martedì 24 gennaio 2017

"Populismi": persiste l'illusione kantiana del nesso tra democrazia, libero commercio, pace perpetua





Pronto il “New deal” Trump- May per i commerci e la finanza

Paolo Mastrolilli Busiarda 23 1 2017
Lui già la chiama «la mia Maggie», e l’accordo che sigleranno durante l’incontro in programma alla fine di questa settimana viene definito il «New Deal». Lo scopo è rilanciare le storiche relazioni bilaterali e riportarle ai fasti degli Anni 80, quando i protagonisti si chiamavano Reagan e Thatcher.

Stiamo parlando del nuovo asse tra Stati Uniti e Gran Bretagna, che Donald Trump conta di costruire con Theresa May. L’intesa si farà e conterrà un’immediata riduzione delle barriere commerciali, più l’istituzione di un sistema di «passporting» che consentirà alle rispettive istituzioni finanziarie di operare quasi senza vincoli nei due Paesi. Per consolidarlo, però, la May cercherà di spingere il nuovo capo della Casa Bianca ad attenuare le critiche verso la Nato e la Ue, perché continua a ritenerle fondamentali per la sicurezza dell’Europa.
Nel suo discorso inaugurale Trump ha detto che vuole «rafforzare antiche alleanze», e appena entrato nello Studio Ovale ha rivoluto il busto di Churchill. Tutti hanno letto in questi passaggi la volontà di rilanciare la «relazione speciale» tra Washington e Londra, per farne il perno della nuova alleanza che dovrà mettere in pratica la sua visione tanto sul piano economico, quanto su quello della sicurezza. È vero infatti che il nuovo presidente ha usato lo slogan «America First» come stella polare, ma per centrare i suoi obiettivi ha bisogno di amici, e la Gran Bretagna è il punto di partenza più ovvio, non solo per l’orgoglio con cui Donald ricorda le origini scozzesi di sua madre, ma anche perché l’asse anglosassone è quello più naturale a cui affidarsi, soprattutto per un presidente che considera la Germania un rivale che porta la Ue nella direzione sbagliata. Intanto Trump ha annunciato che il Nafta, l’accordo di libero scambio fra Stati Uniti, Messico e Canada verrà rinegoziato.
I primi passi
Londra non può negoziare un accordo bilaterale con Washington prima di essere uscita formalmente dalla Ue, ma esistono iniziative che è lecito prendere subito. Il «New Deal», ad esempio, includerà un sistema di «passporting» per consentire alle banche dei due Paesi di operare senza ostacoli. Una dichiarazione congiunta solleciterà i paesi della Ue a portare le spese militari al 2% del Pil, impegno già sottoscritto ma non rispettato dai membri della Nato, e sradicare insieme l’Isis. L’alleanza verrà sigillata da una visita di Trump nel Regno Unito entro l’estate, dove il nuovo presidente si aspetta un’accoglienza in pompa magna superiore a quella offerta a Reagan nel 1982, incluso un round di golf al castello di Balmoral, residenza privata della regina.
Gli ostacoli da rimuovere prima sono soprattutto due: le dichiarazioni offensive di Donald verso le donne, che Theresa ha già condannato, e la linea su Nato e la Ue. Il giorno del referendum Trump aveva esaltato la Brexit, prevedendo la dissoluzione dell’intera Unione. May, tuttavia, non ritiene che il collasso di Bruxelles sia nell’interesse di Londra. Sul piano economico entrambi i Paesi seguiranno la via del nazionalismo, cercando l’equilibrio tra protezionismo e proiezione globale, con l’eccezione del rapporto bilaterale, mentre su quello della sicurezza continueranno a collaborare. May ritiene che pur restando fuori dalla Ue, la Gran Bretagna tragga vantaggi dalla sopravvivenza dell’Unione, non solo per i commerci, ma anche per la stabilità. Stesso discorso, o forse anche di più, per la Nato, che invece Trump ha definito «obsoleta». Theresa cercherà di convincerlo che l’asse anglosassone può guidare il mondo, ma senza voltare le spalle agli altri alleati.
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Invitare i russi al summit della realpolitik 
Giampiero Massolo Busiarda 23 1 2017
Volente o nolente il problema se invitare Vladimir Putin al vertice di Taormina in maggio, ricostituendo il G8, si pone. 
È una decisione di chi ne esercita la presidenza, avrebbero fatto sapere collaboratori del presidente americano Donald Trump. È vero. 
Spetterà quindi in ultima analisi all’Italia determinarlo, pur in consultazione con gli altri partner del gruppo. Non si tratterà di colloqui facili, in bilico tra realpolitik e esigenze di coerenza e fedeltà ai principi. Eppure, ci converrebbe tentare. Nella scelta di riammettere Mosca entrano, difatti, fattori non univoci e potenziali novità di scenario da non sottovalutare.
In gioco, a poche settimane dall’uscita di scena di Barack Obama, vi è anzitutto il concetto di Occidente, con i suoi valori condivisi e il comune sentire sui temi della governance mondiale, a tratti assai diversi da quelli dei grandi Paesi emergenti o delle democrazie «guidate». I membri del G7 se ne sono sempre considerati i portatori. Ammettere formalmente la Russia in quel consesso fu, verso la fine degli Anni 90, ad un tempo, il sigillo definitivo della caduta del Muro e la scommessa di incanalare i suoi futuri sviluppi politico-economici e i suoi comportamenti in direzioni più consonanti con i nostri. Nello stesso spirito, l’annessione della Crimea da parte di Putin, ne provocò quasi vent’anni dopo l’esclusione, per violazione manifesta della legalità internazionale. Insomma, il frutto di una riprovazione morale, prima ancora che una sanzione politica. L’amministrazione americana uscente se ne rese l’interprete principale. 
Non stupisce, dunque, che vi siano resistenze e perplessità su di uno sfondo di tale portata, reso ancor più cogente dall’insistenza dell’ultimo Obama sulla crucialità di preservare, magari in capo alla cancelliera Merkel, valori liberali e mercati aperti. E tuttavia, non sappiamo ancora quale significato intenda dare il presidente Trump alla nostra comunità di valori e se la nozione di Occidente assuma anche per lui quel carattere valoriale e non scambiabile al quale l’America ci ha da sempre abituato. Potremmo avere delle sorprese.
Non da oggi, d’altro canto, sul rapporto con Mosca si è disputata una partita importante anche per gli assetti di potere nell’Unione Europea. Il fattore energetico, in primo luogo, che ha fatto talvolta mettere in secondo piano addirittura il principio della solidarietà alleata in nome del proprio approvvigionamento; le diverse sensibilità dei Paesi dell’Europa orientale, il cui campo, se unito, pesa all’interno del Consiglio Europeo e divide il Continente; la tentazione franco-tedesca di monopolizzare il rapporto politico con la Russia sulla crisi ucraina. 
È comprensibile, quindi, che non manchino candidati autorevoli alla guida di quel processo di riavvicinamento europeo a Mosca che l’elezione di Donald Trump potrebbe accelerare. Mentre la Germania avrà comunque presto la sua chance, ospitando Putin in luglio al vertice G20 di Amburgo sotto presidenza tedesca.
Vi è poi il tema del buon ordine della convivenza internazionale e delle sue regole: come indurre il trasgressore a modificare la sua condotta? Il ricorso alle sanzioni è ormai consueto. Presuppone, tuttavia, per essere efficace, principi riconosciuti e condivisi: l’impiego di questo strumento da parte di un’amministrazione americana che si presume pragmatica e transazionale resta da definire e potrebbe risultare meno automatico o assumere forme diverse.
Si impone, infine, una constatazione: la Russia, malgrado i nostri veti e esclusioni, ha continuato a mettere l’Occidente di fronte ai fatti compiuti, a cominciare dalla crisi siriana e dalla sua gestione. Se a una simile logica di potenza il presidente Trump intendesse ora reagire non con la mobilitazione sanzionatoria dell’Occidente, ma con una logica analoga, ricercando con Mosca reciproche convergenze di interessi, le eventuali intese russo-americane passerebbero inevitabilmente sulla testa degli europei. 
All’Europa conviene scoprire le ambiguità e accelerare il confronto. Un vertice di Taormina con Putin, lungi dall’avallarne i comportamenti, ne offrirebbe una sollecita occasione: i margini per un’iniziativa italiana sono nei fatti. 
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Ma la sorpresa può essere la Cina di Xi 
Stefano Stefanini Busiarda 23 1 2017
A Davos Xi Jinping si è presentato con il manto della libertà commerciale internazionale; tre giorni dopo, nel discorso inaugurale, Donald Trump ha invocato la protezione dei confini e dalle importazioni a buon mercato. Con due visioni del mondo agli estremi opposti, Cina e Usa, le maggiori potenze mondiali, non possono ignorarsi a vicenda.
Un a guerra commerciale sarebbe disastrosa per il resto del mondo. Le tensioni nel Mar Cinese Meridionale possono degenerare in conflitto armato. La Corea del Nord scalda i muscoli balistici e nucleari; solo Pechino la può tenere a bada. Perché non fare incontrare i due Presidenti al G7 di maggio, sotto presidenza italiana? 
A condizione che tutti i Sette siano d’accordo d’invitare il Presidente cinese (e che egli accetti), naturalmente. Non facile ma ci sono buoni motivi cui potrebbero non essere sordi. Il fatto che la Cina non faccia parte del G7 è un argomento nominalistico. Se serve, nulla osta che il Gruppo incontri il leader cinese. 
Donald Trump rispetterà gli amici che gli faranno trovare pane per i suoi denti. Vuole cambiare le carte in tavola, rivedere le regole; l’Europa, la Nato, l’Occidente devono accettare la sfida e rispondere al nuovo col nuovo. Assecondare, abbarbicarsi al passato sarebbe un errore. L’innovazione italiana consisterebbe nel portare il G7 fuori dagli schemi facendone anche cornice ad un incontro con Xi Jinping. 
A quattro mesi al vertice G7 di Taormina (26-28 maggio), condizionata dalla spada di Damocle delle elezioni, la presidenza italiana può essere tentata dall’ordinaria amministrazione. Sarà il primo del presidente Trump, del primo ministro May e dell’incognito Presidente francese e servirà a rompere il ghiaccio. Forse. Ma né i nuovi né i vecchi partecipanti vengono in Sicilia per giocare alle belle statuine. Sfidano una mezza rivoluzione dell’ordine internazionale, innescata anche da Washington. Senza una pista ambiziosa, lasciata Taormina, ciascuno se ne andrà per la propria strada, dimentico del vertice se non per la spettacolare bellezza naturale. A cominciare dal nuovo Presidente americano. 
Donald Trump non ha detto che il G7 è «obsoleto». Lo misurerà per quello che offre nell’ottica nazionalmente utilitaristica di cui non fa mistero. Ha avvertito il mondo che il ruolo internazionale degli Stati Uniti è in funzione dell’interesse americano («America first»). Senza quest’interesse farà un passo indietro. Per non scivolare nelle lontane retrovie delle priorità americane - e di riflesso degli altri - il G7 deve soddisfare questa condizione. 
Dopo Brexit e con una nuova amministrazione americana che vede la diplomazia soprattutto in chiave di do ut des bilaterali, il G7 serve a tenere insieme l’Occidente e a ricomporre le fratture. A questo fine non può che rimanere un Circolo chiuso. Deve però essere cosciente che rappresenta ormai meno del 45% del Pil mondiale. Finiti i tempi in cui dettava scenari. Senza canali con l’esterno diventa un raduno di vecchie glorie. Chi può (Stati Uniti, Giappone) avrà poi modo di farsi valere con i propri mezzi; più deboli gli europei specie dopo Brexit. Il G20, il cui prossimo vertice si terrà ad Amburgo, il 7 e 8 luglio li vede in minoranza. 
L’alternativa è di aggiungere al G7, nel suo formato attuale, un flessibile canale per agganciare altri interlocutori chiave. Oltre a Xi Jinping, l’altro ovvio candidato sarebbe Vladimir Putin, avendo ben chiaro che l’invito al Presidente russo non è una concessione, né una reintegrazione nel gruppo, né una revoca di sanzioni, ma semplicemente il riconoscimento di reciproci interessi a dialogare. Quale sarebbe il valore aggiunto per i nostri partner europei, per Giappone e Canada? Nel caso di Xi Jinping di facilitare un dialogo bilaterale Cina-Usa che nell’era Trump si annuncia difficile. Inversamente, nel caso di Putin, di non essere del tutto tagliati fuori da una probabile conversazione a due fra Washington e Mosca. In entrambi i casi di esserci, in stanza, anziché solo osservatori esterni.
Invitare Xi Jinping e Vladimir Putin non è una proposta da fare pubblicamente. Sarebbe rapidamente impallinata dalle altre capitali. Va esplorata, non dichiarata. Se poi l’Italia scoprisse che incontra il favore della Sfinge di Washington (qual è la politica estera di Trump?), soprattutto in chiave cinese, anche gli altri potrebbero essere convinti. Molto discretamente.
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