venerdì 13 gennaio 2017

L'assalto per il detournement del 1917





Mi fanno sapere che alcuni esponenti dell'area post-operaista se la sono presa per un banale post su FB e che Azzarà - "Chi?", "gufo", ecc. ecc. - "rosica" per le loro fortune.


E' un argomento particolarmente in voga presso coloro che si ritengono benriusciti. E che i post-operaisti condividono in questo caso con i renziani come con tutti quelli che, in generale, dicono nietzscheanamente sì alla vita rifuggendo le passioni tristi, beati loro.

In realtà, pur non condividendo nemmeno una parola e anzi considerando le sue teorie una vera jattura, in passato mi sono più volte speso per invitare Toni Negri a Urbino in nome dell'intelligenza e della libertà d'espressione. Scontrandomi più che con il veto dei successivi Rettori, con le defaillances organizzative e la scarsa voglia dei colleghi che pure più dovrebbero essergli vicini.

Soprattutto, pur distinguendo tra Negri e quel negrismo divertentista che spesso somiglia alla scimmia di Zarathustra, ho sempre sostenuto che proprio i post-operaisti sono i veri leninisti del nostro tempo, capaci di conservarsi sempre uguali a se stessi dagli anni Settanta ad oggi, pur tra mille trasformismi. E allo stesso modo, ho sempre detto che poiché la natura ha orrore del vuoto essi hanno giustamente occupato uno spazio lasciato tanto libero che manco loro ci credevano, e perciò tanto di cappello.

Suvvia, si fa per celia! Tanto più che a proposito del 1917 non abbiamo ancora visto il calendario delle celebrazioni taxidermiche, che peggio mi sento [SGA].


L’intreccio tra la svolta che portò al rovesciamento del regime zarista e gli eventi della Grande Guerra L’intervento Usa che inaugurò il secolo americano, ma anche la disfatta di Caporetto
Avvenire Roberto Festorazzi martedì 3 gennaio 2017

Il comune sensibile
La mostra. "Sensibile comune - Le opere vive" inaugura alla Galleria Nazionale d'Arte Moderna a Roma il 14 gennaio e annuncia la conferenza sul comunismo
.1.2017, 22:59
«C17 – La conferenza di Roma sul comunismo e Sensibile comune – Le opere vive» segnano l’ingresso nel centenario della rivoluzione sovietica. Siamo nella seconda decade del gennaio 2017, dal 14 al 22 gennaio. Un seminario internazionale e una mostra, non per commemorare il passato ma per riprendere a immaginare il nostro futuro: comune. Anche senza ismo. Con un passo indietro. Si riparte da Giuseppe Pellizza da Volpedo. Non dal Quarto Stato, l’immagine che ha dato forma all’emancipazione del lavoro lungo il ’900, ma da un suo Prato fiorito custodito dalla collezione della Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma, paesaggio di luce e di grazia che proietta un possibile di vita nuova, nel qui e ora del suo tempo. Come se tra le condizioni per pensare al comune vi fosse quella di inventare una forma, intrecciare un racconto, trovare le parole, sentire una durata, immaginare la luce e i colori, fare esperienza di una gioia altra dagli individui singoli e paurosi che siamo nella vita quando essa ha la forma datale dal capitale. Come se per dare senso a questa parola, comune, che è l’ultima o forse la prima delle invenzioni per poter dire i molti, le genti, le plebi, la fiumana, il proletariato, il precariato, l’intelletto generale, occorresse anzitutto darle dei sensi e costruire le facoltà, anch’esse nuove, per percepirla.
Certo c’è da fare la critica delle immagini del potere e dello sfruttamento, delle subordinazioni e delle mercificazioni, delle società impaurite pronte a rispondere all’appello del farsi popolo e nazione, ma c’è anzitutto da ricominciare un racconto, una finzione narrativa che scavi lo scarto tra ciò che si è e ciò che si può. Assumendo in partenza che comune non è la natura devastata dal capitale cui tornare per ritrovarla intatta, ma un artificio all’altezza delle nostre capacità di creazione. Comune è il preciso oggetto di un gesto creativo che emancipa ciascuno dalle rispettive incapacità, dalle divisioni sociali e del lavoro, dai saperi degli esperti e il governo che ne deriva, e che rovescia in assemblaggi di affetti e nuove forme di vita le passioni proprietarie dell’individuo neoliberale.
Così è l’incipit di un racconto che non smette di ricominciare, teso a costruire il comune sensibile che vorremmo: per presa diretta, con un’immagine, un’opera, un’improvvisazione musicale, una performance, un software, un gesto, un vino naturale, un giardino. Pratiche, esperienze, oggetti che sono sì una mostra ospitata da un museo, ma anche un primo balbettio di parole, per dire di un mondo che non c’è, disposte dentro una nuova grammatica delle relazioni, le cui regole sono tutte da inventare.
LA FORMA
Per questo il rapporto tra estetica e politica torna a interrogare la forma e tralascia il contenuto. Per questo le arti vengono chiamate a partecipare di una costruzione che non è la didascalia immaginaria di una politica pensata da altri. E a chi entra – sia esso un pittore o un regista, un artigiano o un artista, un perfomer dell’arte o del lavoro cognitivo, un poeta o un manager di se stesso – viene chiesto di lasciare sulla soglia il bagaglio dei saperi, delle identità, delle facoltà stesse con le quali ordina la propria vita, gode delle proprie enclosure, guarda e norma il proprio mondo. Azzardare una nuova visibilità è il compito minimo dei comunisti oggi: «l’organizzamento della materia che si compie sotto l’influsso della luce» dice Pellizza da Volpedo nel 1896. È la lezione formale che ci sentiamo di preservare, non per dare un’immagine al nuovo popolo del Quinto stato, ma per riprendere l’incipit di un racconto che non smette di ricominciare, teso a costruire il comune che vorremmo.
Sensibile comune – Le opere vive è ciò che non ha nome. Non è una mostra e non è un festival. Non è una mostra per come questa forma culturale è stata pensata dagli anni Settanta in poi, ovvero non è il sogno privato di uno o più curatori indipendenti. Pensiamo, in questo senso alla rivoluzione di cui sono stati protagonisti Harald Szeemann e Achille Bonito Oliva che con alcune mostre seminali hanno inventato un nuovo modo di concepire l’esposizione attraverso la scrittura visiva mandando in soffitta il rapporto tradizionale tra l’artista e il critico da un lato, e lo spazio espositivo dall’altro, creando, allo stesso tempo, la figura del curatore indipendente e inventando la mostra come «evento» ispirato alla sperimentazione situazionista disinnescata però di ogni velleità rivoluzionaria. E non è un festival, in quanto logica dell’evento, ovvero modo nuovo di consumare la cultura facendo saltare per aria ogni confine tra alto e basso e puntando sulla contaminazione, modulo che ha avuto un suo laboratorio nella Roma di fine anni Settanta grazie a Renato Nicolini con l’Estate Romana, e a Simone Carella con il Beat 72, entrambi preceduti dai Festival di arte, teatro, musica e danza organizzati all’Attico di Fabio Sargentini. Sono forme culturali, quelle di cui abbiamo appena detto, che hanno letteralmente «fatto» il postmodernismo, quella «logica culturale» magistralmente analizzata da Fredric Jameson.
UN MOSTRO
Non è, e non vuole essere, nessuna di queste cose, perché questo «mostro», ecco come potremmo chiamarlo, è troppo ambizioso per ripetere ciò che si conosce già, ciò che rimane irrimediabilmente incardinato nelle forme di vita neoliberiste. Questo hopeful monster, questo mostro pieno di speranza, ha l’ambizione, smisurata lo ammettiamo, di vedere, al di là dell’infelicità diffusa, la luce di qualcosa che viene, quel «comune» che costituisce già la forma di produzione contemporanea e che però non ha ancora le sue istituzioni. Forse, si potrebbe allora dire, è un annuncio. L’annuncio di una forma di vita «comune» dove le «enclosures» moderne vengono sradicate una per una e l’artista, l’intellettuale e l’opera rimettono in discussione il loro statuto identitario a partire da quella straordinaria rivoluzione già descritta all’inizio dei Settanta da Hans-Jürgen Krahl in quelle Tesi sull’intellighenzia tecnico-scientifica che indicavano il divenire immateriale del lavoro e l’avanzare di una intellettualità di massa che mandava in soffitta l’ingiusta divisione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale. Dieci anni dopo sarebbe stato Lucio Castellano, in un bellissimo saggio uscito sul numero 7 di «Metropoli», a ricordare come il mutamento in corso mettesse in discussione il ruolo e lo statuto del sapere degli intellettuali, oltre a quello del potere (aggiungiamo noi, anche di quello culturale).
Un laboratorio dunque, dove provare a scorgere quei continenti nuovi e sconfinati che si estendono al di là del conosciuto e costituiscono quel «possibile» che Deleuze invocava per non soffocare. Infine, come doppio manifesto di Sensibile comune, oltre al Prato fiorito di Giuseppe Pellizza, ci piace pensare, ironicamente, a un olio su tela dipinto nel 1979 da Andrej Plotnov dove Gagarin, con il casco e la tuta da astronauta, sorride e saluta con la mano, pronto a esplorare spazi sconosciuti: Arrivederci, terrestri! è il titolo. Ecco, possiamo pensare a questa mostra come a un cosmodromo del comune, dal quale partire. Ora ci aspetta il mare aperto. Qui la luce, già evocata da Pellizza da Volpedo, è immensa.

Guarda qui per la prima parte del reportage di Ezio Mauro

1917 2017
Aspettando il giorno del giudizio 
Così la sacra “Piter”, divisa e ignara, si prepara all’arrivo del febbraio rosso
EZIO MAURO Rep 13 1 2017
A pranzo si era mostrato come sempre allo Yacht Club sulla Morskaja e i nobili soci sussurravano che mentre si sedeva al tavolo d’angolo era «pallido come la morte». Ma quello era un recinto aristocratico protetto. Questa, adesso, era la vera prova. Si avvicinò alla balconata drappeggiata del palco mentre l’orchestra accordava gli strumenti e in quel tempo sospeso tra la musica e la rivoluzione la folla in platea lo vide, si alzò in piedi e gli indirizzò un lunghissimo applauso, pensando così di liberare finalmente i nechistiki, gli spiriti maligni, nel cielo freddo di Pietrogrado.
Fu il primo atto del nuovo spettacolo che stava per andare in scena nella capitale infiammando la Russia, quell’applauso eversivo a un attentato imperiale che decapitava il cerchio più ristretto di comando attorno allo Zar, ribellandosi all’autocrate. Altri spiriti stavano per scendere sul “secolo di ferro”, liberandolo per subito imprigionarlo, o forse Kikimora, il mostro maligno del sottosuolo, si preparava a saltare sul campanile della Trinità come nelle fiabe che terrorizzavano i bambini. Attirate dal fragore dell’applauso le ballerine del Mikhajlovskij che corsero a sbirciare dal sipario verso la platea furono le prime a rovesciare inconsapevolmente la prospettiva: guardando dal palco la città come il vero grande scenario dove da quel momento in poi incominciava la rappresentazione dell’impensabile e saliva in cartellone l’impossibile. Quasi che “Piter”, costruita sott’acqua come una moderna Atlantide, avesse allineato per due secoli i suoi palazzi di granito, i suoi canali ghiacciati, i suoi ponti ad arco come una gigantesca fata morgana, in attesa di dissolvere tra pochi giorni il miraggio per diventare il gran teatro di un esperimento mai visto di sovvertimento universale. Fiacre, carrozze francesi col tetto di cuoio, mantici scuri e bardature fiammanti, slitte a due posti trainate dai cavalli Orlov aspettavano davanti al teatro in piazza delle Arti, lasciando solchi di gelo smaltato. Qualcuno si fece ancora portare al Circolo Inglese per finire la serata, o a provare la zuppa di gamberi nelle capanne sulla Neva, o fin su alle isole per il caviale di Felicien, o al match di lotta del circo Cinizelli per poi passare all’alba alla sauna di via Konjushennaja, oppure nei saloni dell’Astoria dove si inseguivano al suono del foxtrot ufficiali abituati a vivere di notte, vedove di guerra, crocerossine, prostitute e contesse che conversavano in francese. Tutti correvano, nell’ansia elettrica della città eccitata e snervata dal sentimento oscuro della fine e senza saperlo vivevano l’ultimo viaggio dell’aristocrazia che aveva appena gettato fiori sul palco del balletto, come se nulla fosse: nell’omaggio finale alla musica, alla grazia, alla bellezza e infine soprattutto alla città dei miracoli che radunava le sue meraviglie e poi come nei sogni trasformava ogni cosa in nebbia, acqua e fumo. Sotto l’immobile cupola d’oro di Sant’Isacco e la torre dell’Ammiragliato, davanti alle guglie della fortezza Pietro e Paolo, dietro i recinti di mattone rosso che sono rimasti intatti attorno alle fabbriche di Vyborg, cent’anni fa Pietrogrado, man mano che si lasciava alle spalle il dicembre di Rasputin e si inoltrava nel gennaio del 1917, era la città dei due mondi. Viveva contemporaneamente gli ultimi bagliori moribondi della Corte imperiale più ricca del mondo e l’incubazione di un esperimento rivoluzionario che sarebbe durato settant’anni, fermando il secolo per deviarne l’intero cammino. Il Palazzo reale, ignaro e irresponsabile, fu il simbolo rovesciato per le due correnti che s’incrociavano nelle ore decisive della capitale, l’autocrazia morente e la marea popolare montante. La liturgia imperiale rinsecchiva nell’angoscia della guerra con la Germania, dopo l’offensiva tedesca, la tragica ritirata russa e per la prima volta a Natale non c’era stato lo scambio tradizionale dei doni tra i Romanov, un clan di sessanta persone tra Granduchi, Principi e Principesse, disciplinati a fatica negli appetiti e negli appannaggi dal ministro di Corte Fredericks, che la famiglia imperiale chiamava «our old man».
In realtà i Granduchi formano ormai una specie di partito della sopravvivenza monarchica, deciso a tutto, incalzato rovinosamente dall’apocalisse. «Io e il mio portinaio vediamo perfettamente che la Russia sta perdendo tutto, nel Paese e al fronte — dice il Granduca Kirill Vladimirovic — Soltanto la famiglia imperiale non lo vede». E suo cugino Nikolaj Mikhailovic aggiunge: «L’omicidio di Rasputin è una mezza misura, bisogna togliere di mezzo l’Imperatrice. Mi balenano in mente idee omicide, non del tutto chiare ma logicamente necessarie…. Mi gira la testa… Che tempi, che maledizione si è abbattuta sulla Russia».
L’IMMAGINE
Lo zar Nicola II (al centro) e suo figlio Aleksej (a sinistra) con le truppe
Due esponenti dell’opposizione alla Duma incontrano il Granduca in treno e nel viaggio parlano apertamente di zaricidio. «A poco a poco si è formato un vuoto intorno ai sovrani — aveva rivelato già mesi prima l’ex ministro degli Esteri Sazonov — nessuna voce da fuori penetra ormai nella loro casa». E i sovrani, sempre più rinchiusi a Zarskoe Selo, rispondevano odiando la città delle congiure, capitale degli intrighi. «Io sono sul trono da più di vent’anni — dirà in quei giorni la Zarina —, conosco tutta la Russia e so che il popolo ama la nostra famiglia. Chi è contro di noi? Pietrogrado: un piccolo gruppo di aristocratici che giocano al bridge e non capiscono niente». Erano gli Imperatori che non capivano più la loro città.
Solo tre anni prima l’avevano vista inginocchiarsi a terra davanti alla loro apparizione al balcone del Palazzo d’Inverno per la dichiarazione di guerra alla Germania, cantando Bozhe, Zarja khrani, «Dio salvi lo Zar, forte e maestoso, che per la nostra gloria, regna sui nemici atterriti». Vent’anni prima, nel pieno della potenza autocratica, avevano celebrato a Mosca l’incoronazione con un banchetto da settemila invitati. Appena quattro anni prima, il 21 febbraio del 1913, tutte le campane della Russia suonarono insieme dalle otto di mattina per accompagnare a mezzogiorno il cocchio scoperto su cui Nikolaj II e lo zarevic Aleksej arrivavano alla cattedrale Kazan per celebrare i fasti della dinastia, nel trecentesimo anniversario del giorno in cui nel 1613 i bojari proclamarono Zar il primo Romanov, Mikhail. Nel rito solenne del Te Deum, con cento soldati in alta uniforme sul sagrato, pronti a sguainare le sciabole della fedeltà imperiale nel saluto d’onore, si stava in realtà consumando ogni sovranità e qualsiasi potere, realizzando la profezia di Gogol, per cui «a San Pietroburgo tutto è inganno », perché la città «mente a ogni ora, ma più che mai quando la notte cala sopra di essa come una massa densa». E il primo inganno — perenne — è la neve, che oggi come sempre sui ponti della Mojka cancella ogni traccia e altera i profili, lasciando tutto intatto come in quei giorni, un secolo fa.
Quel vuoto isterico, eccitato, instabile, fu riempito dall’irrazionale come accade quando tutto vacilla, domina la precarietà e in una città condannata al mito eterno della cosmogonia inizia il crepuscolo, quel sumerki in cui la realtà del giorno perde via via i contorni, il buio fatica a scendere e tutto rimane in attesa, incerto, indefinito ma plausibile. Ballavano i tavolini a Corte, a casa delle “montenegrine”, le due principesse Militsa e Anastasija. Bussavano gli spiriti nei salotti della capitale, tra i marmi del conte Sheremetev, negli stucchi dorati della contessa Golovkin, mentre nei circoli prosperavano gli “innocenti”, intermediari col soprannaturale, i magnetizzatori, gli illuminati. Massonerie che volevano la Costituzione e società segrete improvvisate crescevano ovunque, accanto al potere, mescolando affari, esoterismo, sesso. Così che oggi basta salire da soli di notte le scale di ghisa circolari e silenziose della “Rotonda” di via Gorokhovaja — i “gradini satanici” — per immaginare ad ogni pianerottolo i riti e i bordelli che si nascondevano allora dietro quelle porte, e quindi guardar giù dall’alto nel precipizio del vortice centrale fino alla fossa rinchiusa sopra la testa del demonio: che a Pietrogrado, secondo Dostoevskij, si presenta sempre con i capelli lunghi appena brizzolati, la giacca marrone, la sciarpa larga e logora, un cappello di pelo bianco perennemente fuori stagione.
L’isterismo spirituale nascondeva alleanze di potere, copriva rituali politici di bassa lega nobilitandoli nella preghiera e nascondendoli nell’arcano. A Zarskoe Selo, nel Palazzo Imperiale l’intesa tra il prefetto di polizia, il capitano Nilov, il generale addetto ai cavalli, il maresciallo di Corte formò una rete segreta all’ombra del trono per indirizzare iniziaticamente il potere, la segretissima “Camera Stellata”. Tutta la città parlava delle simpatie tedesche del “Partito Occulto”, vicino alla Corona. Addirittura, col pieno consenso della Zarina veniva continuamente evocato lo spirito immortale di Rasputin, celebrando un sacro “mistero” dietro il portale sbarrato della cappella di palazzo Aleksandr, con tre ministri in catena, le donne che pregavano invocando il Santo fino al momento culminante dell’”angoscia”, quando il ministro dell’Interno Protopopov lo vedeva, lassù nel punto più alto della cupola affrescata, e si faceva dettare gli affari di Stato direttamente dall’oltretomba.
Si capisce che fuori, nella città reale, ogni cosa stesse scappando di mano ad un potere cieco. Tutto precipitava, e non si sapeva verso che cosa. Marx era arrivato nella capitale a cavallo del secolo con la prima edizione del Capitale tradotta in lingua straniera (tremila copie, subito esaurite), con gli opuscoli rivoluzionari diffusi nei circoli operai e passati clandestinamente da una cella all’altra tra i detenuti politici della Fortezza Pietro e Paolo. In quel momento, infatti, quando tutto stava per finire e un altro mondo stava per cominciare, i capi rivoluzionari erano in esilio come Lenin a Zurigo e Trotzkij a New York, in prigione come Dzerzhinskij, il futuro capo della Ceka — l’antenata del Kgb —, al confino o deportati sotto sorveglianza dell’Okhrana, la polizia segreta zarista che aveva ereditato metodi e poteri speciali dalla famosa “Terza sezione”, e con il suo “Ufficio nero” controllava anche la corrispondenza dei sovversivi. Da qualche tempo sorvegliava con preoccupazione anche le scuole, in particolare i 90 istituti superiori dove c’erano manifestazioni quotidiane di protesta, nate per ragioni studentesche ma diventate ormai apertamente antigovernative: in una Russia in cui nei primi anni del secolo quattro ministri dello Zar erano morti in attentati progettati ed eseguiti da studenti.
Ma era nelle fabbriche e nelle famiglie che cresceva il malcontento, senza sapere che sarebbe diventato rivoluzione. Già i moti del 1905 erano nati dentro le officine Putilov, con gli operai metalmeccanici che chiedevano la giornata di otto ore e l’aumento del salario minimo. Adesso bisognava fare i conti con un costo della vita triplicato e con un salario operaio che era meno della metà rispetto alle fabbriche inglesi. Ma nessun conto si poteva fare con quello che non c’era: il pane e i generi alimentari di immediata necessità. Prima di Natale manca lo zucchero e le grandi aziende Ivanov e Markov a Mosca chiudono il loro mercato all’ingrosso nel Proezd Lubjanskij che rifornisce tutto il Paese. Il prezzo del tram rincara, senza una spiegazione. Il burro a Pietrogrado sparisce di colpo, poi ricompare all’improvviso a prezzi impossibili, e la gente lo compra comunque, spaventata all’idea di non trovarlo più domani. Psicosi e speculazione si danno il cambio nei mercati, nelle vetrine vuote, ovunque ci sia qualcosa da vendere e da comprare per trasformarlo in un pranzo o una cena.
Ma bisogna attraversare i ponti che hanno ancora l’aquila bicipite sui lampioni in ferro battuto, camminare in senso contrario alla folla rivoluzionaria e andare a cercare il punto d’origine di tutto, nei quartieri operai di Vyborg e di Narva. Qui non ci sono più i forni del pane, ma guardandosi intorno tra le ciminiere si rivede lo stesso fumo di cent’anni fa, quando per i lavoratori delle officine c’era il divieto di tenere riunioni, l’impossibilità di cambiare fabbrica, la proibizione di organizzare mense. Prima, il 9 gennaio, gli operai scelgono l’occasione dell’anniversario della “Domenica di sangue” del 1905 e scendono in sciopero. Poi il pensiero europeo di Marx si realizza nelle strade di Pietrogrado, per la materialità della crisi, la vastità dell’emergenza, il clamore della sua evidenza, senza uno schema ideologico. Scende la temperatura, si allarga il gelo, circola la voce che ci sarà un razionamento dei pochi prodotti nei negozi. Si formano code di donne, di vecchie, di uomini inferociti. Si allungano di notte. Si gonfiano di rabbia col freddo. Qualcuno spacca le vetrine, forza le porte nel buio, ci sono i saccheggi disperati del nulla.
Manca soltanto il detonatore, che sta arrivando. Ma nell’attesa la protesta sta già cambiando direzione, sa dove vuole andare e si rivolge subito contro l’Imperatore, “Zar Golod”, lo “Zar Fame”, colpevole di tutto, la penuria, le code, l’avvilimento e il furore delle famiglie senza cibo e senza diritti, tradite da un potere lontano, separato, inconsapevole perché incosciente, che nella miseria delle tavole vuote perde ogni maestà, qualsiasi sacralità, tutta la potestà imperiale, distrugge perfino l’antica devozione contadina per il “piccolo padre”. L’Okhrana con i suoi agenti infilati nelle code vede arrivare il crollo, invia rapporti sempre più allarmati al governo. «Le donne sfinite dalla fame dei figli e dalle attese interminabili davanti ai negozi sono oggi forse più pronte alla rivoluzione dei loro uomini», dice una relazione di gennaio 1917. Nel febbraio 1914 Petr Durnovo, il ministro degli Interni conservatore, aveva già previsto tragicamente ogni cosa in un memorandum quasi profetico all’Imperatore: «Tutto avrà inizio con l’accusa al governo di essere la causa di ogni male. Si scatenerà una violenta campagna antigovernativa con agitazioni rivoluzionarie in tutta la Russia e parole d’ordine socialiste capaci di sollevare la masse, come la spartizione delle terre e di tutti i beni privati. Le forze armate sconfitte saranno troppo demoralizzate per difendere la legalità e l’ordine. Le istituzioni parlamentari e i partiti, mancando di ogni ascendente sul popolo, saranno impotenti ad arginare la marea popolare da loro stessi provocata e la Russia sprofonderà nella più disperata anarchia».
Chi riceveva i rapporti segreti, chi leggeva i memorandum? Il governo sottovaluta, lascia che lo Zar parta per il quartier generale di Mogilev, dopo che a Zarskoe Selo è rimasto nei suoi appartamenti, dietro la porta chiusa su cui vigilano le quattro guardie abissine coi i turbanti candidi, col divieto di parlare e dopo mezzanotte anche di starnutire. La guerra aveva fatto saltare la fiera di beneficienza nella Sala della Nobiltà, ma i pranzi nel Palazzo Imperiale (quattro piatti a colazione, cinque a cena) venivano sempre preparati per dieci persone, pronti per ospiti improvvisi, come se nel villaggio dell’imperatore tutto fosse normale. In sordina, dopo Natale erano iniziate anche le danze (agli ufficiali era proibito il tango se indossavano l’uniforme), con il famoso “ballo bianco” per le ragazze senza fidanzato, e si pensava già al carnevale, ignorando che non ci sarebbe più stato.
Ma la Corte appare immemore, ipnotizzata dalla precognizione indecifrabile della sua rovina e incapace di trasformare il presagio in politica. La cerchia più larga attorno alla Corona è ancora più avvinghiata al rituali, per paura di perderli. Pochi giorni prima che la scintilla rivoluzionaria si accenda nelle strade di Pietroburgo, la ballerina Mathilde Ksesinskaja — ex fiamma di Nikolaj II quando era un giovane ufficiale della Guardia — apre casa per una cena con 24 ospiti con i piatti di Limoges, il servizio da pesce dorato, myosotis e merletti intrecciati al centro del tavolo, accanto a fiori artificiali in pietre preziose e un piccolo albero di Natale dorato addobbato di diamanti.
Così scivolava “Piter” verso il Febbraio della storia, in una corsa inevitabile come quella delle acque della Neva. Come annota in quei giorni Zinaida Gippius nel suo diario azzurro, «non accade nulla fuori da Pietroburgo, tutto ha inizio qui e da qui si diffonde, solo qui si può sapere, vedere, capire». La città dai tre nomi, scrive Aleksej Tolstoj, vive quelle ore dentro una continua notte da sonnambuli, «fosforescente ed eccitata», «folle e voluttuosa con le sue trojke, i suoi duelli all’alba, le parate davanti a un imperatore con gli occhi bizantini»: accanto alla disperazione delle file per il pane, alla rabbia popolare che scopre se stessa, forte, autonoma, consapevole e cosciente, in un Paese costruito per un potere solo, assoluto e proprietario più ancora che sovrano. Le due anime travagliate formano insieme Pietrogrado, splendida e terribile nella brace ardente di quei giorni, ultima capitale dell’Impero zarista, prima capitale della rivoluzione, eterna capitale simbolica di ogni fine e di tutti gli inizi. Ma adesso, nella sospensione del destino, “Piter” è il personaggio centrale di tutto, scena e attore, protagonista e fondale, come se la città tutta insieme salisse i 13 gradini della scala di Raskolnikov nel vicolo Stoljarnyj per incontrare il suo delitto e il suo castigo, inaugurando la “grande epoca”.
Di notte, cent’anni dopo, tutto sembra com’era, in questa composizione intatta di storia e di luce, di marmi e di fato, di ghiaccio e memoria. Cammino da un ponte all’altro sui canali fino al fiume Prjazhka cercando una finestra. Quella al numero 57 di ulitza Dekabristov dove il poeta Aleksandr Blok passava ore al buio, in quelle notti, guardando il “freddo violetto” di Pietrogrado: e oltre la finestra, «la Russia che vola chissà dove, nell’abisso azzurro- blu dei tempi». 2. Continua

Nessun commento: