domenica 29 gennaio 2017
Compagno Padoan
Da Critica marxista a Renzi. Il dibattito nel Pci, oltre la regolazione del conflitto di classe e la prospettiva socialdemocratica, per un superamento del capitalismo
di Sergio Cesaratto, da il manifesto del 26.2.2014
Il nuovo ministro dell’Economia
Piercarlo Padoan era ben presente nel dibattito economico della sinistra
dei caldi anni ’70. In particolare nel 1975 Critica marxista pubblicò
una sua relazione dal titolo assai impegnativo “Il fallimento del
pensiero keynesiano” che riassumeva il lavoro di un gruppo di giovani
economisti costituito presso l’Istituto Gramsci sul tema “Limiti del
dirigismo e fondamenti teorici della politica delle riforme”. Anche il
manifesto aveva dedicato grande attenzione a questo tema negli anni
precedenti col dibattito su “Spazio e ruolo del riformismo” pubblicato
come volume nel 1973. Un numero successivo di Critica Marxista ospitò
una nota critica di Giancarlo De Vivo, un acuto economista della scuola
di Sraffa e Garegnani, e la replica dello stesso Padoan.
La relazione di Padoan ripercorre gli
elementi della teoria di Keynes e delle successive interpretazioni, sia
quelle volte a ricondurlo nell’alveo della teoria tradizionale, che
quelle più radicali. Le conclusioni circa il perdurare del successo
delle politiche keynesiane a fronte delle turbolenze degli anni ’70 sono
però piuttosto negative. Sebbene si riconosce l’efficacia delle
politiche di sostegno alla domanda aggregata per la piena occupazione,
ottenute in particolare attraverso aumenti salariali, la relazione
afferma che all’aumento della domanda “non corrisponde però sempre un
adeguamento della struttura produttiva (una volta raggiunto il tetto
della capacità produttiva esistente, oppure anche prima, se si tiene
conto di strozzature dovute alla presenza di monopoli o di posizioni di
rendita) e si hanno così dei persistenti fenomeni inflazionistici”.
Portato della piena occupazione, si aggiunge, è una “situazione di
conflittualità” che produrrà “continue tensioni dovute alle risposte
delle imprese alle rivendicazioni operaie per tentare di ricostituire i
margini di profitto tramite aumenti di prezzo alimentando ulteriormente
il processo inflazionistico”. Avendo la disponibilità di mercati
garantiti dal sostegno della domanda da parte della spesa pubblica, le
imprese rispondono “non con aumenti della produttività tramite
innovazioni ed investimenti tesi ad aumentare l’offerta, ma con
l’aumento dei prezzi …L’inflazione quindi, oltre che come potente
strumento redistributivo, si poneva come drammatica elusione
dell’esigenza di un allargamento della capacità produttiva …che la lotta
della classe operaia per una migliore soddisfazione dei bisogni andava
sempre più affermando”. Padoan sembra pessimista circa la possibilità di
regolare il conflitto attraverso la politica dei redditi evocando le
tesi di Kalecki (citato nel corpo della relazione) secondo cui solo
un’elevata disoccupazione è in grado di disciplinare e regolare il
conflitto sociale. Più che in direzione di una prospettiva
socialdemocratica, le conclusioni di Padoan puntano così a un
“superamento dell’ordinamento capitalistico”. Infatti le politiche
keynesiane di piena occupazione condurrebbero a “delle tensioni
insostenibili per il sistema capitalistico” incompatibili “con il quadro
democratico”. Quindi non resta che fuoriuscire dalla “logica keynesiana
(cioè borghese)”. Accanto a un’eco kaleckiana qualcuno potrebbe anche
leggerne una amendoliana nel ritenere le lotte operaie in fondo
sovversive dell’ordinamento capitalista e democratico e l’inflazione
come anticamera del fascismo. La prospettiva amendoliana, si badi, è
stata in Italia spesso confusa col riformismo (socialdemocratico) il
quale, al contrario, riteneva gli avanzamenti dei lavoratori
perfettamente compatibili con un’economia di mercato regolata (sui temi
del mancato riformismo del PCI rinvio al magistrale Paggi e D’Angelillo,
I comunisti italiani e il riformismo, Einaudi 1986). Padoan e compagni
non sembrano tuttavia indicare come via d’uscita l’accettazione delle
compatibilità che portò di lì a poco alla svolta dell’Eur, ma un’uscita
più di sinistra, anche se solo genericamente evocata. La prospettiva di
un riformismo forte è comunque assente.
Nel suo commento critico De Vivo attacca
Padoan soprattutto per la lettura riduttiva di Keynes che lo
accumunerebbe alla teoria neoclassica dominante in uno snodo
fondamentale: “Secondo la relazione, uno degli sarebbe
Quello che emerge da queste pagine, qui
frettolosamente richiamate, sono le aporie in cui si sono dibattuti il
PCI e le sue successive metamorfosi e i suoi intellettuali di spicco,
fra una voglia di socialismo, sempre più affievolitasi sino a
scomparire, e un fondamentale riconoscersi nelle compatibilità della
teoria economica dominante, con qualche molto pallido (quasi invisibile)
spunto keynesiano. Questo modo di porsi è molto lontano da quello di
Myrdal e degli intellettuali nordici che hanno visto nel conflitto
sociale ben regolato l’humus del progresso. E’ vero pure che la
borghesia italiana, da Bava Beccaris a Berlusconi passando per Piazza
Fontana ha sempre ostacolato un processo di maturazione della sinistra
italiana nel senso di un vero riformismo, a volte reprimendola altre
volte corrompendola (di nuovo v. Paggi e D’Angelillo).
Una traccia di quelle aporie sono
probabilmente riconoscibili anche nel Padoan dell’oggi che, se da un
lato non si esime dal recitare il mantra sulla necessità del
riaggiustamento dei conti pubblici e delle “riforme strutturali”,
dall’altro più realisticamente (e da buon economista) sa che i problemi
sono di domanda aggregata e scrive che più inflazione nei paesi europei
in surplus commerciale sarebbe auspicabile – si vede che anche lui ama
qualche volta sognare. Buona fortuna, comunque.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento