martedì 17 gennaio 2017

Trump e il "populismo" come ridefinizione della catena di comando in Occidente e dentro le classi dominanti


POPULISMO, RISPOSTA LEGITTIMA 
THOMAS PIKETTY Rep 17 1 2017
FRA meno di quattro mesi, la Francia avrà un nuovo presidente. O una presidente: dopo Trump e la Brexit non si può escludere che i sondaggi ancora una volta si sbaglino, e che la destra nazionalista di Marine Le Pen si stia avvicinando alla vittoria. E anche se si dovesse riuscire a evitare il cataclisma, esiste un rischio reale.
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IL RISCHIO Le Pen riesca a posizionarsi come la sola opposizione credibile alla destra liberale per il round successivo. Sul versante della sinistra radicale, si spera naturalmente nel successo di Jean-Luc Mélenchon, ma purtroppo non è lo scenario più probabile.
Queste due candidature hanno un punto in comune: rimettono in discussione i trattati europei e il regime attuale di concorrenza esacerbata fra Paesi e territori, e questo attira molti di coloro che la globalizzazione ha lasciato indietro. Ci sono anche delle differenze sostanziali: nonostante una retorica distruttiva e un immaginario geopolitico a tratti inquietante, Mélenchon conserva malgrado tutto una certa ispirazione internazionalista e progressista.
Il rischio di queste elezioni presidenziali è che tutte le altre forze politiche — e i grandi media — si accontentino di fustigare queste due candidature e fare di ogni erba un fascio definendole «populiste ». Questo nuovo insulto supremo della politica, già utilizzato negli Stati Uniti con Sanders, con il successo che sappiamo, rischia una volta di più di occultare la questione di fondo.
Il populismo non è nient’altro che una risposta, confusa ma legittima, al sentimento di abbandono delle classi popolari dei Paesi sviluppati di fronte alla globalizzazione e all’ascesa della disuguaglianza. Bisogna fare affidamento sugli elementi populisti più internazionalisti (e dunque sulla sinistra radicale, incarnata nei diversi Paesi da Podemos, da Syriza, da Sanders o da Mélenchon, indipendentemente dai loro limiti) per costruire risposte precise a queste sfide: altrimenti il ripiegamento nazionalista e xenofobo finirà per travolgere tutto.
Sfortunatamente è la strategia della negazione quella che si apprestano a seguire i candidati della destra liberale (Fillon) e del centro (Macron), determinati tutti e due a difendere lo status quo integrale sul fiscal compact, il patto di bilancio europeo firmato nel 2012. Non che la cosa stupisca, visto che uno lo ha negoziato e l’altro lo ha applicato. Tutti i sondaggi lo confermano: questi due candidati seducono innanzitutto i vincitori della mondializzazione, con sfumature interessanti (i cattolici col primo e i borghesi radical- chic col secondo), ma in definitiva secondarie rispetto alla questione sociale. Pretendono di incarnare il perimetro della ragione: quando la Francia avrà riguadagnato la fiducia della Germania, di Bruxelles e dei mercati, liberalizzando il mercato del lavoro, riducendo la spesa pubblica e i disavanzi, eliminando la patrimoniale e aumentando l’Iva, allora sarà finalmente possibile chiedere ai nostri partner di venirci incontro sull’austerità e sul debito.
Il problema di questo discorso che appare ragionevole è che non lo è affatto. Il trattato del 2012 è un errore monumentale, che imprigiona l’Eurozona in una trappola mortifera, impedendole di investire nel futuro. L’esperienza storica mostra che è impossibile ridurre un debito pubblico di questo livello senza fare ricorso a misure eccezionali. A meno di condannarsi a registrare avanzi primari per decenni, zavorrando sul lungo periodo qualsiasi capacità di investimento.
Dal 1815 al 1914, il Regno Unito ha passato un secolo a registrare eccedenze di bilancio enormi per rimborsare i suoi rentier e ridurre il debito esorbitante prodotto dalle guerre napoleoniche. Quella scelta nefasta produsse investimenti in formazione inadeguati e un ulteriore stallo del Paese. Tra il 1945 e il 1955, al contrario, Germania e Francia sono riuscite a sbarazzarsi rapidamente di un debito di proporzioni analoghe con una combinazione di misure di cancellazione del debito, inflazione e prelievi eccezionali sul capitale privato, mettendosi nelle condizioni di investire sulla crescita. Bisognerebbe fare lo stesso oggi, imponendo alla Germania un Parlamento della zona euro per alleggerire i debiti con tutta la legittimità democratica necessaria. Se così non sarà, il ritardo negli investimenti e la stagnazione della produttività già osservati in Italia finiranno per estendersi alla Francia e a tutta l’Eurozona (ci sono già dei segnali in tal senso).
È rituffandoci nella storia che riusciremo a uscire dallo stallo attuale, come hanno appena ricordato gli autori della magnifica Histoire mondiale de la France, ottimo antidoto ai ripiegamenti identitari tricolori. In modo più prosaico, e meno divertente, bisogna accettare anche di tuffarsi nelle primarie organizzate dalla sinistra di “governo” (la chiameremo così visto che non è riuscita a organizzare primarie con la sinistra radicale, cosa questa che rischia, in primo luogo, di allontanarla stabilmente proprio dal governo).
È essenziale che queste primarie designino un candidato deciso a rimettere drasticamente in discussione le regole europee. Hamon e Montebourg sembrano più vicini a questa linea rispetto a Valls o a Peillon, ma a condizione che superino le loro posizioni sul reddito universale e il made in France e formulino finalmente delle proposte precise per sostituire il patto di bilancio del 2012 (evocato solo di sfuggita nel primo dibattito televisivo, forse perché cinque anni fa lo hanno votato tutti: ma è proprio per questo che è tanto più urgente chiarire le cose presentando un’alternativa dettagliata). Non tutto è perduto, ma bisogna agire in fretta, se si vuole evitare di mettere il Front national in una posizione di forza.
L’autore è un economista francese e autore di “ Il Capitale nel XXI secolo” ( Bompiani) Traduzione di Fabio Galimberti
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Commerci e trattative con gli Stati Così Donald scardina l’Unione

Il presidente-eletto percepisce la Ue come un potenziale rivale E su questo i suoi interessi coincidono con quelli di Putin
Paolo Mastrolilli Busiarda 17 1 2017
Donald Trump porta alla Casa Bianca una visione del mondo in cui gli interessi nazionali contano più delle regole internazionali. Un approccio che ricorda quello dei rapporti di forza tra gli stati, in vigore prima della Seconda guerra mondiale e della successiva creazione del sistema multilaterale, pensato per evitare che si ripetesse.
Questa visione corrisponde alla sua natura di uomo d’affari, che si gioca tutto sul tavolo delle contrattazioni bilaterali; alle posizioni prese durante la campagna elettorale, dove è stato sospinto dagli elettori anti globalisti; e alla sua idea di come rifare grande l’America, che si avvantaggia dalle relazioni dirette con paesi più piccoli. L’Unione europea, percepita come un potenziale rivale, è la vittima naturale di questa visione, che invece coincide alla perfezione con gli interessi di rinascita della Russia, soprattutto quando Mosca e Washington si trovano d’accordo nel giudicare la Nato obsoleta.
L’11 gennaio dell’anno scorso ero andato ad un comizio di Trump a Windham, nel New Hampshire, prima che diventasse un fenomeno. Era ancora avvicinabile, e siccome aveva criticato la politica della cancelliera tedesca Merkel sui migranti, gli avevo chiesto cosa ne pensasse: «Quello che ha fatto - aveva risposto vedendo che lo stavo registrando col cellulare - è insane, folle». Il giorno dopo il voto nel referendum sulla Brexit ero con lui in Scozia, dove aveva previsto la prossima uscita dalla Ue di altri paesi come Francia e Italia. Passeggiando sul campo da golf costruito nel paese da dove era emigrata sua madre, gli chiesi cosa pensasse delle diffidenze verso di lui dei leader europei, a cominciare da Matteo Renzi, che aveva appoggiato Hillary: «É irrilevante», aveva risposto, sempre registrato, «l’unica cosa importante è che io ho il sostegno degli americani». Il resto è storia.
Alla luce di questi due episodi, le dichiarazioni di Trump al «Times» e alla «Bild» non possono sorprendere: sono le stesse cose che aveva sempre detto in campagna elettorale, e la speranza che cambiasse entrando alla Casa Bianca era un’illusione senza fondamento. Lo era perché ha vinto le elezioni con queste idee, e non si capisce perché dovrebbe tradire i suoi elettori prima ancora di iniziare il mandato, ma anche perché dietro ci sono la sua natura e il suo progetto.
Trump è un uomo d’affari, ha scritto un libro dedicato all’arte del «deal», è convinto di poter fare meglio gli interessi economici e geopolitici degli Stati Uniti negoziando direttamente con i singoli paesi gli accordi commerciali e di sicurezza. L’Unione europea, soprattutto quella a guida tedesca, non gli piace non solo perché è il simbolo di quel globalismo burocrate contro cui ha vinto le presidenziali, ma anche perché è un potenziale rivale in termini di peso specifico. I suoi predecessori, democratici e repubblicani, vedevano nella Ue soprattutto un antidoto alla ripetizione delle tragedie della Seconda Guerra Mondiale, e tolleravano o usavano la sua crescita. Lui ci vede un carrozzone rifiutato dai suoi stessi popoli, che pretende di tenere testa a Washington. Meglio dividerla, dunque, e trattare gli interessi americani con singole nazioni meno forti.
Il problema è che su questa linea si fonda anche la convergenza tra Trump e Putin, che vede nella Ue e nella Nato, cioè nella presenza militare americana in Europa, i due principali ostacoli per ristabilire l’influenza dell’Urss. Magari non fino ai vecchi confini della «cortina di ferro», ma certamente in Ucraina, Moldova, Georgia, e forse anche nei paesi baltici o in Polonia. Questi stati sarebbero molto più malleabili senza la Nato e la Ue, e se Trump vuole indebolire la prima, perché diversi membri non pagano abbastanza, o dividere la seconda perché rappresenta un fastidioso intralcio globalista, Mosca e Washington sono pronte ad andare a braccetto verso questo nuovo ordine mondiale.
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Merkel schiva i colpi di Trump “Padroni del nostro destino” 

La cancelliera evita le polemiche dopo le critiche del tycoon a Bruxelles E lavora a un incontro in primavera. Hollande: non accettiamo lezioni 
Alessandro Alviani Busiarda 17 1 2017
Angela Merkel ha reagito ai pesanti affondi lanciati da Donald Trump in un’intervista al «Times» e alla «Bild» restando fedele al suo stile: non si è scomposta, né lasciata provocare e ha evitato di rispondere punto su punto agli attacchi, schivandoli con un collaudato gioco di silenzi. Il presidente-eletto l’ha accusata di aver commesso «un errore assolutamente catastrofico, lasciando entrare nel Paese tutti questi illegali», ha bollato l’Ue come «un mezzo per raggiungere i fini della Germania», definito la Nato «obsoleta», elogiato la Brexit. «Penso che noi europei abbiamo il nostro destino nelle nostre mani», ha ribattuto la cancelliera. «Continuerò a impegnarmi affinché i 27 Stati membri collaborino in modo intenso e soprattutto rivolto al futuro». Ora «aspetto l’insediamento del presidente americano», a quel punto «coopereremo con la nuova amministrazione e vedremo che tipo di intese possiamo raggiungere». La lotta al terrorismo è «una sfida globale», ma «separerei nettamente tale questione da quella dei rifugiati». Il segretario di Stato uscente John Kerry ha difeso come «coraggiose» le scelte di Merkel sui profughi e definito «inopportune» le parole di Trump.
Dietro le quinte la cancelliera si sta adoperando per incontrare presto il nuovo inquilino della Casa Bianca: il suo staff starebbe cercando di fissare un appuntamento in primavera, Merkel potrebbe volare negli Usa nella sua funzione di attuale presidente del G20. 
Da Bruxelles, il ministro degli Esteri tedesco Frank-Walter Steinmeier ha rivelato che alla Nato e alla Ue le dichiarazioni di Trump sono state accolte con stupore e preoccupazione; una portavoce si è limitata a notare che alla Commissione hanno letto «con interesse» l’intervista. 
«L’Europa non ha bisogno di consigli dall’esterno che le dicano cosa fare». Così il presidente francese Hollande ha risposto a Trump. «L’Europa sarà sempre pronta a proseguire la cooperazione transatlantica - ha detto Hollande - ma questa si determinerà in funzione dei suoi interessi e dei suoi valori. Non ha bisogno di consigli dall’esterno che le dicano cosa fare». A far discutere è anche la minaccia di Trump di punire i costruttori tedeschi con dazi fino al 35% se assembleranno in Messico e importeranno i loro veicoli negli Usa. Tranne Audi, tutti i big tedeschi hanno stabilimenti negli Stati Uniti. Negli ultimi sette anni le case tedesche hanno quadruplicato la loro produzione negli Usa, passando a 850.000 auto, oltre la metà delle quali esportate, per cui «gli Usa si darebbero la zappa sui piedi introducendo dazi o altre barriere al commercio», ha ammonito il presidente dell’associazione costruttori, Matthias Wissmann. Coi dazi «l’industria automobilistica Usa diventerebbe peggiore, più debole e più cara», ha avvertito il ministro dell’Economia Sigmar Gabriel. Che ha risposto a tono all’accusa di Trump, secondo cui negli Usa circolano molte auto tedesche, ma in Germania poche auto statunitensi: «Gli Usa dovrebbero costruire auto migliori».


I nuovi assetti degli scambi internazionali 

Alberto Mingardi Busiarda 17 1 2017
Quali saranno le politiche economiche di Donald Trump, nessuno ancora può dirlo. Il nuovo Presidente guarda alla Cina con diffidenza. In Europa gode di scarse simpatie, non necessariamente per il suo approccio alle politiche commerciali. Trump vuole davvero mettere in discussione la globalizzazione?
Le prime nomine parrebbero confermarlo: il segretario al commercio, Wilbur Ross, ha un approccio protezionista. Robert Lighthizer, il nuovo rappresentante del commercio (una specie di super-negoziatore alle dirette dipendenze della Casa Bianca), è fortemente anti-cinese. 
Trump non ama i trattati multilaterali: si presenta come il grande deal-maker, l’uomo che si sederà al tavolo e spunterà condizioni migliori. Il che però significa che al tavolo ha tutta l’intenzione di sedersi.
Potrebbe quindi aprirsi una nuova stagione di accordi bilaterali fra gli Stati Uniti e gli altri Paesi. 
In questo scenario, è da vedere come la nuova amministrazione si rapporterà con l’Unione Europea, alla quale gli stati membri delegano la loro politica commerciale. La partnership transatlantica, il Ttip, si è arenata. 
Non c’è stato bisogno di Trump: i protezionismi europei (a cominciare dall’exception culturelle francese) hanno reso velleitario un progetto di trattato così vasto e ambizioso.
Ma che accadrà ora se i primi a volere un’intesa bilaterale con gli Stati Uniti saranno gli inglesi, pronti a parare i possibili contraccolpi della Brexit? Gli altri stati europei resteranno alla finestra? Ci limiteremo a rimpiangere il fallimento del Ttip? Penseremo a rinsaldare altri rapporti, per esempio con la Cina?
È difficile immaginare un’Europa che guarda solo a Oriente, quale che sia il ruolo di imponenti infrastrutture come la nuova «via della seta», il treno Chengdu-Rotterdam. Il legame culturale che unisce America e Europa riverbera negli scambi e nelle abitudini, negli acquisti e nei desideri, delle persone, nelle collaborazioni che intrecciano come attori economici.
Guardando le cose in prospettiva, non è alla latente tensione fra Usa e Cina che possiamo imputare la chiusura della stagione degli accordi multilaterali.
Com’è noto, grandi accordi non se ne fanno più dagli Anni Novanta: fallirono le conferenze internazionali di Seattle e di Cancùn, fallì, nonostante i ripetuti tentativi, il cosiddetto Doha Round.
Lo scambio internazionale non passa necessariamente per accordi multilaterali. La prima grande fase di globalizzazione, nella seconda metà dell’Ottocento, era una trama di accordi bilaterali. I Paesi abbassavano vicendevolmente i vincoli doganali. Si desiderava un’economia più aperta per agevolare un migliore impiego dei fattori produttivi: un’economia più aperta consente una migliore divisione del lavoro. Più scambiamo, più ci specializziamo, più «cose» possiamo avere.
Ciò non è meno vero nel mondo di oggi. Se possibile, lo è di più perché lo scambio internazionale non riguarda solo beni che finiscono sugli scaffali dei supermercati: ma prodotti che servono a realizzarne altri. Timothy Taylor, sul suo blog «The Conversable Economist», lo ha ben riassunto in un dato. Se prendiamo le 2000 imprese americane che rientrano nell’1% dei maggiori esportatori, osserviamo che il 36% di esse fa anche parte dell’1% dei maggiori importatori. Simmetricamente, considerando le 1300 imprese che sono l’1% che importa di più, il 53% di esse è anche fra quelle che più esportano.
«Esportatori» e «importatori» non sono dunque categorie mutuamente esclusive, esattamente come non lo sono «consumatori» e «produttori». Il commercio globale non è un risiko: ma un gioco cooperativo fra imprese e persone. Di questo, chi metterà mano a un trattato bilaterale, se davvero vorrà mettere a fuoco l’interesse nazionale, dovrà tener conto. 
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