel partito.
Dalla segreteria di Bertinotti a ministro di Prodi a feroce avversario del centrosinistra. È stato un uomo per tutte le stagioni?
No, non ho rivendicato di aver sempre avuto ragione. Ho sbagliato ad andare al governo. l’ho ammesso, ci abbiamo fatto un congresso, abbiamo cambiato indirizzo. Fare il ministro è stata una svolta decisiva. Ci ho provato fino in fondo ma ho verificato l’impossibilità di spostare dall’interno il centrosinistra. Che era quello di Prodi e Bersani, molto più a sinistra del Pd attuale. Lì ho verificato che c’è un polo liberiste, quello della grande coalizione, e un altro polo liberista ma nazionalista e razzista. Noi dobbiamo costruire un terzo polo antiliberista. Tutti si basano sull’assunto che i soldi non ci sono. Tesi falsa in radice. I 20 miliardi per le banche ci hanno messo 20 minuti a trovarli. Il terzo polo deve dire: la ricchezza c’è, va usata per il popolo.
Il terzo polo in Italia c’è già, sono i 5 stelle.
Loro sono un terzo polo geometrico, non politico. La richiesta dell’adesione all’Alde lo dimostra.
Eppure la sconfitta storica della sinistra, oggi, è aver consegnato i suoi voti ai 5 stelle.
I 5 stelle sono nati e cresciuti dagli errori della sinistra, a partire dal governo Prodi. Lì abbiamo distrutto buona parte del nostro capitale simbolico e aperto una prateria. Il guaio non fu la lista Arcobaleno, come si continua a ripetere. Oggi M5S non è però in grado di avanzare proposte alternative. La stessa sindaca Appendino non ha grosse differenze con Fassino. I 5 stelle sono un parcheggio per i voti della sinistra. Se mettiamo in piedi una sinistra credibile li recupereremo.
Però lei a Roma ha fatto votare Virginia Raggi.
Perché se Renzi prendeva una botta alle amministrative era più facile sconfiggerlo al referendum.
Allora perché a Milano avete votato Sala?
Il Prc a Milano non ha dato indicazione di voto.
Torniamo all’irriformabilità del Pd. Ora anche Bertinotti e Vendola, usciti dal Prc nel 2008, la pensano come lei. È una sua vittoria egemonica, per dirla con Gramsci?
(Ride). Adesso l’importante è costruire il polo antiliberista. Certo Era meglio non rompere Rifondazione e fare tutti insieme la battaglia, i 5 stelle non sarebbero arrivati dove sono.
Di fatto ha vinto anche la sua eterna idea di soggetto della sinistra antiliberista. Finirete a fare un cartello elettorale con Sinistra italiana e Civati.
Il Prc non propone affatto un cartello elettorale ma un soggetto che funzioni una testa un voto, a cui ci si iscriva individualmente con la possibilità di avere la doppia tessera con i partiti che non si presentino alle elezioni. Un soggetto costruito su basi programmatiche e non ideologiche, che vada dai comunisti agli estimatori di papa Francesco, cattolici e non.
Dal ’90 i dirigenti di questa sinistra sono sempre gli stessi. Avete un evidente problema di ricambio e di classe dirigente?
L’idea della rottamazione è una scusa per andare a destra, da Occhetto a Renzi, ed io la contrasto. Ma mi dica: avrebbe fatto questa domanda ai tempi del Pci? Le classi dirigenti non si fanno in un mattino. In un mattino si fanno i teatranti con un copione scritto da altri, da Renzi ai portavoce dei 5 stelle. Detto questo c’è un problema di cambiamento. Servono volti non segnati dalle divisioni dell’ultimo ventennio.
Nel vostro futuro c’è De Magistris?
Certamente sì, ma dico a lui, e a Sinistra italiana, che ciascuno è indispensabile ma nessuno non può dire ’la sinistra sono io’: occorre un percorso unitario, e deve partire subito. aspettare il voto per fare una lista con i soliti bilancini porterebbe al disastro.
L’Altra Europa in effetti non ha fatto una bella riuscita.
È stata un’esperienza positiva. Ma quello che è successo dopo segnala che era debole nella costruzione. Serve una procedura larga e democratica, serve un soggetto politico unitario.
Al posto di Tsipras sarebbe sceso a patti con l’Europa?
La risposta sarebbe lunga e complessa. Ma una cosa è chiara per me: Alexis ha resistito, e non ha tradito.

Il secondo tempo del Comitato del NoReferendum. Prima assemblea nazionale dopo la vittoria del 4 dicembre: non facciamo una lista ma non smobilitiamo. Primo impegno la legge elettorale proporzionale. Poi la difesa e l'attuazione della Costituzione. Cambiando però l'articolo 81Andrea Fabozzi Manifesto 22.1.2017, 23:59
Non si sono persi di vista e fino a qui non è stato difficile. In fondo sono passati appena cinquanta giorni dalla clamorosa e inattesa (almeno nelle dimensioni) vittoria del No al referendum costituzionale. Anche se le dimissioni di Renzi, la nascita del governo Gentiloni e i primi nodi al pettine nei conti dello stato hanno contribuito a spostare l’attenzione sulle conseguenze immediatamente istituzionali del referendum, nascondendo la causa dietro l’effetto. Si è fatta pochissima analisi del voto, si è parlato poco di quei 19 milioni di No. Non fa eccezione il «motore» del No, le donne e gli uomini degli oltre settecento comitati locali nati spontaneamente (i primi già un anno fa quando la riforma costituzionale era ancora in parlamento): anche il loro sguardo è rivolto in avanti. La domanda è cosa fare di un’organizzazione di scopo una volta che lo scopo è stato raggiunto. Una prima risposta all’assemblea nazionale di ieri a Roma.
Assemblea in cappotto, perché lo spazio a disposizione – l’auditorium dell’ex sede abbandonata dall’Inpdap, da qualche anno in autogestione – non è riscaldato e servono a poco un paio di stufe da bar. Così è una fortuna doppia che la grande sala sia gremita. Nessuno ha voglia di chiudere l’esperienza e sciogliere i comitati. Anche perché «abbiamo solo vinto la prima battaglia», dicono in molti prima che Lidia Menapace raggiunga il podio. «Lotta, non battaglia. Basta con questo linguaggio bellico» raccomanda la partigiana novantenne, che fa sorridere spiegando che «anche il Cln era un’accozzaglia» e propone ai comitati: «Una grande iniziativa per fare del 2 giugno la festa nazionale della sovranità popolare, da festeggiare con banchetti all’aperto». Banchetti nel senso di pranzi. La proposta si aggiunge a quelle della relazione di apertura di Domenico Gallo: una petizione popolare per una legge elettorale proporzionale e l’adesione alla campagna elettorale per il Sì ai due referendum sul Jobs act (modi e forme da individuare dopo un confronto con la Cgil che li ha proposti).
Poi c’è la questione delle riforme costituzionali: capitolo chiuso? Se la parola d’ordine condivisa è attuare la costituzione, non cambiarla, da più parti si solleva l’esigenza di due interventi – limitati e puntuali, come raccomanda il presidente Alessandro Pace: la messa in sicurezza dell’articolo 138 per evitare nuove riscritture a maggioranza e il ritorno alla forma originaria dell’articolo 81 per cancellare l’obbligo di pareggio di bilancio. La prima proposta rischia di rendere più difficile la seconda, alla fine nel documento finale letto da Alfiero Grandi trova spazio solo l’articolo 81. Approvati due ordini del giorno. Il primo sulla legge elettorale guarda all’imminente sentenza della Corte costituzionale, protagonista l’avvocato Felice Besostri che martedì proverà a convincere i giudici delle leggi che l’Italicum è tutto da abbattere. Il Comitato auspica una decisione in linea con quella del 2013 sul Porcellum. Con il secondo ordine del giorno Massimo Villone riprende le proposte già presentate ai lettori del manifesto: modifiche ai regolamenti parlamentari «per dare nuova forza e vitalità alle assemblee elettive» e una riforma della legge sui referendum per facilitare la raccolta delle firme e anticipare i giudizi di ammissibilità dei quesiti.

Nello stanzone addobbato con i disegni dei «vignettisti per la Costituzione» e con al centro un bel gufo nero, è però il dibattito sul futuro dei comitati a dominare. Rinviata la questione del nome – passare dal «No» alla «Attuazione della Costituzione» – si afferma l’idea di unificare i due comitati nazionali: oltre a quello per il referendum costituzionale c’è infatti quello per la raccolta delle firme al referendum contro l’Italicum. In effetti si era partiti male, con una sconfitta, avendo i banchetti (nel senso dei punti di raccolta delle firme) mancato l’obiettivo per un soffio – e resta la traccia di un malumore verso lo scarso impegno della Cgil. I comitati regionali indicheranno un rappresentante o due nel consiglio direttivo nazionale, i comitati locali restano in campo sui temi istituzionali e costituzionali (approfondendo il rapporto tra Costituzione italiana e trattati europei) anche se non manca chi allargherebbe l’agenda ad altri temi: immigrazione, scuola, diritti sociali. «La difesa pura e semplice della costituzione non mi pare un terreno fortemente mobilitante», dice la studentessa Martina Carpani. «La lotta per la Costituzione è lotta di innovazione e trasformazione» aggiunge il professore Gaetano Azzariti. Nessuno propone di trasformare il comitato in un partito o in una lista da lanciare alle elezioni, anzi tutti gli interventi lo escludono. Anche quello di Tomaso Montanari per Libertà e Giustizia: «Sarebbe un tradimento». Anche se, dice, «nulla vieta a chi ha partecipato al comitato di candidarsi in una lista che c’è, o che ci sarà».

Sinistra europea un cantiere aperto ma a qualcuno piace Donald Dalla Germania alla Francia, aggiudicarsi le primarie non significa vincere le elezioniDI STEFANO FOLLI Rep 24 1 2017
 IERI sera Stefano Fassina, uno che ha lasciato il Pd e cerca di costruire una nuova sinistra più radicale che riformista, elogiava Donald Trump per aver affossato l’accordo di libero scambio del Pacifico. In Francia, le primarie di un Partito Socialista frastornato dagli anni di Hollande le sta vincendo un esponente della sinistra più intransigente: Hamon. A Roma e a Parigi - ma anche a Londra: vedi Corbin - i riformisti sono in crisi e il segmento che un tempo si sarebbe detto “massimalista” prende il sopravvento negli equilibri interni della sinistra. Ma vincere nella propria area non significa vincere nel paese. I socialdemocratici sono in affanno un po’ ovunque e tuttavia i loro contestatori sono lungi dall’aver conquistato il cuore dell’elettorato. Quindi, se in Francia gli epigoni di Hollande si avviano a clamorosa sconfitta, in Italia la ricostruzione della sinistra in chiave post-Renzi è un cantiere aperto e piuttosto confuso. Quanto alla Germania, pochi danno possibilità di vittoria alla Spd contro Angela Merkel e l’attenzione è rivolta ai nazionalisti anti-euro.
Del resto, la reazione positiva di Fassina e di altri alle iniziative di Trump dimostra come la filosofia politica del nuovo presidente americano scompagina i vecchi schemi e affascina una parte della sinistra europea, quella più diffidente verso la globalizzazione e l’Europa come è oggi. I no-euro di varia estrazione culturale si mescolano e si sovrappongono fra loro anche i nazionalisti di destra e i localisti di ogni colore. Siamo solo all’inizio della diffusione del “trumpismo”, ma già possiamo immaginare che gli effetti al di qua dell’Atlantico saranno considerevoli. Al momento, come è ovvio, sono le destre ad attrezzarsi meglio per recepire lo sconvolgimento. Le sinistre, come spesso accade, sono divise e incerte sulla loro identità.
IN tutto questo i palazzi romani attendono il fatidico giudizio della Consulta sulla legge elettorale. Per una volta, non è un modo per sfuggire alla sostanza dei problemi. Da come sarà plasmato il modello post-Italicum, si capirà quale sarà il destino politico del paese. Quale sarà anche e forse soprattutto il destino della sinistra. Più il sistema sarà proporzionale e più sarà incentivata la nascita di un gruppo o vari gruppi al di fuori di quel Pd in cui Renzi ha ancora la maggioranza, ma al quale deve ancora dare un’anima e una missione. Non è un caso se Berlusconi si sia pronunciato contro le correzioni maggioritarie della legge elettorale (il “premio” in seggi al vincitore): allo stato delle cose a Forza Italia conviene un proporzionale puro, salvo la soglia di sbarramento. In tal modo, dopo le elezioni ai berlusconiani sarà possibile far pesare i loro voti in più direzioni.
Un’alleanza con il Pd, in chiave di inedito centrosinistra. Un rinnovato blocco con la Lega. Si vedrà, ma non c’è dubbio che la prossima contesa sarà fra forze di sistema e anti-sistema. Con la differenza che nel maggioritario le coalizioni si formano prima del voto, mentre nel proporzionale lo scontro sarà duro soprattutto tra partiti o movimenti contigui: solo dopo il conto dei suffragi si cercheranno le alleanze e si stringeranno i patti. Il che, ad esempio, aumenterà il potere di ricatto della nuova sinistra più o meno “trumpiana”, obbligando il Pd a una seria riflessione su se stesso e sul tipo di accordi che intende sottoscrivere. Ma questo vale anche per il centrodestra. Il Berlusconi centrista e moderato di questi giorni dovrà decidere anche la sua politica di alleanze, ben sapendo che il partito a lui più affine sarà il Pd renziano. Ma la logica della politica lo obbligherà in prima istanza a cercare l’intesa con un altro “trumpiano”, il leghista Salvini. E l’esito dipenderà dai rapporti di forza usciti dalle urne.
Potrebbe anche determinarsi una situazione nuova e inquietante. Cioè che in Parlamento si manifesti una maggioranza potenziale formata dai Cinque Stelle, dalla Lega e da Fratelli d’Italia. Esiste l’ipotesi di una convergenza di fatto fra questi gruppi populisti? Prima del voto, se la legge sarà proporzionale, no di sicuro. Dopo l’inizio della legislatura, sarebbe nella logica delle cose. Quindi è bizzarro che Grillo si sia risentito per un articolo di questo giornale che fotografava la realtà. La sua risposta volgare e offensiva tradisce l’imbarazzo di fronte ai problemi nuovi che il M5S non può eludere con l’eterno richiamo alla propria purezza.
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