venerdì 20 gennaio 2017

Riotta irride il libro di Traverso

Malinconia di sinistra
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Voluttà della sconfitta malattia mortale della sinistra moderna 

Un saggio dello storico Enzo Traverso affronta la mitologia perdente dei movimenti progressisti con qualche cedimento al suo fascino pericoloso 

Gianni Riotta Busiarda 20 1 2017
La sinistra soffre nel XXI secolo. Il partito democratico Usa digerisce l’amarissima sconfitta Trump, i laburisti inglesi si esiliano all’opposizione con il leader Corbyn, in Francia il presidente socialista Hollande è fuori dalla gara per l’Eliseo, in Germania la Spd ridotta al rango di ancella della Merkel, in Italia il neo premier Gentiloni fatica a tener alta la guardia riformista contro i 5 Stelle. In America Latina i caudillos impoveriscono i descamisados, in Brasile le glorie dell’ex presidente Lula avvizziscono negli scandali.
È la stagione perfetta per Malinconia di sinistra, Una tradizione nascosta, saggio dello storico italiano di Cornell University Enzo Traverso, tradotto da Feltrinelli dopo una prima edizione inglese. Una indagine su politica, cultura, anche di massa, cronaca, per capire perché, a sinistra, essere sconfitti induca emozioni, film, romanzi, mitologie e certe disfatte, dalla Guerra di Spagna 1936-1939 alla morte del guerrigliero Che Guevara in Bolivia nel 1967, creino più pathos di certe vittorie. Perché – sembra chiedersi Traverso – la sinistra detesta il bilancio, sempre con luci ed ombre, del governo, prediligendo l’apocalisse della sconfitta «in un fulgor di gloria», come cantava una ballata del Partito Comunista romano?
L’autore non ha dubbi: meglio perdere tenendo ferma la propria identità, che vincere, accettando compromessi che impongano di evolvere. Affida alla massima «Malinconia e rivoluzione vanno insieme; non c’è l’una senza l’altra. La malinconia segue i passi della rivoluzione, come un’ombra… è attraverso la sconfitta che l’esperienza rivoluzionaria si trasmette da una generazione all’altra» la conclusione amara del manifesto di chi ha l’opposizione nel Dna.
Uno slogan degli Anni 70, tempo che Traverso rivisita con eccessivo romanticismo (Curcio non è mai citato, i terroristi tedeschi appaiono solo come comparse in un documentario), ironizzava «Di sconfitta in sconfitta fino alla vittoria» e Malinconia di sinistra è l’antologia erudita di questa sindrome. I seguaci del senatore socialista Sanders che non hanno votato la Clinton perché «neoliberista»; i giovani corbynisti che considerano Tony Blair, il solo leader del partito rieletto tre volte, un «criminale di guerra»; i ragazzi italiani che odiano l’ex primo ministro Renzi per il Jobs Act; l’ex ministro greco dell’Economia Varoufakis che preferisce far conferenze nel mondo piuttosto che accettare il duro lavoro di governo del compagno di battaglia Tsipras: ecco la piazza che adora la «malinconia» escatologica di Traverso.
Se, invece, ancora sopravvivesse qualche superstite persuaso che gli eredi del «Novecento di sinistra» possano governare nel nuovo millennio, allora il saggio acuto di Traverso andrebbe letto, Omen Nomen, «di traverso», per capire perché la sconfitta tanto ammali i progressisti, e come liberarsi da questa sindrome, affascinante e perniciosa. 
Per Traverso i guai cominciano con la caduta del Muro di Berlino, 1989, quando il filosofo Fukuyama parla di «fine della Storia» e i valori liberali sembrano imporsi dalla California agli Urali, con l’utopia del presidente G.W. Bush di esportare la democrazia in Iraq, fino alle speranze acerbe della Primavera Araba. La fine dell’Urss e del Muro innesca il trionfo del neoliberismo, «Il capitalismo, si diceva, ci avrebbe riservato un avvenire radioso. Era diventato una “religione”…» e che la famigerata globalizzazione abbia liberato dalla fame un miliardo e mezzo di esseri umani, tra Asia e America Latina, poco conta: la sinistra di cui qui si discute ha un brand occidentale. Che il fascino possente della libertà e della democrazia venisse anche dall’oppressione che, da Stalin in avanti, l’Urss aveva proiettato non conta, il dittatore georgiano è citato appena due volte, ed entrambe non come il maestro del Terrore ma icona del passato, mentre al bolscevico Trotzkji tocca una dozzina di affettuose note.
Traverso giudica il 1989 un’apocalisse, mentre era solo la fine di «una» sinistra, la coalizione operai, braccianti, intellettuali che dal Manifesto di Marx 1848 ai funerali del segretario comunista Berlinguer nel 1984, tanto aveva contato in Europa. Irride il dissidente e presidente ceco Václav Havel che «ha messo fine a un itinerario scintillante di saggista e drammaturgo… per diventare la copia pallida e triste di uno statista occidentale» trascurando l’intelligente lavoro con cui l’Havel politico provò a incardinare valori europei e dinamismo sociale Usa in una «nuova sinistra». Se la sinistra non può essere che «sconfitta», ecco allora il gioire del filosofo marxista Zizek davanti all’elezione di Trump: purché perda l’aborrito neoliberalismo, si dia il benvenuto al populismo.
La coalizione Operai+Contadini+Intellettuali della vecchia sinistra non ha oggi, in Europa e in America, voti a sufficienza per vincere. I giovani credono nelle app non nel Che. La crisi ha impoverito la classe media che vota con rabbia e a cui la sinistra non sa offrire soluzioni ed emozioni. La malinconia è sentimento struggente, ma non basta a pagare il mutuo o trovare lavoro. Una nuova sinistra, ecco il dilemma bruciante per Renzi, Gentiloni, Macron, Trudeau, democratici Usa e laburisti inglesi, deve trovare l’app per fugare i fantasmi della disfatta e ricreare una coalizione vincente: lo stesso Marx, del resto, in ogni sconfitta ricercava i semi di ripartenza. La malinconia non è oggi la romantica balia della sinistra, è il suo elegante e spietato becchino.
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