domenica 15 gennaio 2017

Arriva il Reagan populista dai capelli arancioni

Alesina Corriere della Sera

Corriere della Sera
Il mondo di Trump L’asse con Mosca e gli anti-euro così rovescia le strategie americane
Il nuovo presidente prepara una svolta radicale rispetto a Obama e agli ultimi quarant’anni di diplomazia Usa. Rapporti stretti con Putin per arginare Pechino, ormai considerata un partner sleale. E con l’invito del Cremlino ai colloqui di pace riparte la trattativa sulla Siria
FEDERICO RAMPINI 15 1 2017
NEW YORK. Rivoluzione copernicana. Il mondo di Trump è un capovolgimento di prospettive e strategie, una rotazione a 180 gradi rispetto a Barack Obama. La Russia al posto della Cina come partner indispensabile. Gli anti-europei come interlocutori privilegiati sul Vecchio continente. Patto di ferro con Israele. Pugno duro su Iran e Cuba. Il vero ostacolo da superare per questo ribaltamento è all’interno del partito repubblicano dove la destra classica non è certo filo- russa. Ma la politica estera è il terreno “sovrano” del presidente, dove subisce meno condizionamenti. C’è anche il cambiamento radicale nello stile: come si è visto su Cina-Taiwan, il neo-presidente può provocare un terremoto internazionale con un solo tweet. Nel caso di un presidente degli Stati Uniti si può adattare il detto di Marshall McLuhan («il medium è il messaggio»), nella sua proiezione internazionale «lo stile è sostanza ». Quanto Trump sia deciso a stravolgere l’eredità obamiana, lo conferma lui stesso in un’intervista al Wall Street Journal dedicata alla politica estera. Non ci sono novità rispetto ad altre sue prese di posizione, ma questa è di per sé una notizia: gli scandali multipli sugli hacker russi e le incursioni ordinate da Vladimir Putin non lo hanno scosso né smosso. Insieme all’intervista, arriva la notizia che a fine dicembre il suo consigliere per la sicurezza nazionale, il generale Michael Flynn, ha scambiato sms e telefonate con l’ambasciatore russo a Washington, Sergei Kislyak, proprio mentre Obama varava le ultime sanzioni alla Russia per punirla delle ingerenze nella campagna elettorale. Dunque la squadra Trump, anche nella sua componente militare, manovra alle spalle di Obama per rassicurare Putin.
Dalla Russia quindi bisogna partire. Trump vuole instaurare un rapporto proficuo con Putin ed è disposto a rinunciare alle sanzioni. Unica concessione formale a Obama: le sue sanzioni resteranno in vigore «almeno per un periodo di tempo». In fondo, a un negoziatore nato come Trump fa pure comodo averle in tasca, come elemento di scambio in una trattativa con Putin. Dal quale lui si aspetta anzitutto un contributo nella battaglia contro il terrorismo islamico, in Siria e altrove. A quel punto, è la domanda retorica che si pone Trump, se con Putin «si va d’accordo e la Russia aiuta davvero, perché mai avere delle sanzioni contro qualcuno che fa cose ottime?». Una levata delle sanzioni spianerebbe la strada al ritorno della Russia in un redivivo G8. Un successo d’immagine per Putin, che dopo essere stato messo in castigo rientrerebbe dalla porta maestra nel club dei grandi.
L’esatto contrario con la Cina. La rivoluzione copernicana non è solo rispetto all’era Obama, ma rispetto a 40 anni di politica estera americana. È negli anni Settanta che il viaggio di Richard Nixon e Henry Kissinger in Cina, il disgelo con Mao Zedong, inaugura un’era in cui l’America “gioca la carta cinese contro Mosca”, si avvicina alla Repubblica Popolare per indebolire il blocco sovietico. I passi successivi saranno balzi da gigante quando nel 2001 la Cina entrerà nel Wto, cooptata dagli americani nel commercio globale. Per Trump non esistono dogmi. Come già dimostrò accettando la telefonata della presidente di Taiwan, lui rimette in discussione perfino il principio che esiste “una sola Cina”, quella di Pechino, un assioma che consentì il ristabilimento delle relazioni diplomatiche fra gli Stati Uniti e la Repubblica Popolare nel 1979. Tutto torna ad essere negoziabile, fungibile. Al centro della questione cinese c’è l’aspetto economico. Trump accusa Pechino di concorrenza sleale in particolare attraverso la manipolazione del renminbi, la svalutazione competitiva. Ci sono gli estremi di una guerra commerciale perché se il Tesoro Usa denuncia formalmente la “manipolazione valutaria”, può far scattare ritorsioni immediate e pesanti.
L’Europa non è in cima ai pensieri di Trump se non in chiave negativa. La Nato costa troppo al contribuente americano, se gli europei vogliono una difesa efficiente se la paghino. La simpatia verso i populisti anti-euro è istintiva per Trump che suggerì a Londra di nominare Farage come ambasciatore negli Usa. Theresa May potrebbe essere il primo leader europeo invitato a Washington nel nuovo corso. In Francia sia una vittoria di Marine Le Pen che di François Fillon possono andar bene a Trump.
Il Medio Oriente è un altro specchio rovesciato rispetto a Obama: via libera agli insediamenti dei coloni israeliani nei territori palestinesi, le scelte del prediletto Benjamin Netanyahu non si discutono. L’eventuale spostamento dell’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme sarebbe un gesto clamoroso, uno schiaffo a tutto il mondo arabo. L’accordo con l’Iran sul nucleare «è pessimo» secondo Trump, ma stracciarlo è complicato essendo multilaterale (lo firmò anche Putin): la nuova Cia diretta da Mike Pompeo potrebbe però fare una vigilanza implacabile sul rispetto di tutte le clausole, pronta a denunciare ogni infrazione. ( 1 continua)
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Le scelte dell’america
Tante leggi in extremis il “vizio” ricorrente dei presidenti uscenti 
15/1/2017
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
NEW YORK . Ci mancherebbe il perdono finale a Chelsea Manning per coronare l’iperattivismo di Barack Obama negli ultimi giorni della sua presidenza. Questo presidente ha già varato una mole immensa di “ordini esecutivi”, cioè quasi-leggi dall’applicazione immediata, su temi sui quali ha potere di legiferare senza passare dal Congresso. Dall’ambiente alla politica estera. Divieti di trivellazioni in ampie tratte costiere. Stop al maxi- oleodotto col Canada. Nuovi parchi nazionali e monumenti protetti. Sanzioni aggiuntive alla Russia. Più un atto politicamente potente ma senza portata pratica come l’astensione sulla mozione di condanna verso Israele all’Onu per gli insediamenti illegali. I parlamentari repubblicani denunciano questo ingorgo finale di direttive presidenziali come un abuso di potere. Donald Trump invece minimizza: «Il bello con gli ordini esecutivi è che il nuovo presidente li cancella con la stessa velocità. Bùm. Primo giorno, prima ora, primo minuto, puoi eliminarli».
Questo film però è un replay, giunto all’ennesima versione, con poche varianti. Così fan tutti. Se il famoso impatto dei “primi cento giorni” è spesso un mito, invece gli ultimi cento giorni sono davvero incisivi. Ogni presidente, almeno in epoca recente, ha accelerato la sua produttività in modo esponenziale quando si avvicinava il trasloco. Jimmy Carter nel 1980 prima di lasciare il campo a Ronald Reagan promulgò in fretta 10.000 pagine di nuove regole, tra cui l’obbligo dei “crash test” per la sicurezza delle auto. Fu con Carter che venne coniato il termine “ midnight rules”, le regole di mezzanotte, per indicare l’attivismo dell’ultim’ora. Una giornalista di destra, Barbara Olsen — poi tragicamente scomparsa su un aereo dirottato l’11 settembre 2001 — scrisse “ The Final Days”, un libro per denunciare gli atti di Bill Clinton nel crepuscolo della presidenza: il più famigerato (criticato anche dai democratici) fu il perdono al finanziere Marc Rich che era stato un donatore di Clinton. Anche Bill varò all’ultimo momento direttive ambientaliste; più l’adesione Usa alla Corte criminale internazionale. E 608 pagine di direttive “ergonomiche” per la protezione dei lavoratori nei luoghi di lavoro. George W. Bush non fu da meno, all’ultimo momento concesse all’Fbi poteri ampliati di spionaggio ai danni dei cittadini Usa. E quando Obama arrivò alla Casa Bianca nel gennaio 2009, si fece preparare da un think tank amico (il Center for American Progress di John Podesta) un vero e proprio manuale per l’uso: su come disfare il più rapidamente le direttive dell’ultima ora firmate dal predecessore. Lo stesso manuale — “ Cleaning Up and Launching Ahead” — contiene però consigli preziosi su come confezionare gli editti del presidente in modo che risulti complicato e macchinoso per il successore annullarli. Tutte informazioni che in queste ore vengono consultate avidamente dallo staff di Trump. ( f. ramp.) ©RIPRODUZIONE RISERVATA

Trump, mano tesa alla Russia “Pronto a togliere le sanzioni” 

Il presidente eletto invita Mosca a collaborare: “Potrei vedere Putin a breve” Nuova sfida a Pechino: nessun impegno sulla politica della Cina Unica 
Francesco Semprini Busiarda 15 1 2017
Una sponda da Mosca, una stoccata a Pechino. Mentre a Washington prosegue il conto alla rovescia per l’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, Vladimir Putin sgombra il campo da ogni equivoco tendendo la mano all’amministrazione entrante con un invito al tavolo delle trattative sulla Siria. E il tycoon ricambia annunciando la volontà di richiamo delle sanzioni nei confronti di Mosca. Mentre sul fronte cinese Trump si conferma inflessibile e rilancia la sua volontà a tenere aperto un canale di dialogo con Taiwan interrompendo la consuetudine politica della «sola Cina» che ha percorso indistintamente le passate amministrazioni democratiche e repubblicane.
Ancor prima di vestire i panni del «commander in chief», il presidente eletto inaugura il nuovo corso della sua politica, e lo fa consumando uno strappo con il predecessore. Trump è pronto infatti a eliminare le sanzioni alla Russia, a partire dalle ultime varate dall’amministrazione Obama a dicembre, se Mosca si dimostrerà collaborativa. L’annuncio, per nulla inatteso, giunge dallo stesso presidente eletto in un’intervista al Wall Street Journal, durante la quale Trump si è detto pronto a incontrare Vladimir Putin dopo il giuramento del 20 gennaio. La notizia arriva in coincidenza dell’annuncio, questa volta giunto da Mosca, col quale la Russia avrebbe invitato l’amministrazione Trump a unirsi ai negoziati di pace sulla Siria che Mosca vuole avviare con Turchia e Iran. 
Lo rivela il Washington Post citando fonti del Transition team, secondo cui l’invito sarebbe arrivato nel corso di una telefonata del 28 dicembre tra Michael Flynn, nominato da Trump consigliere per la sicurezza nazionale, e l’ambasciatore russo a Washington Sergei Kislak. Fino ad oggi l’amministrazione Obama era stata esclusa dall’iniziativa di Mosca sui negoziati di pace sulla Siria, in particolare al previsto forum di Astana, in Kazakistan, in occasione del quale si siederanno al tavolo dei colloqui Iran, Turchia e Russia stessa.
L’ingresso degli Usa potrebbe rappresentare un primo passo per il rafforzamento della cooperazione tra Russia e Stati Uniti dopo il rischio di veder incrinati anche i rapporti tra Putin e Trump sull’indagine sulle attività di hackeraggio russe accusate di aver falsato le presidenziali americane. Indagine che farà la commissione intelligence del Senato per fare chiarezza soprattutto sui sospetti contatti tra il Cremlino e l’entourage trumpiano. Sul fronte del Dragone invece Trump la mano la tende al nemico giurato di Pechino, ovvero Taiwan. Sempre nell’intervista al Wsj, Trump ha chiarito che non intende impegnarsi sulla politica di «una sola Cina» finché non vedrà progressi da parte di Pechino sul fronte dei cambi e delle pratiche commerciali. 
«La politica di una sola Cina non è negoziabile», tuona Pechino le cui tensioni con Washington si sono acuite da quando Trump, accettando una telefonata di congratulazioni del presidente di Taiwan Tsai Ing-wen, è sembrato rimettere in discussione la decennale politica degli Usa, che non ha relazioni diplomatiche con l’isola considerata dalla Cina una provincia ribelle.
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L’economia di Trump  Più barriere, meno tasse e Wall Street apre un creditoDow Jones ha guadagnato il 9% da quando è stato eletto e pure i critici ammettono: il protezionismo potrebbe funzionareFEDERICO RAMPINI Rep 16 1 2017
CHE TRUMP non ami i media è un fatto piuttosto noto, ma nessun presidente aveva ancora mai pensato di “cacciare” i giornalisti dalla Casa Bianca. The Donald un pensierino (o forse anche qualcosa di più) lo ha fatto.
Wall Street smentendo tutte le previsioni è in luna di miele con Donald Trump, da quando lui è stato eletto l’indice Dow Jones ha guadagnato il 9% e il solo settore della finanza “vale” ben 460 miliardi di dollari in più. Perfino un radicale di sinistra come il premio Nobel dell’economia Joseph Stiglitz offre a Trump una – sia pur limitata – apertura di credito: il suo protezionismo potrebbe funzionare. Almeno nel breve termine. Stiglitz ragiona così: i dazi e le barriere che immagina Trump contro Cina e Messico possono violare i trattati, ma prima che arrivino le sanzioni dei tribunali internazionali (Wto) gli Stati Uniti incasserebbero un miglioramento del loro deficit estero. Inoltre l’America dipende meno della Cina dalle esportazioni. In un braccio di ferro tra i due colossi dell’economia globale, è Pechino che ha più da perdere perché il suo modello di sviluppo nell’ultimo quarto di secolo è trainato dall’export, mentre l’America è il più grosso mercato aperto ai prodotti altrui. Siamo nell’ambito delle ipotesi, delle simulazioni, della “teoria dei giochi” su mosse e contro-mosse di un’ipotetica guerra commerciale che alla fine potrebbe danneggiare tutti.
La stessa sospensione di giudizio – almeno da parte dei mercati – vale per l’altra ipotesi di lavoro di Trump: riducendo poderosamente le tasse alla fine si ridurrà il deficit pubblico, perché una crescita più forte arricchisce tutti, fisco incluso. Né bisogna preoccuparsi degli effetti redistributivi all’incontrario – la riduzione della pressione fiscale va a vantaggio delle imprese e dei ricchi – perché chi ha più mezzi investirà di più, creando lavoro e redditi per tutti gli altri. Queste teorie risalgono ai tempi di Ronald Reagan, quando i guru del neoliberismo erano Milton Friedman e Arthur Laffer, le mode ideologiche si chiamavano “curva dell’offerta” e “ trickle- down effect”. Quest’ultimo, l’effetto-cascata, sta a dire che se aiuti i ricchi quelli investendo aiutano tutti gli altri e la loro prosperità si diffonde come tanti rigagnoli che scendono giù per la piramide sociale. In quanto alle finanze pubbliche, l’idea che un forte sgravio fiscale paradossalmente finisca col curare deficit e debito, fu contestata a destra dai rigoristi dell’austerity (George Bush padre la definì “ Vodoo economics”, una teoria economica degna degli stregoni e della magia nera). La sinistra è un po’ più possibilista: i tragici effetti dell’austerity europea dimostrano che l’ossessione per ripianare i deficit uccide la crescita.
Trump non è un ideologo, può procedere sperimentando. E tastando il terreno con il Congresso, che avrà quasi sempre l’ultima parola. Per l’economia, a differenza che in politica estera, i poteri del presidente sono limitati. Le grandi leggi di bilancio, entrate o spese, devono passare attraverso Camera e Senato. Dove c’è una corrente repubblicana di falchi anti-deficit, che può creargli dei problemi se le prime mosse di Trump sono destabilizzanti per i conti pubblici. Però all’inizio dovrebbe esserci una luna di miele anche in sede parlamentare, la maggioranza repubblicana non vorrà mettersi subito di traverso al suo presidente. Il quale ha dimostrato di saper maneggiare la comunicazione meglio di tutti i suoi avversari.
L’effetto-annuncio è quello che lui sta saggiando dall’8 novembre. Con i casi Carrier e Ford, è intervenuto personalmente su due multinazionali che stavano spostando fabbriche in Messico e oplà: i top manager si sono inchinati al futuro presidente, gli stabilimenti e i posti di lavoro restano in America. Fiat Chrysler a sua volta ha annunciato un miliardo di nuovi investimenti negli Usa. Trump manovra abilmente minacce, promesse, lusinghe. Offre – sempre che il Congresso glielo approvi – un formidabile sconto della tassa sugli utili, dal 35% al 15%. Di che agevolare anche il rimpatrio di capitali da parte di tutte quelle multinazionali (Apple & C.) che li hanno parcheggiati all’estero. La torta in gioco, se si guarda all’insieme degli investimenti esteri diretti delle multinazionali Usa, è di 5.000 miliardi: basterebbe farne rientrare una frazione e già sarebbe un bel colpo. Il castigo per chi non sta al gioco sono dazi punitivi, fino al 35%. Probabilmente illegali, ma se il bluff funziona, forse basta agitare lo spauracchio. Nell’elenco dei favori promessi alle imprese c’è la bandiera classica della destra liberista, la deregulation.
Anche finanziaria, donde l’esultanza di Wall Street. E con un forte accento sulla sua dimensione energetica e ambientale: Trump ha più volte denunciato le politiche di Obama contro il cambiamento climatico come una persecuzione dell’industria americana. Lui vuole tornare alla massima libertà di uso delle energie fossili di cui gli Stati Uniti abbondano. Il piano di investimenti in infrastrutture è la cosa più “di sinistra” che lui ha promesso di fare: Hillary Clinton e Bernie Sanders lo volevano anche loro.
È anche una cosa di buon senso, vista la tremenda decrepitudine di aeroporti, autostrade, ferrovie, rete elettrica. Il problema è il costo. Mille miliardi di investimenti, sia pure in parte privati (ma con sgravi fiscali e quindi a carico del contribuente), saranno uno dei bocconi indigesti da far digerire al Congresso repubblicano.
( 2 - continua) ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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