giovedì 26 gennaio 2017

Gli interventi di Umberto Eco alla scuola per i librai

Tra carta e digitale come sono fragili i libri
Scrittura e memoria tutti i segreti e gli errori delle biblioteche Sin dall’antichità, la storia dei testi è un’eterna lotta per la sopravvivenza 
UMBERTO ECO Rep 26/1/2017
COME si inventa la scrittura nasce il problema del supporto dove applicarla. Come ci racconta Platone nel Fedro, quando il dio Theuth propone al faraone quello strumento che si chiama scrittura il faraone si inquieta perché pensa che con questo strumento gli uomini perderanno il dono della memoria. Non sapeva che solo grazie alla scrittura avremmo avuto le migliaia di pagine di Alla ricerca del tempo perduto. Ma certamente Theuth aveva inventato la scrittura per supplire alla labilità della nostra memoria e per trovare un modo di conservare l’informazione in modo non perituro e non privato (bensì collettivo, in quanto infinitamente riproducibile). Però c’era un terzo requisito che probabilmente Theuth aveva in mente: che si trovasse un supporto che non fosse solo duraturo ma anche facilmente maneggevole.
Il faraone non pare avere compreso il problema nel suo insieme: gli egizi iniziavano a scrivere incidendo su steli e sappiamo quanta fatica costi trasportare un obelisco. Il fatto è che il problema era duplice: uno concerneva la materia del supporto, e riguardava la sua resistenza al tempo, l’altra la forma del supporto, e riguardava la sua trasportabilità e consultabilità. E non era detto che i due problemi si potessero risolvere insieme. Per esempio le tavolette d’argilla su cui incidevano i sumeri erano trasportabili o almeno archiviabili (alcuni testi come il poema di Gilgamesh venivano scritti su più tavolette numerate raccolte in un contenitore), però erano fragili. In compenso, siccome erano piccole credo abbiano incoraggiato l’invenzione di quella stenografia che era in fondo il cuneiforme.
Per ovviare alla fragilità, è stata certamente una bella invenzione la tavoletta cerata, che nasce anche prima dei romani, la quale non solo non è delicata come l’argilla, ma è anche cancellabile e usabile più volte. Naturalmente è buona per gli appunti e non per consegnare ai posteri opere immortali. A quelle si penserà col papiro, probabile invenzione aramaica, usato sin dal III millennio a.C. Siamo già a un sistema di trasmissione dell’informazione che è simile ad alcuni che ancora usiamo, o che almeno usavano i nostri padri: c’è una penna (il calamo, segmento di canna di palude, appuntito di sbieco e spaccato a una estremità) e l’inchiostro (che varia a seconda delle epoche o dei luoghi: per esempio gli egizi, i greci e i romani usavano una soluzione di nerofumo prodotto bruciando resina, sciolto in una soluzione acquosa di gomma a cui si aggiungevano miele e noce di galla).
Il difetto, ma all’epoca non lo si sapeva, era la labilità: basta fare il conto di quanti manoscritti su papiro ci sono arrivati, sia pure tenendo conto del fatto che le biblioteche dell’antichità bruciavano con facilità. I testi in circolazione erano migliaia eppure non ce ne sono pervenuti moltissimi, e in malo stato (se i manoscritti del mar Morto hanno resistito meglio è stato grazie a condizioni climatiche e ambientali eccezionali). Si tenta di ovviare alla labilità del supporto già in Egitto producendo il cuoio scrittorio usato per testi religiosi: pelli di capra assottigliate e conciate con succo di frutti d’acacia ricchi di tannino, e poi tagliato in strisce come quelle del papiro. Il materiale non si putrefaceva ma si essiccava e frantumava col


tempo (la maggior parte di queste strisce sono andate perdute).


Dopo il cuoio si è tentato con la pergamena, sempre fatta con pelli di animale (per lo più pecora ma anche vitello o capra) macerate nella calce, quindi tese, rasate, asciugate, levigate, tagliate e rifilate. La pergamena è più flessibile e meno deperibile del cuoio. È verosimile che sia stata inventata a Pergamo tra III e II secolo a.C. Tuttavia per lungo tempo il papiro viene considerato più elegante e ancora sant’Agostino si scusa di avere scritto una lettera su pergamena e non su papiro. Però il papiro era quasi trasparente, non poteva essere scritto su ambedue le pagine del foglio e richiedeva un inchiostro molto leggero, che si cancellava più facilmente. La pergamena poteva essere scritta su ambo le pagine e reggeva inchiostri indelebili.


Su di essa risultavano meglio eventuali miniature. Insomma, che piacesse o meno a


sant’ Agostino, sino a circa il milletrecento vince la pergamena.
Comunque, papiro o pergamena, se i fogli vengono incollati tra loro a formare un rotolo nasce il
volumen (di cui troviamo le prime testimonianze nel XIV secolo a.C. e che resiste come sistema di trasporto dell’informazione più di tremila anni, perché in fondo era il modo in cui sino ai nostri anni Ottanta gli architetti trasportavano ancora i loro progetti). Il volumen può essere trasportato e riprodotto: diventa pertanto oggetto di mercato nel VI secolo a.C., quando amanuensi specializzati iniziano a metterli in vendita per acquirenti facoltosi. Nascono così l’officina e il mercato del libro.
Manca solo il libro. Esso appare come codex tra III e IV secolo d.C. (anche se ne abbiamo rari esempi nei secoli precedenti). La pergamena consente di comporre un libro a fogli ripiegati e poi rilegati. Il codex ha questa meravigliosa qualità: se il rotolo permetteva una lettura bidimensionale (dall’alto in basso e da destra a sinistra, o viceversa), esso introduce nella lettura la terza dimensione perché può essere sfogliato ed è così che si possano consultare quasi contemporaneamente la prima e l’ultima parte del testo (il volumen non poteva essere “percorso” rapidamente). Non solo il codex è ideale per la consultazione, ma facilita la lettura. Si dice che esso sia stato diffuso in ambiente cristiano per differenziare il testo del Nuovo Testamento da quello dell’Antico, soprattutto perché permetteva la consultazione di vangeli sinottici. Rilegato bene e con buona pergamena il codex poteva essere trasportato; non parlo dei pesantissimi formati in folio, ma si pensi a libri d’ore miniati, grandi come una nostra agendina. Riprodurli era molto costoso, è ovvio.
Ultima invenzione prima del libro a stampa, nel tardo medioevo, la carta (fatta con stracci) sostituisce la pergamena. E se qualcuno pensa che la carta fosse materiale di supporto più labile della pergamena è perché non ha mai sfogliato un bell’incunabolo, che ancora oggi crocchia quando si tenta di sgualcire il foglio.
Purtroppo verso la metà circa dell’Ottocento si è passati dalla carta di stracci alla carta di legno, ben più deperibile. Se la carta non è di altissima qualità, un libro moderno ha una vita media di settant’anni, e dopo inizia a sbriciolarsi. [...] Certamente io sono felice che esistano degli e-book con cui un magistrato che debba consultare di continuo le migliaia di pagine degli atti di un processo possa portarsi dietro l’informazione che gli serve senza dovere usare un tir, così come io sono lieto di aver riversato su una memoria portatile di 250 GB buona parte della letteratura universale e dei testi filosofici, così che mentre lavoro posso recuperare in un istante un canto della Divina Commedia o una questione della Summa Theologica senza dovermi alzare e tirar giù volumi ingombranti dallo scaffale. Ma so anche che basterebbe, come mi è accaduto l’estate scorsa, un fulmine in giardino per smagnetizzare la mia memoria, che se ci fosse un blackout continuato non potrei più usare quella informazione, che se ho pur registrato sulla mia memoria elettronica tutto il Don Chisciotte non posso leggerlo in tal modo a letto, alla luce di una candela, su di una amaca, in barca, nella vasca da bagno, in altalena, mentre un libro mi consente di farlo anche nelle condizioni più disagiate. E se mi cade il computer o l’e-book dal quinto piano sono matematicamente sicuro di aver perso tutto mentre se mi cade un libro al massimo si sfascia, ma il testo di cui è supporto rimane integro. Chi può ancora leggere sui computer oggi in circolazione, un floppy disk degli anni Ottanta? E, se riuscissimo a trovare ancora il lettore adatto, non si sarebbe nel frattempo smagnetizzato? [...] Pertanto, o voi che vi occupate della distribuzione e vendita dei libri, sappiate che a voi è affidata la conservazione della memoria culturale che, almeno per ora, i vari supporti meccanici, magnetici, elettrici ed elettronici non hanno ancora dimostrato di garantire. Il problema è che i supporti moderni sembrano mirare più alla rapida diffusione dell’informazione che alla sua conservazione. Il libro è stato strumento principe della diffusione dell’informazione (pensate al ruolo che ha avuto la Bibbia a stampa per la riforma protestante) ma al tempo stesso anche della sua conservazione.




Sì, ho detto che le biblioteche sono preoccupate del fatto che la carta di legno non dura più di settant’anni. Ma ecco un libro del 1951, quando gli editori francesi di opere scientifiche usavano forse il peggior tipo di carta mai esistito. È vero, se non faccio attenzione a sfogliarlo le pagine si spezzano agli angoli, alcune addirittura si sbriciolano. Non potrei, a causa dell’arrossamento della carta, scannerizzarlo. Eppure, dopo quasi sessant’anni, il libro è ancora consultabile e se esso fosse l’unica copia di quest’opera, in qualche modo, magari ricopiandolo a mano, potrei salvarne il contenuto. Nessuna scienza mi assicura che tra sessant’anni questa chiavetta che porto così facilmente in tasca non si sia smagnetizzata. Di fronte a questa prospettiva angosciosa, teniamoci cari i libri. E il tenerceli cari non significa che non si possano far circolare a buon prezzo. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

L’amicizia professionale di una vita
Anticipazioni. Pubblichiamo il testo di apertura del volume fuori commercio «I libri anticipano l’eternità» che raccoglie gli interventi di Umberto Eco ai seminari della Scuola per Librai dal 1998 al 2013
Achille Mauri Manifesto 27.1.2017, 18:50 
Che fortuna incontrare un genio quando è ancora ragazzo, sebbene nascosto da una barba fluente. Umberto (Eco) era già allora coltissimo, fantasioso, generoso, aperto alle cose del mondo.
Sì, in effetti c’è stato un tempo in cui lui e io siamo stati giovani, e c’è stata una mattina, nel porto di Lerici – era l’estate del 1966 –, in cui i pescatori ci trovarono addormentati sui banchi del pesce e ci svegliarono per fare posto a triglie ancora agonizzanti, sogliole, scorfani… c’era persino un caciucco all’aceto sbarcato ancora bollente.
La notte prima, il Gruppo 63 aveva festeggiato nei giardini di Villa Bompiani: c’erano tra gli altri Nanni Balestrini, Renato Barilli, Angelo Guglielmi, Cesare Milanese, Enrico Filippini. E quella mattina, mentre Umberto e io assistevamo all’arrivo degli ultimi pescherecci, nei bar del paese venivano servite colazioni a base di cappuccino e brioche per Ottiero Ottieri, Pier Paolo Pasolini, Mario Spagnol, e poi i Bompiani, e noi Mauri, e altri ancora. 
NON SUCCEDEVA, credo, dai tempi del secondo Futurismo, quando il lido di Lerici ospitava mostre e convegni a cui prendevano parte i più grandi artisti dell’epoca.
Risalendo poi verso la villa, mio fratello Fabio e Umberto scherzavano su chi di loro fosse il direttore editoriale della Bompiani. La verità è che nostro zio Valentino subiva la magica influenza di entrambi e li nominava a turno, così di fatto non nominava definitivamente nessuno dei due e rimaneva l’incontrastato direttore d’orchestra. Umberto non voleva chiamarlo conte, né Bompiani – né poteva chiamarlo Valentino –, quindi aggirava l’ostacolo non chiamandolo affatto. Ma dentro di sé aveva coniato un nomignolo affettuoso, che poi prese a usare: zio Val.
L’Almanacco Letterario Bompiani fu il principale terreno di semina di Umberto e Fabio. La rivista era nata nel 1925 e in realtà non era soltanto letteraria perché annetteva grande importanza alla grafica, alle illustrazioni, alla pubblicità – in una parola, al «visuale» (e infatti vi parteciparono artisti come Munari, Angoletta, Zavattini, lo stesso Bompiani). 

IO ERO PIÙ GIOVANE di Fabio e Umberto di una decina d’anni, soprattutto ero in perfetta forma fisica e fidanzato a una donna bellissima, che poi ho sposato e che risposerei anche oggi. Il mio «destino editoriale» era già segnato e qualche tempo dopo – nel 1971 – con Umberto fondammo Versus. Quaderni di studi semiotici, la prima e credo unica rivista di semiotica italiana, alla quale contribuirono studiosi come Roman Jakobson, Christian Metz, Ugo Volli, Noam Chomsky. 

Dal punto di vista commerciale non fu un successo, eppure di «VS» si parla ancora oggi.
In quello stesso periodo chiuse Il Saggiatore e Umberto si fece tramite perché ne rilevassi la redazione, che stava lavorando a un’opera sul femminismo voluta da Alberto Mondadori.
Insieme, abbassando un po’ tono e contenuti, realizzammo un’enciclopedia destinata al mercato delle rateali, quelle che si vendevano porta a porta. Famiglia 2000 – così si chiamava – fu distribuita in quattordici paesi: la ritrovai persino in Canada, all’interno di un frigorifero rotto usato come libreria in una casa di tronchi, dentro una riserva indiana. 
I PRIMI ANNI SETTANTA erano tempi molto speciali, tempi in cui non era semplice essere pensatori rigorosi, come Pasolini e lo stesso Umberto. In quella stagione, il mio gruppetto di fantastici redattori – Scalzone, Martino, Magrini, Taborelli, Tibaldi – si riuniva puntuale alle otto, in ufficio, dove discuteva per ore sull’orario elastico; gli stipendi finivano tutti a Potere Operaio. Si avvertiva il bisogno di un partito d’opinione e così nel 1974 nacque – per poi non esistere realmente – il PdUP, il Partito di Unità Proletaria di Lucio Magri e Luciana Castellina (….).
Umberto riempiva gran parte della sua vita sociale – organizzata in tutto e per tutto da Renate, divenuta il suo tramite con il mondo – di musica e barzellette. Sorvolo sull’Eco suonatore di flauto: in quello, nemmeno lui riusciva a essere completamente lucido e critico, solo coraggioso. 
Ma poi c’erano, per l’appunto, le barzellette. E non sarà un caso se è proprio sua l’unica che mi sia mai rimasta impressa: una cicogna vola col suo fagotto nel becco, sempre più stanca. Nel fagotto, un vecchietto tutto nudo cerca di convincerla che si sono persi. Rido sino alle lacrime ogni volta che mi viene in mente questo vecchietto: perché mi riguarda da molto vicino o perché non mi riguarda affatto? Devo ancora scoprirlo. 
UMBERTO SOLEVA ripetere che in una biblioteca ci sono il passato, il presente e il futuro: sono certo che nel cosmo lui troverà il modo di andare oltre. È sempre stato vicino ai librai e alla Scuola Umberto e Elisabetta Mauri con la generosità e l’intensità, e allo stesso tempo la leggerezza, che gli erano proprie. Ci ha spesso onorati delle sue lezioni magistrali, che rilette oggi – e nonostante i cambiamenti che ha attraversato in questi decenni il lavoro editoriale – sono ancora perfettamente attuali.
Segno che l’attenzione di Umberto ai tempi, alla modernità e persino al pop non gli ha mai impedito di vedere attraverso il futuro, quasi vedesse con un paio di occhiali a infrarossi, ciò che era destinato a durare – come, appunto, il libro e le sue straordinarie proprietà.
Proprio per questo, mi piace concludere ricordando una sua celebre frase: «Chi non legge, a settant’anni avrà vissuto una sola vita: la propria. Chi legge, avrà vissuto cinquemila anni: c’era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l’infinito… perché la lettura è un’immortalità all’indietro». 

Scheda 
Il Seminario di Perfezionamento della Scuola per Librai Umberto e Elisabetta Mauri (oggi si terrà la sua giornata conclusiva) si svolge alla Fondazione Giorgio Cini di Venezia. Per la giornata odierna è prevista una tavola rotonda con Teresa Cremisi (Gallimard) José Lello (Livraria Lello & Irmão), James Daunt (Waterstones), Giuseppe Laterza (Laterza), Michael Busch (Thalia), Antonio Ramirez (La Central).

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