mercoledì 11 gennaio 2017

Chiesa, bestiari e iconografia del potere

Draghi e colombe gli animali che fecero grande il potere papale 
Il saggio di Agostino Paravicini Bagliani ricostruisce l’evoluzione dei simboli nella storia della chiesa
MORENO MONTANARI 31 12 2016

Può sembrare curioso il punto di vista dal quale Agostino Paravicini Bagliani sceglie di introdurci ai simboli del potere papale ( Il bestiario del papa, Einaudi). Tuttavia, da una prospettiva junghiana, esso coglie doppiamente nel segno perché gli animali, come la religione, rimandano alla dimensione extraumana e sovrapersonale ma sono al contempo, come simbolo di impulsi istintuali e dunque “bassi”, tutto ciò che la chiesa vuole domare, per porlo al servizio di una più “alta” espressione dello spirito. In questo senso l’animale è metafora stessa dell’inconscio, sia come Ombra della ragione, sia come medium, figura psicopompa, tra il mondo umano e quello dello spirito. Questo è popolato di immagini archetipiche, in questo caso animali, che permettono all’individuo di trascendere la coscienza e di spingere la psiche nelle più segrete profondità delle sue radici: l’inconscio collettivo e le sue fantasie ancestrali. Come nota l’autore, «all’interno della cultura occidentale, gli animali sono il medium condiviso » del quale il papato si è servito per puntellare e significare la propria sovranità; ma il valore simbolico di certi animali, dalla colomba al serpente, dal cavallo al mulo, dall’aquila al leone, dalla fenice al drago, muta con il mutare dei tempi, della concezione che la chiesa ha di se stessa e del modo in cui viene progressivamente intesa dall’immaginario collettivo. Così, a fronte di un’apparente inerzia simbolica, il libro ci guida all’interno di una vera e propria genealogia dei simboli del potere che è al contempo un’introduzione al potere dei simboli e alla storia della loro trasformazione.

L’essenza del simbolo è infatti quella di non ammettere alcuna schematizzazione, pena il declassamento a stereotipo o mero simulacro. Dal punto di vista junghiano un simbolo è tale solo finché resta “vivo”, ossia riesce a veicolare, meglio di qualsiasi altra espressione, un significato mai del tutto codificabile, perché in massima parte inconscio, e ad ogni modo irriducibile ad un’unica interpretazione. Il simbolo, infatti, non riveste la funzione analogica di nominare ciò che è conosciuto ma quella di produrre le stesse condizioni di conoscibilità di ciò che è nominato, in una formula, rende possibile l’accesso al reale. Non appartiene alla semiotica, non rimanda cioè ad una realtà significata, ma è esso stesso una realtà operante capace di chiamare in causa l’intero psichismo dell’uomo e di combinare in un’impressione unitaria e totalizzante elementi tra loro disparati e persino contrari (simbolo, deriva dal greco synballein, “mettere assieme parti separate”).
Così se nel IV secolo il Drago, che Silvestro I sarebbe riuscito a rendere innocuo in nome di Gesù Cristo, simboleggia l’anticristo e la paganità che il papa sconfigge, dimostrando la propria superiorità su di essi, nel XVI secolo, con Gregorio XIII, diviene simbolo del papa che si pone a guardia della Porta Santa – i draghi stanno a protezione dei più preziosi tesori – e della vittoria “sui serpenti nel deserto” – gli eretici della riforma protestante creando i presupposti perché, nel secolo seguente, Papa Paolo V Borghese possa scegliere come proprio simbolo un drago in piedi con le ali spiegate, per significare il suo potere salvatore e di mediatore tra cielo e terra. Così l’eroe è al contempo colui che sfida e vince il drago e il drago che protegge e vince sul male.
Il significato di un simbolo è sempre dinamico: cambia dal contesto e dalla risonanza nella coscienza di chi lo sperimenta, si pone come un’esuberante sorgente di idee e come uno straordinario stimolatore dell’attività creatrice della fantasia, ma secondo la personalità e lo sguardo di chi lo vive e i canoni, rivisitati, dello spirito del tempo. Ne costituisce un’ultima testimonianza il taglio di fratellanza ecologica con il quale papa Francesco concepisce la relazione con il creato che, se da una parte è affidato all’enciclica Laudato sì, dall’altro è simboleggiato dalla proiezione degli animali dell’Arca di Noè sulla facciata di San Pietro in occasione dell’inizio del Giubileo della misericordia. Il potere universale della chiesa, che vuole governare su tutta la natura e su tutta la storia, non è più presentato in veste di dominio ma di presa in carico e custodia. Allora, ciò di cui davvero si occupa questo bestiario del papa è l’uomo come animale simbolico.
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La vita al tempo dei mostri alati Immaginari. Un percorso di letture per indagare la polisemia di alcuni simboli della tradizione classica e cristiana 
Marina Montesano Manifesto 14.4.2017, 15:07 
«Al mondo ogni creatura è come un libro e una pittura per noi, e uno specchio. Della nostra vita, della nostra morte del nostro stato, della nostra sorte fedele simbolo».
Cantava così, in pieno XII secolo, il filosofo e poeta Alano di Lilla. Fedele alla massima pitagorico-neoplatonica secondo la quale tutto ciò ch’è in alto è come quel ch’è in basso, l’universo medievale e umanistico – e sarà così fino all’avvìo delle scienze sperimentali che, tra Cinque e Seicento, riformeranno la «visione del mondo» – è un mirabile e coerente insieme nel quale ogni parte somiglia e corrisponde alle altre secondo un complesso sistema di speculari rapporti analogici. L’immensamente grande e l’immensamente piccolo si corrispondono: nulla accade in una parte dell’universo che non si rifranga e non si ripercuota nelle altre. 
L’UMANO è microcosmus, «piccolo universo» concentrato, esattamente come tutto il creato è macrocosmus, «grande universo» esteso e dispiegato. Ogni costellazione e ogni pianeta – ciascuno incastrato nel proprio cielo etereo e mosso nella sua orbita dalla forza impressagli dall’empireo – ha le sue virtù, che proietta nell’universo sensibile e sublunare, quello costituito dalle sfere dei quattro elementi (fuoco, aria, acqua, terra) al centro del quale, nel globo planetario terraqueo (costituito cioè essenzialmente dai quattro elementi empedoclei e aristotelici più grevi), vivono gli esseri animati – piante e animali – che sono tessuti dei quattro elementi, variamente distribuiti in ciascuno di essi, mentre l’intero mondo animale, vegetale e minerale è soggetto all’influenza di stelle e di pianeti e ne accoglie gli influssi. Anche l’uomo, dotato di quell’anima immortale che gli è stata fornita dal soffio divino, è compartecipe di quest’ordine e della fitta rete delle sue norme. 
LA SCIENZA ANTICA, medievale e umanistica si compendia e si dispiega tutta nello studio di queste corrispondenze, alle quali i trattati detti «bestiari», «erbari» e «lapidari» – i quali descrivono i componenti dei tre regni naturali: animale, vegetale, minerale – forniscono una chiave non tanto scientifico-naturalistica nel senso nostro (che pure è presente, specie sotto forma di esposizione delle «virtù» – cioè delle caratteristiche, qualità e potenzialità terapeutiche – di ciascuna specie), quanto piuttosto etica. Non v’è quindi animale, pianta o gemma che non rinvii a un corpo celeste e non sia simbolo di un aspetto del mondo divino, angelico o demonico, oppure di un vizio o di una virtù.
I bestiari, in modo particolare, offrono un campo di indagine imprescindibile. Esiste un «bestiario del Cristo», al quale in passato molti studiosi della simbolica medievale hanno dedicato la propria attenzione.
Mancava tuttavia un «bestiario del papa», al quale provvede oggi Agostino Paravicini Bagliani (Il bestiario del papa, Einaudi, pp. 380, euro 32). Si parte dalla constatazione che i papi, al pari dei grandi sovrani e degli imperatori, tenevano un serraglio di animali. Ma questi, oltre a testimoniare del lusso della corte pontificia, avevano una valenza simbolica potente: perché il più antico cortile del Vaticano si chiama Cortile del pappagallo? Perché la colomba e il drago hanno svolto una funzione preminente nella storia del papato? È una rassegna di animali simbolici quella che passa nel volume di Paravicini Bagliani. Per esempio il grifone, che deriva dalla ricchezza della tradizione greca e orientale. La tradizione cristiana lo associa alla difesa dei luoghi sacri (quindi alla tutela contro i pericoli) e all’ascesa delle anime al cielo, com’è suggerito dalla doppia natura di uccello rapace e di forte animale benefico. I due caratteri associati, l’aquila (emblema divino) e il leone (umano e regale), su cui hanno insistito anche grandi studiosi come Rudolf Wittkover, hanno fatto sì che nel grifone si sia visto un perfetto simbolo cristico: tale esso è attestato in Isidoro di Siviglia e in Dante (Purg., XXIX). 
In Grecia e a Roma si contrapponeva la mitezza della colomba alla fierezza delle aquile e dei corvi e si sosteneva che ciò derivava dal fatto che essa non avrebbe disposto di glandole biliari. Il carattere di mitezza e di pace attribuito alla colomba nel mondo vicino-orientale spiega forse perché essa viene scelta da Noè, dopo il corvo, quale messaggera, e torna tenendo in segno di pace un ramoscello d’olivo nel becco. La colomba della pace trova nel Genesi la sua spiegazione. In seguito, in Matteo (3, 16) la colomba che scende su Gesù all’atto del suo battesimo a indicare la predilezione del Padre per il Figlio è divenuta in seguito simbolo tradizionale dello Spirito Santo perché nella scena del battesimo si è vista una teofania della Trinità. In questo senso, la colomba riflette la qualificazione dello spirito santo come Amore, quindi Carità. Ma come altrettante colombe s’indicano già fin dalla tradizione paleocristiana i «sette doni dello Spirito santo», simboleggiati anche da altrettanti candelabri; e quindi – come la colomba di Noè, che viene dall’acqua per annunziare che Dio è ormai placato – si presentavano come colombe anche i cristiani che erano stati appena battezzati e venivano dalle acque del fonte battesimale. 
OPPURE SI PARLA del muschio, il «buon profumo del Cristo»: la sostanza che si estraeva dalle ghiandole di un mammifero asiatico e che veniva e viene usata come agente fissativo ed è dunque preziosa nell’industria dei profumi. O ancora della fenice, il cui mito viene compiutamente narrato da Ovidio in Metamorfosi (XV, 392-400), dal quale traevano argomento tutti i bestiari medievali fino a Dante, il quale scriveva: «Così per li gran savi si confessa / che la fenice muore e poi rinasce, / quando al cinquecentesimo anno appressa; / erba né biado in sua vita non pasce, / ma sol d’incenso lagrime e d’amomo, / e nardo e mirra son l’ultime fasce» (Inferno, XXIV, 106-111). Ma nel libro di Paravicini Bagliani non abbiamo soltanto una rassegna degli animali che compongono il bestiario del papa. Il nucleo forte è dato dalla capacità di legare questi temi alla storia politica del pontificato medievale, del quale l’autore è da decenni uno dei principali esperti 
ANCHE LA RACCOLTA di saggi di Carmelina Urso: La mentalità medievale fra immaginario e simbolismo (Mario Adda Editore, pp. 240, euro 20), si muove in campi nei quali storia sociale e immaginario si intrecciano. Sovente con riferimento alla condizione femminile: la maternità nel Medioevo con il suo corredo di usi, credenze, teorie mediche, riferimenti alla Storia Sacra; ma anche l’alterità dinanzi alla maternità, offerta da vetulae e streghe. C’è spazio per la concezione del corpo e della gestualità medievali: il bacio con i diversi significati simbolici che ad esso vengono attribuiti; e soprattutto i capelli, intorno ai quali si costruisce un complesso discorso sulle identità regali (i lungi capelli dei re merovingi), femminili (il lusso, la modestia), ecclesiastiche (la tonsura).
Siamo insomma dinanzi a un immaginario medievale proteiforme, che non significa astrazione dal reale, ma che anzi mira ad approfondire la conoscenza e la rappresentazione del reale attraverso la polisemia del simbolo. 

SCHEDA 
Sembra che l’origine dell’immagine e del mito della fenice derivi dal mitico volatile egizio detto Benu, l’airone che sarebbe stato nel mito cosmogonico il primo a posarsi sulla collina primordiale uscita dal fango. Il Benu era un simbolo sacro alla divinità del sole, e veniva difatti adorato a Heliopolis, dove si diceva comparisse una volta ogni cinquecento anni. Dall’originale colore cinereo del Benu (cui va forse riferito il mito dell’incinerimento della fenice), si passò a immaginare il mitico volatile come di color rosso, riferito evidentemente alle fiamme. Più tardi la si dipinse però in oro o in molti colori, e così essa si presenta in Roma a partire dall’età d’Augusto, dove divenne simbolo della forza vitale sempre rinnovantesi dell’impero e come tale s’incontra effigiata su monete e mosaici. Per questo i Padri della Chiesa interpretarono la fenice come simbolo dell’immortalità dell’anima e della resurrezione del Cristo: e come tale essa passò al capostipite dei bestiari medievali, il Phisiologus.

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