martedì 24 gennaio 2017

Compagno Trump? La via bilaterale al Secolo Americano passa per la guerra commerciale: Bremmer e Volker


Le élite occidentali di Davos incapaci di costruire una risposta al populismo. Il politologo analizza le prime mosse del nuovo presidente Usa in campo internazionale

Corriere 24 1 2017


commercio e sicurezza l’agenda di trump non è isolazionista 

Kurt Volker* Busiarda 24 1 2017
I mezzi d’informazione di tutto il mondo e le élite politiche hanno reagito con allarme al discorso del presidente Donald Trump in occasione del suo insediamento. Discorso che è stato definito isolazionista, reazionario, aggressivo, divisivo, e ostile ai tradizionali alleati dell’ America. In tutto il mondo cortei di donne hanno attaccato Trump, supponendo che abbia intenzione di limitare i diritti delle donne, delle minoranze e della comunità Lgbt.
Nel quadro della campagna elettorale americana queste contestazioni da parte dei suoi oppositori sono comprensibili. Ma fraintendono quello che ha detto Trump sul suo ruolo di presidente degli Stati Uniti. E non tengono conto del contesto in cui inizia il suo mandato. 
Trump eredita degli Stati Uniti già diventati più isolazionisti. Dopo otto anni di intenso impegno del presidente George W. Bush, Barack Obama ha iniziato il suo incarico promettendo di «porre fine alle guerre», «di concentrarsi sul rafforzamento della nazione in patria», e di «porgere la mano» agli avversari dell’America. La politica di Obama ha incoraggiato gli alleati europei a prendere il comando - smettendo di fare gli «scrocconi» - così che gli Stati Uniti potessero limitarsi a un ruolo dietro le quinte, concentrarsi sull’Asia, ed evitare di essere coinvolti in conflitti armati. Così facendo Obama ha contribuito a plasmare un’opinione pubblica nazionale più isolazionista.
Il ripiegamento della potenza americana durante la presidenza Obama ha lasciato un vuoto che è stato riempito dai peggiori elementi della scena globale: la Russia ha invaso i Paesi vicini e usato il pugno di ferro in tema di diritti umani e con i dissidenti; in Cina il livello dei diritti civili è peggiorato e sono aumentati il nazionalismo economico e la militarizzazione del Mar Cinese del Sud; si è affermato l’Isis; l’Iraq si è spaccato (e Baghdad ora è nell’orbita di Teheran); e ancora occorre ricordare la brutale guerra civile siriana e il crescente conflitto tra sciiti e sunniti che divide il Medio Oriente.
L’opinione pubblica ha una duplice percezione del discorso di Trump: c’è la sensazione che il mondo sia un luogo molto più pericoloso per gli Stati Uniti rispetto all’inizio della presidenza Obama; allo stesso tempo la gente ha paura di un rinnovato coinvolgimento perché teme che danneggerebbe ancora di più gli Stati Uniti. 
Ecco perché il messaggio di Trump, «Prima l’America» è da intendersi come rassicurante. Sta dicendo agli elettori che non è in discussione se gli Stati Uniti abbiano bisogno di impegnarsi nel mondo - è ovvio che così sia - il punto è come.
Tenendo in mente questo, è probabile che il presidente Trump capovolga l’attuale tendenza all’isolazionismo piuttosto che aumentarla. Questo è stato il messaggio inviato con la scelta dei componenti del suo gabinetto di politica estera - Tillerson, Mattis e Pompeo - così come con i loro discorsi al Congresso. E anche nel suo discorso inaugurale il presidente Trump ha spiegato come si propone di cambiare l’operato americano oltremare. 
I punti fondamentali del debutto in politica estera sono chiari: distruggere l’Isis, incentivare gli scambi e rafforzare il controllo del confine tra Messico e Stati Uniti.
Riguardo all’Isis, con ogni probabilità si assisterà a un maggiore impegno militare statunitense, compresi investimenti più alti nella difesa e pressioni sugli alleati per un loro maggior coinvolgimento a fianco degli Stati Uniti. È difficile definire isolazionista questa posizione. Trump sa che ha bisogno della collaborazione dell’intelligence per combattere l’Isis, e per questo ha scelto il quartier generale della Cia come sede del suo primo discorso dopo quello dell’insediamento.
Per quanto riguarda il commercio non bisogna attendersi lo smantellamento del Nafta, l’Accordo nordamericano per il libero scambio. Nessun imprenditore statunitense di alto profilo appoggerebbe questa decisione. Piuttosto ci saranno piccoli aggiustamenti, graditi tanto al Messico come al Canada, da annunciare come una vittoria al prossimo vertice nordamericano. E di nuovo si parla di coinvolgimento non di isolazionismo. 
Insieme al rafforzamento del Nafta, attendiamoci una significativa inversione di tendenza nei confronti delle imprese americane che trasferiscono posti di lavoro e profitti oltreoceano: la tassazione delle imprese negli Stati Uniti sarà notevolmente ridotta, e introdotte penalità per le compagnie americane che spostano le produzioni all’estero e reimportano negli Usa.
I problemi più difficili da affrontare saranno quelli della sicurezza del confine con il Messico e dell’immigrazione. Tuttavia, la realtà economica rende anche in questo caso ipotizzabile un successo. Il Messico sta vivendo un momento di crescita economica con bassi tassi di disoccupazione. Può trarre sostanziali benefici da un mercato nordamericano dell’energia ancora più dinamico e conveniente e dal commercio con gli Stati Uniti e il Canada. La pressione dell’immigrazione dal Messico è già calata rispetto a quella dall’America Centrale. Con l’inizio delle trattative potremmo scoprire che il mondo degli affari e il governo messicano e quello degli Stati Uniti condividono l’interesse per la sicurezza dei confini e per condizioni più liberali per la crescita economica del Nord America.
Infine, sui diritti delle donne e di genere - malgrado gli episodi passati che molti interpretano come sciovinismo - in tema di politiche il presidente Trump ha espresso il suo forte supporto all’assoluta parità di diritti. Il discorso inaugurale è stato molto chiaro. Parlando dei poveri e degli emarginati, ha detto: «Siamo una nazione - e il loro dolore è il nostro. I loro sogni sono i nostri e così i loro successi. Condividiamo il nostro cuore, la nostra patria e il nostro glorioso destino. Il mio giuramento di oggi è un giuramento di fedeltà a tutti gli americani».
Gli analisti continueranno a criticare il presidente Trump e a discuterne, spesso con buone ragioni. Ma prepariamoci a esserne sorpresi.
*Ex ambasciatore degli Stati Uniti 
alla Nato. Attualmente ricopre 
l’incarico di direttore esecutivo 
del McCain Institute for International Leadership all’Arizona State University
traduzione di Carla Reschia 
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Trump: con Mosca per combattere il terrorismo dell’Isis 

Il leader Usa cancella le intese commerciali di Obama Via l’accordo con in Paesi del Pacifico: agiamo da soli 

Francesco Semprini Busiarda 24 1 2017
Smarcarsi dagli schemi del multilateralismo per avere mani libere su fronte della lotta al terrorismo. È su questo binomio che si articola l’azione di Trump, da una parte impegnato ad abbattere a colpi di decreti gli ordini precostituiti sul piano commerciale, dall’altra lanciato a triangolazioni pindariche nella lotta allo Stato islamico. «Il presidente è aperto a lavorare con Mosca per combattere l’Isis in Siria», spiega Sean Spicer che non esclude azioni militari congiunte con la Russia. Un’intesa quella anti-califfato che può essere estesa a qualsiasi Paese impegnato su questo fronte e che vede un importante attore anche nell’Iran.
Del resto nella visione trumpiana anche la sponda del Cremlino è parte del progetto «America First», così come gli ordini esecutivi siglati ieri dal neopresidente. In primis quello che decreta il ritiro degli Usa dalla «Trans-Pacific-Partnership», l’accordo di libero scambio tra 12 Paesi dell’Area Asia-Pacifico voluto da Barack Obama. E con esso la rinegoziazione del North America Free Trade Agreement (Nafta) l’accordo costitutivo dell’area di libero commercio tra Usa, Messico e Canada. Trump ha annunciato pesanti dazi anche per le aziende Usa che spostano la produzione fuori dagli Usa e vendono negli Usa. «Nessun braccio di ferro ma anche nessun atteggiamento di sottomissione», replica il presidente messicano Enrique Pena Nieto (alla Casa Bianca il 31 gennaio) dopo una telefonata col premier canadese Justin Trudeau. Annunci che fanno fluttuare le valute: l’euro riprende terreno sul dollaro per i timori della prevedibile ondata protezionistica trumpiana, sfiorando gli 1,075 dollari. «Produrre in Usa e assumere americano», ha ribadito Trump nel corso del suo primo incontro alla Casa Bianca con i leader del business, promettendo di tagliare del 75% il quadro regolatorio e ridurre le tasse per sviluppare l’economia. Il Presidente ha incaricato i capitani d’impresa, tra cui l’«amico» Mark Fields, ad di Ford, di elaborare in 30 giorni un piano per rilanciare il manifatturiero. E se dalla parte delle imprese si incentiva su quella della spesa pubblica si taglia. Come? Con un memorandum che congela le assunzioni del governo federale - fatta eccezione per le forze armate - per «abbattere il labirinto della burocrazia». Il primo lunedì da presidente è stato però anche l’occasione di procedere con un’incursione nel terreno dei valori. Sempre a colpi di decreto Trump ha ristabilito il bando sull’erogazione di fondi federali alle Ong internazionali che praticano aborti, introdotto da Ronald Reagan nel 1984 e cancellato da Obama. La dimostrazione di voler mantener fede alle promesse fatte ai conservatori. Insomma un lunedì da leoni per il neo presidente nei confronti del quale prosegue l’arrembaggio nelle aule di tribunali con una nuova azione legale che lo vede accusato di aver violato la Costituzione consentendo ai suoi alberghi e alle altre attività di accettare pagamenti dai governi stranieri. Accusa «totalmente senza merito», replica l’inquilino della Casa Bianca il quale, a scanso di equivoci, fa sapere di «essersi dimesso dalle sua società».
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Dal commercio libero a quello equo Così Donald sfida Cina e Messico 

Il Presidente vuole rinegoziare regole e imporre nuove tariffe per riequilibrare i vantaggi dei rivali sul lavoro a basso costo 

Paolo Mastrolilli Busiarda 25 1 2017
Pochi lo hanno notato, ma Donald Trump sta rubando le idee a Bill Clinton. Per esempio quella del «fair trade», ossia il commercio equo, da adottare al posto del «free trade», cioè il libero commercio. Una strategia che si è cominciata a materializzare ieri, con i decreti firmati dal presidente per uscire dal Tpp e rinegoziare il Nafta.
Il capo della Casa Bianca pensa che gli accordi per il commercio internazionale hanno penalizzato gli Stati Uniti, e in particolare i lavoratori americani, facendo scappare i loro posti nei paesi dove i salari sono più bassi. Quindi li vuole cancellare o riscrivere. Questo lo pone al centro di una disputa filosofica, oltre che politica, molto singolare per un repubblicano.
La dottrina del «free trade» favorisce la libera circolazione delle merci attraverso i confini, e aborrisce le tariffe protezionistiche: è il mercato che stabilisce gli equilibri. È la linea tradizionalmente favorita dal Gop, dagli anni di Reagan. La dottrina del «fair trade», invece, ha almeno due coniugazioni. Quella originale sostiene che i paesi in via di sviluppo sono penalizzati, perché i loro prodotti vengono sotto pagati da quelli ricchi, e quindi è necessario un intervento sovrannazionale per riequilibrare le regole del gioco a loro favore. Quella trumpiana, lungi da questo approccio solidarista multilaterale, accusa invece Stati come il Messico o la Cina di aver approfittato della generosità e ingenuità americana, per trarre vantaggi economici e commerciali sfruttando le condizioni del lavoro e la manipolazione della moneta. Quindi punta a riequilibrare la situazione denunciando i trattati, rinegoziando le regole e, se questo non basterà, imponendo tariffe.
«Il fatto curioso – spiega Allen Sinai di Decision Economics – è che il termine “fair trade” era stato usato per primo da Mickey Kantor, rappresentante per i commerci dell’amministrazione Clinton, quando decise di andare allo scontro col Giappone, che veniva accusato di abusi simili a quelli rinfacciati oggi da Trump alla Cina o al Messico». Bill Clinton in sostanza aveva negoziato il Nafta, ed era stato l’alfiere della globalizzazione fino agli scontri del vertice Wto di Seattle, da cui era nato alla sua sinistra il movimento «no global». Nello stesso tempo, però, aveva usato le maniere forti del «fair trade» col Giappone, come in teoria dovrebbe fare ogni governo progressista per difendere i suoi lavoratori. Adesso però questa stessa strategia la adotta Trump da destra, sorprendendo col suo populismo l’ortodossia dello stesso establishment repubblicano. 
«Il problema – continua Sinai - è che la dottrina del “free trade” funziona se tutti aderiscono. Se invece un paese come gli Usa la adotta, e un altro concorrente come la Cina la rifiuta, salta tutto: il liberista perde ed è costretto a cambiare linea».
Questo è quanto sta facendo Trump: «Non è filosoficamente contrario al libero commercio, ma ritiene che sia necessario riequilibrarlo, perché i concorrenti non lo adottano». Nel caso del Messico, «questo si traduce nella rinegoziazione del Nafta. Il trattato non sparirà, perché conviene a tutti, ma ci saranno mutamenti sulla collocazione delle fabbriche e le condizioni di lavoro». 
Riportare la produzione negli Usa sarà costoso per le aziende americane, «ma potranno compensare aumentando la produttività e sfruttando le agevolazioni fiscali concesse dal governo». Invece nel caso della Cina, accusata anche di manipolare i cambi, «serviranno le tariffe». A differenza di quanto fece Tokyo con Clinton, Pechino non si piegherà alle richieste di Washington, e quindi «è probabile che andremo verso una guerra commerciale. Alle volte, però, per vincere è necessario combatterle». 
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Orban: torniamo all’Europa delle nazioni L’Ungheria cerca una sponda con Putin 

Il premier: “Prima gli interessi degli Stati, il federalismo europeo è un utopia” Il 2 febbraio il presidente russo sarà a Budapest: sul tavolo le forniture di gas 

Monica Perosino Busiarda 24 1 2017
Dal giorno dell’elezione, il 29 maggio 2010, il premier magiaro Viktor Orban ha fatto della coerenza il suo punto di forza. Orban è inamovibile. E sa aspettare. 
Sostenitore di Trump della prima ora, ha appoggiato prima le sue idee su muri e migranti - e chi meglio di lui, con la barriera di filo spinato per bloccare la rotta balcanica in Europa -, poi i piani in materia di protezionismo economico. A nulla sono valse le critiche e le pressioni europee. E ora, il momento che aspettava da anni è arrivato. L’ultranazionalismo del premier ungherese ha trovato finalmente una sponda anche in Occidente: «Con Donald Trump presidente degli Stati uniti è venuto il tempo per ogni nazione di posizionarsi al primo posto, di difendere gli interessi nazionali prima di tutto». Lo ha detto ieri durante una conferenza organizzata dalla Banca Nazionale. Alludendo alla dichiarazione di Trump «America first», Orban ha detto: «È la fine del multilateralismo e delle idee sul sopranazionalismo. L’Europa dovrebbe lasciare cadere il federalismo, un’utopia, e ritornare all’Europa delle nazioni».
Orban ha aspettato, ha stretto alleanze sempre più forti con gli altri Paesi del blocco Est, la Polonia prima di tutti, ha lavorato per costruire un’idea di «sovranità orgogliosa» e indipendente da Bruxelles, perché «non esiste un popolo che si chiama europeo, ma esistono le nazioni in Europa», ha ribadito, attribuendo all’elezione di Trump l’effetto di far rivivere il nazionalismo anche in Europa: «Un successo anche per la mia politica».
E mentre Orban decretava la fine dell’Europa per come la conosciamo e diceva di sperare in una vittoria in Francia di Fillon più che di Marine Le Pen, il suo ministro degli Esteri Peter Szijjarto, in visita ufficiale a Mosca, annunciava che il 2 febbraio prossimo il presidente russo Vladimir Putin sarà a Budapest per una visita ufficiale. Sul tavolo alcuni punti focali delle relazioni bilaterali tra Russia e Ungheria tra cui il contratto per le forniture di gas russo. Il portavoce del governo ungherese precisa: «Niente di strano, non è la prima visita di Putin in Ungheria, né sarà l’ultima». Piuttosto è la naturale prosecuzione di una serie di incontri - tre fino ad ora - iniziati nel 2015. 
L’«avvicinamento» tra Orban, Putin e Trump ha spinto alcuni osservatori europei a ipotizzare un nuovo asse geopolitico, che dall’America arriva alla Russia e si puntella in Ungheria: «Niente di tutto ciò - spiega Balazs Orban, direttore del think tank ungherese Szazadveg -. Le connessioni tra l’Ungheria e la Russia sono pragmatiche». Senza dubbio l’allineamento con Trump fortifica anche le posizioni di Budapest: «In un momento in cui l’economia del Paese sta andando bene, l’Ungheria vuole avviare politiche di cooperazione con i grandi del mondo, stringere alleanze basate su interessi comuni e non solo con gli alleati naturali come l’Unione europea». Putin, Trump, ma non solo. Nell’orizzonte ungherese ci sono anche la Turchia di Erdogan e la Cina di Xi. «Ma i singoli interessi nazionalisti non interferiranno con la Ue, tanto è vero che l’Ungheria ha votato sì alle sanzioni contro la Russia anche se crediamo che non abbiano senso. Le accettiamo in nome dell’unità». Ora con l’elezione di Trump sembra che si vogliano normalizzare le relazioni con Mosca: «Ma Budapest non vuole catalizzare il cambiamento, è solo pragmatismo». Ancora una volta: «I nazionalismi non sono una minaccia per la Ue. Le élite europee non capiscono cosa vogliono i cittadini europei, per questo vengono punite dal voto. Dovrebbero accettare le nuove circostanze, se non lo faranno i populisti e l’estrema destra cresceranno ancora». 
Putin sarà a Budapest per discutere di energia e del progetto della centrale nucleare del Paks 2. Secondo Edith Zgut, analista del Political Capital Institute, le mosse di Orban hanno uno scopo preciso: «Vuole mostrare che l’Ungheria è indipendente, che può decidere a prescindere da Bruxelles». In questo contesto «la tendenza globale che premia populismi e nazionalismi è un successo per conservatori come Orban e Putin, che hanno politiche parallele su diversi temi. Ma tutto ciò porterà a divisioni pericolose». Secondo Zgut le prossime elezioni in Europa (Olanda, Francia e Germania) rappresenteranno uno spartiacque: «Ormai non c’entrano più le ideologie, destra e sinistra non significano più nulla, rappresentano in modi diversi lo stesso fenomeno anti establishment, populista ed euroscettico. Anche se probabilmente non si creerà un “Internazionale populista”, le spaccature sono altrettanto pericolose». 
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Dal Medio Oriente alla Cina così Putin colma i vuoti lasciati dall’Occidente Mosca vuole recuperare influenza e nuovi mercati. E teme che il terrorismo destabilizzi i suoi confiniROSALBA CASTELLETTI Rep 24 1 2017
Quando il 29 dicembre scorso Vladimir Putin ha annunciato l’accordo per il cessate- il-fuoco in Siria non ha fatto che confermare quello che il mondo sapeva già: benché anche Teheran e Ankara fossero impegnate sul campo di battaglia, il vero artefice della “pax siriana” era Mosca. Anche la scelta della capitale kazaka, vicina a Mosca, come sede dei negoziati è un messaggio chiaro. Mosca ha occupato in Siria il vuoto diplomatico lasciato dall’Occidente. Se gli Stati Uniti hanno preferito non intervenire, la crisi migratoria e gli attacchi terroristici in Europa hanno portato l’Ue, ulteriormente indebolita dalla Brexit, a concentrarsi sui suoi problemi interni. E Putin ha così preso il comando. Con la campagna di bombardamenti iniziata nel settembre 2015, ha salvato Assad garantendosi in cambio la concessione per altri 49 anni della base navale di Tartus e di quella aerea di Hmeimim. Ora, forte del successo militare, vuole accreditarsi come mediatore internazionale in tutto il Medio Oriente. «Il successo in Siria è servito a pubblicizzare l’affidabilità di Putin che non solo ha dimostrato forza e cinismo, ma ha scelto di non abbandonare il suo alleato Assad a differenza di quello che fecero gli americani con Mubarak», spiega Mattia Toaldo, analista su Libia e Medio Oriente per il Consiglio europeo sulle Relazioni internazionali. Putin rivendica il ruolo chiave ereditato dall’ex Unione Sovietica, mosso non solo dalla preoccupazione che il terrorismo possa destabilizzare la Russia e le Repubbliche centroasiatiche, ma anche dalla certezza che il Medio Oriente possa tornare a essere un grosso mercato.
LIBIA
Mosca intreccia da tempo rapporti con il generale ribelle Khalifa Haftar: stampa le sue banconote in Russia ed è stato due volte a Mosca nel 2016. La scorsa settimana è stato invitato a bordo della portaerei russa, Ammiraglio Kuznetsov, nel Mediterraneo da dove ha tenuto una videoconferenza con il ministro della Difesa russo Sergej Shoigu. «Dopo Gheddafi la Russia ha perso affari per 4 miliardi di dollari», spiega Toaldo. «Con Haftar Mosca spera di recuperarli, ma soprattutto di ripristinare l’accordo firmato nel 2010 che le concedeva il porto di Bengasi».
ISRAELE E PALESTINA
Benché membro del Quartetto per la pace in Medio Oriente, il Cremlino aveva sinora evitato il ruolo di mediatore nel conflitto israelo-palestinese. Le difficili relazioni con Obama hanno reso però Putin un partner interessante per il premier israeliano Netanyahu che dall’agosto 2015 è stato a Mosca almeno quattro volte. E una settimana fa Mosca ha ospitato i colloqui tra le due fazioni palestinesi Al Fatah e Hamas negoziando l’accordo per un governo di unità nazionale.
TURCHIA
I rapporti tra Russia e Turchia, che erano a un punto di rottura dopo l’abbattimento di un jet russo al confine turco il 24 novembre 2015, si sono ribaltati. Dopo aver appoggiato i ribelli siriani foraggiandoli e lasciandoli transitare, Ankara ha deciso di riconciliarsi con Mosca e di intervenire al suo fianco in Siria per debellare le milizie turche al confine. Il segno più visibile di questa nuova intesa sono stati l’accordo sul Turkish Stream e, la scorsa settimana, i primi raid aerei congiunti in Siria la scorsa settimana.
EGITTO
Man mano che le relazioni con Washington e Riad si sono raffreddate, Il Cairo ha cominciato a guardare al Cremlino. Alla visita di Putin nel 2015, sono seguiti contratti miliardari sulla difesa e l’accordo per la costruzione della prima centrale nucleare egiziana. Dopo le esercitazioni militari russe in Egitto di ottobre, si è iniziato a vociferare che il Cairo sarebbe disponibile a cedere a Mosca l’ex base sovietica di Sidi Barrani, strategicamente a pochi chilometri dal confine libico.
DALLA CINA AL BRASILE
La “longa manus” del Cremlino tesse fili anche dalla Cina al Brasile, dall’India al Sudafrica. Con la Cina in particolare Mosca si è alleata per contrastare lo strapotere americano in Asia tenendo esercitazioni navali congiunte. A Pechino la legano anche i rapporti commerciali: Mosca è il più grande fornitore di petrolio. «Dopo il crollo dell’Urss, Mosca ha tentato di integrare la Russia nella comunità euroatlantica con il G8. E di inglobare le ex Repubbliche sovietiche in un’unione euroasiatica — sostiene Dmitri Trenin, direttore del Carnergie Moscow Center — ma, dopo la crisi Ucraina, a Mosca non resta che raggiungere il mondo non-occidentale».
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“Il voto ad Hamon è contro l’establishment Ma così la sinistra francese rischia il suicidio” 

L’analista Cann: se arriva alle urne con tre candidati favorisce Le Pen 

Leonardo Martinelli Busiarda 24 1 2017
Il Partito socialista francese è a rischio esplosione? Una delle storiche formazioni della sinistra europea? Quella di François Mitterrand? Non è fantapolitica. «Molto si giocherà nella decina di giorni dopo il secondo turno delle primarie della gauche, previsto domenica prossima. Nel caso in cui, come sembra probabile, vincesse Benoît Hamon, se numerose saranno le defezioni tra i deputati che ora sostengono Manuel Valls, il suo rivale, verso il campo di Emmanuel Macron, in lizza da solo per le presidenziali, allora sì, il Partito socialista (Ps) potrebbe dire la parola fine». A parlare è Yves-Marie Cann, direttore degli studi politici di Elabe, istituto di sondaggi.
In ogni caso Macron deve già esultare…
«Sì, con la possibile sconfitta di Valls, gli si apre uno spazio alla destra del Ps».
Ritorniamo al primo turno di domenica scorsa. Vi siete fatti un’idea di chi ha votato per Hamon e per chi Valls?
«Sì, abbiamo condotto un’inchiesta ai seggi. Nel primo caso l’elettore è mediamente più giovane. Valls ha, invece, vinto tra gli over 65. E le motivazioni sono completamente diverse nei due campi».
In che senso?
«Chi ha votato Hamon, lo ha visto come colui che incarna meglio i valori della sinistra e una svolta rispetto alla presidenza di François Hollande. Chi ha votato Valls, ha puntato a chi tra i candidati del primo turno riteneva il migliore per fare il Presidente».
A proposito di Hollande, c’è chi dice che dopo il ballottaggio potrebbe appoggiare Macron alle presidenziali?
«Se lo facesse, contribuirebbe all’eventuale disintegrazione del Ps. Non credo, comunque, che il suo sostegno sarebbe un vantaggio per Macron, visto quanto è impopolare Hollande».
Ma le posizioni di Hamon e di Valls sono davvero così distanti?
«Sì, su molti temi, in particolare sul reddito universale, che Valls, per ragioni di budget, non accetterebbe mai. Quando era primo ministro, nella primavera 2016, aveva parlato di due “sinistre irriconciliabili” e aveva deciso di ricorrere a un voto d’urgenza, senza il passaggio in Parlamento, della riforma del mercato del lavoro, per arginare i “frondisti”, l’ala ribelle della sinistra del partito, Hamon compreso. Ecco, ora loro si prendono la rivincita».
Se perderà, potrebbe Valls passare dalla parte di Macron dopo il ballottaggio?
«No, si è impegnato a non farlo e non lo farà».
E se Hamon sarà allora il candidato, che tipo di alleanze potrebbe concludere?
«In teoria il programma si sposerebbe con quello di Jean-Luc Mélenchon, leader dell’estrema sinistra. Ma lì, poi, scattano i problemi di ego: è improbabile, ad esempio, che Mélenchon si metta da parte e passi dietro ad Hamon».
E così?
«La sinistra finirà al primo turno delle presidenziali con tre candidati diversi: Hamon probabilmente, oltre a Macron e Mélenchon. Potrebbe in questo modo precludersi la possibilità di andare al ballottaggio. E spianare definitivamente la strada a Marine Le Pen, che nei sondaggi attuali è quasi sempre seconda, dietro a François Fillon, il candidato della destra».
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Roth al veleno: “È un artista della truffa” LA POLEMICA. IN UNO SCAMBIO DI EMAIL CON IL “NEW YORKER”, LO SCRITTORE ATTACCA IL PRESIDENTE: “IGNORANTE E PRIVO DI DECENZA”ALBERTO FLORES D’ARCAIS Rep
NEW YORK. “È più facile capire l’elezione di un immaginario presidente come Lindbergh che quella di uno reale come Trump”. In uno scambio di email con il
New Yorker riguardo un suo famoso romanzo (Complotto contro l’America), Philip Roth interviene a suo modo sul nuovo Commander in Chief, che gli americani si sono scelti e di cui molti hanno un grande timore. “Lindbergh, nonostante le sue simpatie naziste e le sue tendenze razziste, è stato un eroe dell’aviazione, un uomo di grande coraggio fisico e un genio dell’aeronautica quando trasvolò l’Atlantico. Aveva carattere e sostanza, insieme a Henry Ford è stato il più famoso americano dei suoi tempi”. E Trump? “È solo un artista della truffa”. Il libro più importante “per capire l’antenato dell’America di Trump”, spiega Roth, “è The Confidence- Man (l’uomo di fiducia, ultima opera dell’autore di Moby Dick), romanzo dal cupo pessimismo e dall’audace inventiva che poteva benissimo essere titolato The Art of the Scam”, l’arte della truffa. E aggiunge: “Ho trovato allarmanti le presidenze di Nixon o Bush Jr. ma non ho mai visto nulla di simile a Trump: ignorante del governo, della storia, della scienza, della filosofia, dell’arte, incapace di esprimere o riconoscere sottigliezza o sfumatura, privo di ogni decenza e brandendo un vocabolario di 77 parole”.
In The Plot Against America, pubblicato nel 2004 e ambientato nel biennio 1940-1942, lo scrittore narra - con gli occhi di un bambino e attraverso le vicende familiari di una famiglia ebraica di Newark (la sua) - come Charles Lindbergh (il famoso trasvolatore) vinca a sorpresa la sfida per la Casa Bianca contro Franklin Delano Roosevelt. Lindbergh era un isolazionista (anche nella realtà e c’era più di qualche sospetto di una sua simpatia per il regime nazista). Uomo affascinato “dall’ordine” negli anni precedenti la guerra visitò la Germania nazista e ne rimase impressionato, soprattutto per la “vitalità organizzata”. “Non ero mai stato così consapevole di questa forza” scrisse nelle sue memorie (1978), “era una cosa eccitante”. Dopo un giro alla Luftwaffe si convinse che nessuno avrebbe potuto sconfiggere Hitler e che per gli Stati Uniti scendere in guerra sarebbe stato devastante. La storia ha dimostrato il contrario, ma nel 1940, ritornato dall’Europa, Lindbergh divenne il portavoce di America First, il gruppo anti-guerra e proibizionista fondato da un gruppo di studenti di Yale.
America First è stato lo slogan-principe di The Donald, ripetuto anche il giorno del giuramento, ma la realtà americana (l’American berserk, l’America rabbbiosa, secondo la definizione di Roth), rende più complicato raccontarla con la fiction. Donald Trump supera l’immaginazione dello scrittore? “Non è il Trump come tipo umano o come personaggio - l’immobiliarista o l’immaturo e crudele capitalista - che supera l’immaginazione. È Trump come presidente degli Stati Uniti”.
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