lunedì 23 gennaio 2017

Trump: proprio non vogliono farsene una ragione


















Trump sicuramente ci farà ridere di suo perché in queste cose è un campionissimo. Ma se proprio ha bisogno di una mano d'aiuto ci penseranno il Manifesto, Repubblica e in generale la sinistra dirittumanista, che stanno trasformando gli Stati Uniti nel nuovo paese dei girotondi e di una sorta "Se non ora quando" globale. Si trasferissero anche là, staremmo più larghi [SGA].



Bergoglio intervistato dal quotidiano, ha sottolineato il pericolo del populismo, nella sua accezione europea, e degli autoproclamati salvatori. Sul presidente: vedremo, valuteremo su casi concreti
Avvenire Lucia Capuzzi sabato 21 gennaio 2017


“Resistenza continua come negli Anni 70 per mandarlo a casa”

Erica Jong Busiarda
«Dobbiamo creare un movimento di resistenza permanente, come negli Anni Sessanta, per far cadere Trump».
Erica Jong quella generazione l’aveva interpretata con «Paura di Volare», ora spera che la marcia delle donne la rigeneri.
Come ha giudicato il discorso di insediamento del Presidente?
«Ho avuto l’impessione che stiamo per andare in guerra. Non la guerra al terrorismo o l’intervento in Afghanistan, ma un vero conflitto di grandi proporzioni. Un discorso così lo fa solo un Presidente che cerca il pretesto per scatenare una guerra».
Ma il terrorismo islamico non esiste?
«Sì, ma l’Isis sta perdendo, grazie alla strategia adottata dall’amministrazione Obama. Esiste ancora, ma non è più forte come prima, e Trump si prenderà il merito della vittoria».
Ha detto che vuole restituire il potere al popolo.
«Ma quando mai? Ha formato il governo con più miliardari nella storia degli Stati Uniti, e quasi senza rappresentanza per le minoranze e le donne. Come si può essere così ingenui da credere che il popolo sarà al centro della sua azione?».
Ha detto che metterà l’America al primo posto.
«Lui non lo sa, perché non legge nulla, ma cita lo slogan dell’America fascista vaneggiata da Charles Lindbergh».
Vuole rilanciare l’economia e creare più posti di lavoro.
«Questa è un’altra bugia. L’economia americana era stata distrutta dalla precedente amministrazione repubblicana, è stata salvata da Obama. Questo è stato il risultato epocale degli ultimi otto anni sul piano della politica interna. Non tutti sono soddisfatti, ma l’America ha evitato la bancarotta, la disoccupazione è scesa al 5%, la crescita è costante da anni. Trump arriva al potere e incasserà il frutto del lavoro di Obama, impadronendosi di un risultato che non ha prodotto lui. La verità è un’altra».
Cioè?
«Nel suo discorso Trump ha presentato una visione apocalittica dell’America, non vera, che forse esisteva otto anni fa a causa di Bush, solo per avere la scusa per distruggere tutto quello che ha creato Obama, dalla riforma sanitaria ai diritti di gay e donne. Sarà un disastro, che farà soffrire milioni di persone».
Per questo le donne sono scese in piazza?
«Non credo che Trump completerà il suo mandato: i rapporti con la Russia, i conflitti di interessi, qualcosa lo abbatterà. Noi dobbiamo facilitare questo processo, creando una resistenza costante e asfissiante, come quella che piegò Nixon». 
[P. MAS.] BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

La ricetta di Donald il “keynesiano” La crescita con i soldi pubblici 

Aumenta il peso dello Stato a dispetto dei principi conservatori La prima mossa è il decreto che congela l’Obamacare 

Paolo Mastrolilli Busiarda 22 1 2017
Il paradosso economico è questo: Ronald Reagan, idolo dei conservatori repubblicani, aveva accusato il governo di essere il problema, non la soluzione; Bill Clinton, idolo dei liberal, aveva dichiarato la fine dell’era del «big government», riformando il welfare insieme al Gop; Donald Trump, idolo dei populisti, sta puntando invece sulla spesa pubblica e sul protezionismo, per rilanciare l’economia Usa. «Tutto questo - commenta il professore della Johns Hopkins University, Steve Hanke, che lavorava proprio nel consiglio economico di Reagan - mi preoccupa molto, perché dalla nuova amministrazione sento un linguaggio assai simile a quello usato da Hoover prima della Grande Depressione».
Big Government
L’allarme per il ruolo dello stato nel programma economico di Trump, e quindi della spesa pubblica, è stato lanciato da Fred Barnes sul Weekly Standard: «Il nuovo presidente punta sul big government conservativism». È la linea promossa dal suo consigliere Steve Bannon, che ha avuto l’abilità di togliere ai democratici il monopolio politico del tema della disuguaglianza economica. Nel discorso inaugurale si è concretizzata in particolare con la promessa di lanciare un piano per la ricostruzione delle infrastrutture. Quasi una riedizione dei programmi keynesiani di Roosevelt, che secondo Bannon stimoleranno crescita e lavoro, guadagnando consensi anche tra chi oggi protesta: «Toglieremo le persone dall’assistenza sociale - ha detto Donald -, per ricostruire strade e ponti con mani americane». Hanke nel consiglio economico di Reagan aveva proprio il portafoglio delle infrastrutture, ed è scettico: «Trump parla come faceva Mussolini. Il suo programma si finanzia soprattutto con i crediti fiscali, che sono molto pericolosi, perché nessuno sa quanto valgono davvero. Noi puntammo sulla privatizzazione delle opere, ma la linea Trump rischia di gonfiare la spesa statale e quindi il debito. Non credo che riuscirà a realizzarla, perché il Congresso a maggioranza repubblicana cambierà i suoi piani». 
Protezionismo
Il nuovo presidente ha detto con chiarezza che l’era della globalizzazione secondo lui è finita, e su questo punto Hanke vede rischi che vanno oltre l’economia: «Reagan usava un linguaggio molto favorevole ai liberi commerci, eppure perse la sua stessa battaglia, finendo per prendere molti provvedimenti protezionistici, come quello contro l’importazione delle auto giapponesi. L’amministrazione Trump invece è apertamente favorevole al protezionismo, e quindi dobbiamo aspettarci una valanga in questo settore, a partire dalla revisione dei trattati per il libero commercio. Gli uomini chiave qui sono Peter Navarro, Wilbur Ross, e soprattutto Robert Lighthizer, il Trade representative che lavorava con me nel consiglio economico di Reagan, e spingeva sempre per le posizioni più estreme. Allora facemmo pressioni sul Giappone, che alla fine si piegò. La Cina però non farà altrettanto, quindi rischiamo una guerra commerciale che potrebbe sfociare in uno scontro geopolitico. L’Europa poi avrebbe bisogno di promuovere una politica di crescita, basata sulla riduzione dei regolamenti e delle tasse, ma invece ora è confusa e distratta dalle critiche di Trump. Il rischio quindi non è solo il danno economico del protezionismo, ma anche l’instabilità geopolitica che prospetta». 
Deregulation
Il primo provvedimento firmato da Trump limita il peso di Obamacare, in attesa di cancellare e rimpiazzare la riforma sanitaria. Questo è forse l’unico punto su cui gli economisti conservatori e repubblicani concordano. Il resto è visto come linea non ortodossa, ma secondo Bannon rilancerà economia e lavoro, garantendo il successo della presidenza.
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trump, may e il busto di churchill 
Maurizio Molinari  Busiarda 22 1 2017
Il ritorno di Winston Churchill nello Studio Ovale riassume quanto sta avvenendo a Washington. Il busto del premier britannico simbolo del legame atlantico era stato esiliato da Barack Obama nel 2009, ma è tornato al suo posto nel giorno in cui Donald Trump si è insediato alla Casa Bianca dopo aver pronunciato dai gradini di Capitol Hill il discorso con cui ha schierato l’America a fianco della Gran Bretagna di Theresa May in una nuova battaglia: sanare le ferite della globalizzazione garantendo protezione ai ceti medi indeboliti.
Linguaggio e intenzioni di May e Trump descrivono la genesi della sfida che li accomuna. Arrivando a Downing Street a metà luglio, May aveva definito «la missione della Gran Bretagna» come la «lotta contro le ingiustizie» perché «se appartenete ad una famiglia media la vostra vita è più dura, avete un lavoro ma non la sicurezza, avete la casa ma temete per il mutuo, ce la fate appena a tirare avanti». Dunque «il nostro compito - concludeva May - è garantirvi più controllo sulle vostre vite».
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rump, giovedì a Washington, ha descritto così il programma che ha in mente: «Una nazione esiste per servire i cittadini, gli americani vogliono scuole migliori per i figli, quartieri più sicuri per le famiglie e lavori buoni per se stessi». Riferendosi a cittadini vittime delle diseguaglianze, Trump li ha definiti «forgotten» - i dimenticati -, ripetendo l’espressione che adoperò Franklin Delano Roosevelt nel discorso radio dell’aprile 1932 in cui pose le premesse per il «New Deal». Sono questi «dimenticati» dalla crescita economica avvenuta grazie alla globalizzazione che sono andati alle urne facendo vincere prima la Brexit e poi Trump. Ed ora è rivolgendosi ai loro bisogni che la relazione speciale fra le due grandi democrazie anglosassoni si rimette in moto. Lo fa iniziando dallo strumento che, sin dalle origini, più la distingue: il commercio. E’ grazie a scambi di merce, viaggiatori intraprendenti e ammiragli spericolati che Londra si impose sugli oceani e la giovane repubblica americana conquistò l’indipendenza economica. Il commercio ha generato il legame transatlantico e lo ha rimodellato senza interruzione nel corso di oltre due secoli fino alla stagione della globalizzazione guidata da Washington e Londra sull’onda della vittoria nella Guerra Fredda. Ma ora i nuovi inquilini di Casa Bianca e Downing Street vogliono modificarne le caratteristiche al fine di riportare ricchezza, lavoro e sicurezza dentro le rispettive frontiere. Ovvero, è la necessità di rispondere alle diseguaglianze che genera il nazionalismo economico. L’imminente arrivo alla Casa Bianca di May può porre le basi del primo accordo bilaterale di questa nuova stagione, a cui guardano con interesse tanto Tokyo che Seul, preannunciando un possibile riassetto dei mercati destinato a investire l’Unione Europea.
Ironia della sorte vuole che a proporsi per sanare le diseguaglianze delle democrazie industriali più avanzate siano due leader eletti nei ranghi di partiti conservatori sebbene la sfida che hanno davanti si adatterebbe meglio ad un programma progressista. E’ una contraddizione che suggerisce quanto proprio le forze progressiste in Occidente siano in ritardo nella comprensione dei motivi da cui si genera lo scontento sociale che alimenta gruppi e partiti anti-sistema.
Visto da Washington, il processo in corso assume le caratteristiche di un’autentica rivoluzione che Trump ha riassunto in un discorso di circa 16 minuti e 1433 parole, ovvero il più breve degli ultimi 30 anni. Per avere un’idea di cosa sta avvenendo bisogna guardare da vicino la formazione della nuova amministrazione. A guidare il Dipartimento dell’Energia è stato scelto Rick Perry, che ne professa lo smantellamento, all’Educazione è arrivata Betsy DeVos, nemico giurato dei sindacati degli insegnanti, ed al Dipartimento di Stato c’è Rex Tillerson, che alla domanda di un senatore repubblicano sull’opportunità di dichiarare il presidente russo Vladimir Putin «criminale di guerra», ha replicato: «Ci alleeremo con lui contro i terroristi di Isis». Così come quando una senatrice democratica ha chiesto a Jim Mattis, nuovo capo del Pentagono, «cosa intende fare per facilitare l’inserimento nelle forze armate di gay, lesbiche, bisex e transgender», questo ha risposto così: «Francamente, non mi sono mai interessato a cosa fanno due adulti consenzienti quando vanno a letto assieme». Il team di Trump nasce con l’intento di sfidare il sistema di governo di Washington, modificandone contenuti e linguaggio in maniera radicale. Ecco perché l’imponente marcia di protesta di un milione di donne a Washington è destinata a rafforzare, non indebolire, la volontà di cambiamento del movimento di «The Donald». Ciò avviene perché Trump esprime non il programma o gli interessi di un partito, ma di un movimento rivoluzionario che si identifica con lui. Per Michael Barone, storico della presidenza, tale eclatante reazione anti-sistema non è senza precedenti. Il 4 marzo del 1825 Andrew Jackson vinse una campagna presidenziale «contro le élite» della Costa Atlantica, schierandosi dalla parte «dei cittadini» e dando vita al «populismo» americano. Prima di lui avevano governato Thomas Jefferson, James Madison e James Monroe, ognuno dei quali per due mandati, proprio come avvenuto dal 1992 ad oggi con Bill Clinton, George W. Bush e Barack Obama. Ovvero: 24 anni di controllo ininterrotto delle élite sul governo costituiscono la linea rossa oltre la quale gli americani si sentono «forgotten» e rispolverano lo spirito rivoluzionario.
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Obamacare la scure di Trump
Primo atto da presidente: sospendere la riforma sanitaria. Visita la Cia e fa pace con gli 007: siete gente speciale

FEDERICO RAMPINI Rep
«Nessuno ha un affetto così forte per la Cia come me. Siete gente speciale. Avete tutto il mio appoggio». Parla lo stesso Donald Trump che poche settimane fa, indignato per le loro rivelazioni sulla sua Russian Connection, diceva: «Questi sono gli stessi che ci ingannarono sulle armi di Saddam Hussein». Bugiardo seriale, Trump esordisce da presidente andando a visitare il quartier generale della Cia a Langley, in Virginia, periferia della capitale. Dà spettacolo, li copre di elogi, li rassicura che «la mia lite con voi è un’invenzione dei media disonesti». Applausi scroscianti dai funzionari della Cia, che comunque ricevono lo stipendio da questo signore e saranno diretti da quel Mike Pompeo che lui ha appena nominato. «Un gioiello, un genio», lo definisce Trump in un’orgia di superlativi, per lo più rivolti a se stesso («sono giovane come un trentenne»), occasionalmente elargiti ai suoi sottoposti.
Venerdì sera la prima picconata alla riforma sanitaria di Barack Obama. Sabato pomeriggio la visita pacificatrice al quartier generale della Cia, l’agenzia d’intelligence che lo accusa di essere stato aiutato da Vladimir Putin. Trump appena varcata la soglia della Casa Bianca parte a trecento all’ora. Vara provvedimenti su tutto. Compresi i dettagli, le ritorsioni meschine, perché lui è fatto così: indulge nel micro-management. Per esempio fa cancellare subito dal sito del governo ogni riferimento al cambiamento climatico. Vieta ai dipendenti federali dei parchi nazionali l’uso di Twitter, dopo che uno di loro aveva ri-twittato le immagini imbarazzati della spianata Lincoln Memorial nei confronti 2017-2009. L’Inauguration Day di Trump ha attirato meno della metà di quello di Obama. Il neopresidente s’impermalisce del confronto umiliante e passa metà della conferenza alla Cia a sostenere che le foto aeree erano truccate dai media.
Ma in mezzo a queste minutaglie c’è tempo per la sostanza. È la prima raffica di ordini esecutivi, editti presidenziali su materie che non hanno bisogno di un’approvazione al Congresso. La prima vittima è Obamacare, l’odiatissima riforma sanitaria che fu votata nel 2010 e subito scatenò un impegno solenne a distruggerla da parte della destra repubblicana. Una vera abrogazione di Obamacare richiederà un altro voto di Camera e Senato, andrà inoltre sostituito con un regime alternativo. Quel che Trump fa subito, è ordinare ai ministeri competenti di «sospendere, rinviare o bloccare l’applicazione di quelle misure che sono troppo costose per i pazienti, i medici, o le assicurazioni ». È un ordine tanto generico quanto confuso, al punto da risultare di difficile interpretazione. Ridurre i costi della normativa sanitaria è un obiettivo che tutti inseguono, in teoria. Ma ridurli simultaneamente per le assicurazioni e per i pazienti è impossibile: dove per l’assistito c’è un costo, lì c’è un ricavo e un profitto per l’assicurazione. O tuteli l’uno, o l’altra. L’editto presidenziale firmato in tempi record da Trump è un colpo d’immagine per dire ai suoi: io mantengo le promesse. È un’indicazione all’amministrazione, si cambia musica e nessuno deve fare dello zelo nell’applicazione di una legge che l’attuale maggioranza condanna a morte. Buio pesto, invece, su quel che seguirà. Il che riflette delle contraddizioni antiche. La destra da sempre vorrebbe distruggere ciò che considera “socialista” nella riforma Obama: i sussidi federali per consentire ai meno abbienti di comprarsi una polizza sanitaria sul mercato; l’obbligo universale di assicurarsi e le multe per chi contravviene; gli oneri per i datori di lavoro. Viceversa la stessa destra vorrebbe salvare gli aspetti più popolari nella riforma, per esempio il divieto alle assicurazioni di rifiutare la copertura di chi ha già avuto qualche malattia. Ma Obamacare fu il frutto di un compromesso, un precario equilibrio fra gli interessi delle compagnie assicurative, di Big Pharma, degli ospedali privati. Toccarne un pezzo senza che crollino tutti gli altri, è quasi impossibile.
La Cia è stata “conquistata” sabato pomeriggio. Trump con tempismo e senso dello spettacolo ha fatto dell’agenzia d’intelligence la sua prima preda importante, dopo una guerriglia durata per mesi. È dalla Cia che erano usciti i rapporti più compromettenti sul ruolo degli hacker russi al servizio di Putin, le spettacolari interferenze nella campagna elettorale. Molti dubbi inseguiranno Trump ancora a lungo, perché alcuni dei suoi collaboratori o ex collaboratori rimangono sotto indagine per i loro legami con la Russia. Trump in passato accusò più volte la Cia di diffamarlo, di fare un gioco sporco contro di lui. Ma un presidente non può permettersi avere contro di sé i servizi segreti. Basta dare la colpa ai media, e pace è fatta. ©RIPRODUZIONE RISERVATA


L’ALLEANZA DEI POPULISTI 

TIMOTHY GARTON ASH Rep 22 1 2017
QUESTA settimana ha inaugurato non solo la presidenza di Donald Trump ma una nuova era di nazionalismo. Trump va ad affiancarsi al russo Vladimir Putin, all’indiano Narendra Modi, al cinese Xi Jinping, al turco Recep Tayyip Erdogan e ad altri leader nazionalisti in tutto il globo. Anche se non sarebbe corretto definire nazionalista Theresa May, la sua scelta di una hard Brexit riflette le pressioni del nazionalismo inglese sulla destra britannica e incoraggerà gli altri nazionalismi. Le ere improntate al nazionalismo non sono una novità ma, proprio perché le abbiamo già vissute, sappiamo che spesso iniziano piene di belle speranze per finire poi in tragedia.
Per ora i nazionalisti si approvano a vicenda con gesto trumpiano, alzando il pollice, da una sponda all’altra dell’oceano. Paul Nuttall, leader del partito per l’indipendenza del Regno Unito (Ukip), si dice «entusiasta» di Trump, che a sua volta, intervistato da Michael Gove sul Times, sostiene che la Brexit «si rivelerà un’ottima cosa». In una foto Gove, sostenitore della Brexit, alza il pollice rivolto a Trump, con l’espressione di un adolescente fan di Star Trek che si è conquistato dieci secondi con Patrick Stewart. La vicepresidente del Front National francese ha reagito al discorso di May sulla Brexit invocando l’indipendenza per la Francia. E così via.
Questo mondo di nazionalismi che si rafforzano l’un l’altro è anche un mondo in cui il relativo potere dell’Occidente e la sua coesione sono indeboliti da entrambe le sponde dell’Atlantico. L’effetto deterrente esercitato dalla sicurezza che la Nato a guida statunitense garantisce all’Europa è minato dalla stessa Washington. Abbiamo assistito all’incredibile spettacolo dei leader di Russia, Turchia e Iran uniti per concludere un cinico accordo sulla Siria. Il fatto che al tavolo delle trattative non fossero presenti né Stati Uniti né Europa ha mandato in visibilio i commentatori turchi pro-Erdogan. Guardando la stretta di mano dei tre leader, mi è venuta in mente la vignetta di David Low in cui Hitler e Stalin, nel settembre 1939, si salutano cortesi con un inchino, ai lati del cadavere di un soldato. Hitler rivolto a Stalin dice: ”la feccia umana, immagino”, e il russo: “l’assassino dei lavoratori, giusto?”. Certo, menzionando Hitler si rischia sempre di esagerare. Il tessuto di interdipendenza e ordine liberale internazionale oggi è ben più fitto degli anni Trenta. Ecco perché il nazionalista leninista Xi Jinping è intervenuto a Davos come paladino dell’economia internazionale aperta e globalizzata. Sa bene che da essa dipende la performance economica del suo Paese e di conseguenza la stabilità del suo regime.
I rappresentanti di questi Paesi affrontano le relazioni internazionali in un modo che ricorda le grandi potenze sovrane ottocentesche che perseguono i propri interessi nazionali. Scrivo questo articolo dall’India e alcuni commenti del ministro degli Esteri indiano ne sono un esempio. A fronte della prospettiva di un avvicinamento tra l’America di Trump e la Russia di Putin, ha osservato che «i rapporti dell’India con la Russia sono cresciuti negli ultimi due anni, al pari del legame tra i nostri leader. Il miglioramento dei rapporti Usa-Russia quindi non osta agli interessi indiani». È un nazionalismo sobrio, ispirato alla Realpolitik.
Ma, per loro stessa natura, i nazionalismi tendono prima o poi a scontrarsi. Così la determinazione di May a far uscire la Gran Bretagna dal mercato unico europeo la pone in rotta di collisione con i nazionalisti scozzesi. Inoltre i nazionalismi esistono in un ecosistema ad alta pressione, in cui la copertura mediatica è attiva, sotto gli occhi del pubblico, una situazione che avrebbe inorridito Bismarck, Disraeli e lo zar di Russia. Persino sovrani autoritari come Putin e Xi cavalcano la tigre. Lo scontro potenziale più grave interessa Cina e Usa. Il nuovo Segretario di Stato di Trump, Rex Tillerson, ha paragonato il programma cinese di costruzione di isole artificiali nel Mar cinese meridionale all’annessione della Crimea per mano della Russia, sostenendo che la nuova amministrazione non consentirà a Pechino l’accesso alle isole. Intanto, qui in India l’ammiraglio Harry B. Harris, a capo del Comando del Pacifico avverte che «l’India dovrebbe preoccuparsi dell’influenza cinese nella regione. L’influsso cinese esclude quello indiano». Un gioco a somma zero, quindi.
In parte si tratta del solito balletto delle grandi potenze in competizione per le zone di influenza. Ma il rischio di uno scontro navale o aereo nel Mar cinese è tutt’altro che trascurabile. Allora ci sarà da chiedersi se Trump e Xi hanno l’intelligenza, l’abilità politica, la valida consulenza e, non da ultimo, lo spazio politico interno di manovra per fare un passo indietro, scongiurando la rovina. Il carattere irascibile, prepotente, narcisista di Trump potrebbe essere di peso. D’altro canto Xi, più equilibrato, ha messo in gioco tanta parte della sua legittimità di leader del partito-Stato cinese nel suo “sogno cinese” (rifare grande la Cina) che sarebbe soggetto a forti pressioni a non arretrare. Per ragioni politiche e psicologiche i cosiddetti uomini forti spesso hanno l’impressione di non potersi permettere di mostrare debolezza. Non sto pronosticando la terza guerra mondiale. Ma vedo possibile una variante odierna della crisi dei missili a Cuba. Non facciamoci quindi illusioni. Anthony Scaramucci, il mellifluo portavoce di Trump, cerca di convincerci che tutto andrà bene e che il «cambiamento dirompente» di Trump sarà «positivo per le nostre vite». Non fatevi ingannare né “scaramucciare”. Nei prossimi anni ci aspetta un cammino pericoloso e accidentato, meglio prepararsi.
Traduzione di Emilia Benghi ©RIPRODUZIONE RISERVATA


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