domenica 29 gennaio 2017

Antropologia e storia dei Mari del Sud: Marshall Sahlins

Libro Isole di storia. Società e mito nei mari del Sud Marshall SahlinsMarshall Sahlins: Isole di storia. Società e mito nei mari del Sud, Raffaello Cortina

Risvolto
Nessuna comunità umana, per quanto all'apparenza statica, confinata, isolata, può essere considerata a ragion veduta "fredda" o "fuori della storia". Lo evidenzia qui Marshall Sahlins, presentando i suoi studi su alcuni popoli del Pacifico, in particolare gli Hawaiani, presso i quali, avendo violato lo status rituale attribuitogli dagli indigeni, trovò la morte il famoso navigatore James Cook, meglio noto come capitano Cook. Sahlins sottolinea appunto che quelle "isole" (oltre alle Hawaii, le Figi e la Nuova Zelanda) hanno la loro storia che si intreccia con quella europea e, parallelamente, critica il modo "insulare" di pensare di molti studiosi occidentali, che hanno creato false dicotomie fra passato e presente, fra struttura ed evento, fra individuo e società, e sono stati a lungo indotti a ignorare le storie degli altri. 
        
Marshall Sahlins, un’inversione di rotta dal Pacifico all’Europa 
Gabriele Proglio Manifesto 28.1.2017, 18:05 
«La storia ha un ordine culturale, diverso nelle diverse società, fondato su modelli di significato» – questo è l’incipit con il quale Marshall Sahlins apre Isole di storia. Società e mito nei mari del Sud (tradotto da Enrico Basaglia ed edito per Raffaello Cortina, pp. 213, euro 20).
Sahlins continua precisando che «è anche vero il contrario: i modelli culturali hanno un ordine storico, poiché i significati vengono rivalutati, in maniera più o meno profonda, a mano a mano che si verificano nella prassi».
Questa duplicità di sguardo rompe con il formato canonico di una storia «verticale», di uno storicismo che è misura dell’uomo bianco. Tale approccio mostra tutti i limiti dello strutturalismo nel raccontare presente e passato attraverso lenti che riproducono coppie di valori (nord-sud, progresso/barbarie, sviluppo/Terzo Mondo). 
Pagina dopo pagina, l’antropologo statunitense mostra come nessuna delle comunità può considerarsi «fredda», ossia fuori dalla storia. Il terreno d’analisi è quello delle isole del Pacifico: le Hawaii, le Figi, la Nuova Zelanda. Le vicende di queste terre e di questi popoli sono inevitabilmente intrecciate con quelle dell’Europa a causa del colonialismo britannico. La riflessione di Sahlins parte proprio da qui, dal mostrare al lettore come la storia sia – il più delle volte – una narrazione del potere. 
Una narrazione che talvolta si rivela fallace, menzognera, del tutto inventata per specifiche finalità – nel caso specifico quella di rappresentare il dominio sul Pacifico della corna britannica. Un esempio? È il caso del quarto capitolo, nel quale Sahlins racconta di come il capitano James Cook – elevato a mito in tutto il Regno Unito dopo la conquista del Canada – trovi la morte per aver violato lo status rituale attribuitogli dagli hawaiani. In particolare, Cook ragiona attraverso le categorie proprie dell’imperialismo britannico, e, così facendo, trasgredisce alla teoria hawaiana della regalità divina. Se in questo caso la storia sedimentata nella società hawaiana produce effetti irreversibili, nel primo capitolo, dedicato al lessico della divinità, si mettono in luce i processi di trasformazione dei significati successivi all’arrivo delle navi inglesi. 
Nel terzo capitolo, invece, Sahlins imbocca un altro percorso di ricerca: la comparazione del sistema di regalità divina figiana con quelli indoeuropei – riferendosi ai lavori di Dumézil, Frazer e Hocart. Sahlins indaga, in particolare, la dimensione del genere. Annota: «il re figiano si presenta sia come maschio sia come femmina; la sua natura rituale e politica è duplice, è l’uno o l’altra secondo il contesto». 
L’antropologo si chiede, a questo punto, se tale duplicità vada letta nella prospettiva sincronica o diacronica. Nel primo caso ne conclude che «parrebbe un’ambiguità permanente». Invece, nella prospettiva diacronica tale doppiezza è frutto di un «effetto derivato», sia sul piano del principio sia su quello del significato. Significa, in altre parole, pensare le culture fuori dai musei e dalle teche nelle quali sono state racchiuse, dal tentativo ostinato di classificazione, di mappate oltre i confini del «mondo», quello europeo e occidentale, una geografia centrata sul Vecchio Continente, sulla bianchezza come regola del dominio e dell’egemonia. Sahlins mostra, cioè, altre possibili articolazioni del tempo, del genere, del cambiamento e della stabilità, dei ruoli sociali. 
Il libro di Marshall Sahlins va assolutamente letto. I motivi sono molteplici. Provo, qui, a trattarne almeno due. Le argomentazioni di Sahlins mostrano quanto i modelli strutturalisti in antropologia – da Lévi Strauss a Evans-Pritchard – pieghino la complessità delle società analizzate a un discorso eurocentrico, occidentale, a quello che l’antropologo americano chiama «modello insulare»: una rappresentazione fatta di opposizioni dicotomiche. 
Riflessione che, ovviamente, vale anche per la storia e per tutte le altre discipline umanistiche.
Sahlins – e passiamo al secondo motivo – non rinuncia mai ad analizzare le molteplici sfaccettature dell’interrelazione tra le culture. Precisa, infatti: «Il vero problema sta nel dialogo tra senso e riferimento, nella misura in cui il riferimento espone il sistema del senso al rischio rappresentato da altri sistemi: il soggetto intelligente e il mondo intransigente. E la verità alla base di questo dialogo più generale consiste nella sintesi indissolubile di termini quali passato e presente, sistema ed evento, struttura e storia». Già, forse questo è un libro che parla, sì, delle isole del Pacifico, ma che, in verità, ha per oggetto l’Europa, di ieri e di oggi.

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