sabato 28 gennaio 2017

"Vediamo quanti voti prende Gotor": scacco matto dell'Imbroglione Giovane. Le sinistre in orgasmo già preparano le liste










“Alle urne l’11 giugno” Renzi blinda le liste Pd e spaventa i bersaniani 
Il leader: “Vediamo quanti voti prende Gotor” 

Carlo Bertini Busiarda 27 1 2017
Soffia forte il vento delle urne in un Pd già balcanizzato. Renzi ha fissata in mente la data dell’11 giugno e già si interroga con i suoi se convenga fare una lista-coalizione alla Camera puntando a lambire il 40%; o se sia meglio lo schema del Pd e dei partiti satelliti. Alla possibilità che questo Parlamento riesca a sfornare una legge elettorale in tempo utile il leader Pd non crede: se non ci saranno impedimenti determinati dalle motivazioni della Consulta, la via maestra sarà andare al voto a giugno con le leggi della Corte. 
L’uscita di scena soft
D’intesa con Gentiloni però, su uno schema che dunque non prevede per forza un incidente parlamentare. Il Pd non ha più alcuna convenienza a riaprire un canale di trattativa con Berlusconi perchè dopo la sentenza il coltello è passato in mano a Renzi. «Se di qui a febbraio vorranno fare questo lavoro con il Pd bene, ma non dovete dar l’idea di pensare solo alla legge elettorale», è la richiesta perentoria del leader ai suoi. Convinto per primo che non può tornare sulla scena ad occuparsi di una cosa che riguarda solo la classe politica e non il paese. 
Spauracchio preferenze
Soffia il vento delle urne dunque e già si interroga l’intendenza bersaniana su quanti posti in lista potrà avere: la risposta è nessuno, se si intendono quelli nelle liste bloccate, quella dei nominati dal capo. Che infatti già se la ride, «voglio vedere quanti voti prenderà Gotor», va ripetendo, godendosi anzitempo la caccia alle preferenze cui condannerà i dissidenti, i gufi che hanno remato contro al referendum e che hanno contribuito a farlo dimettere. Anche per questo rispunta lo spettro di una scissione: quando uno che pesa le parole come Nico Stumpo dice «vediamo se regge il Pd», si capisce che gli ex comunisti valuteranno se gli convenga di più restare o staccarsi e andare da soli. Visto che la soglia del tre per cento alla Camera è bassa e che comunque la corsa ad aggregarsi prima e dopo il voto magari li porterà a trattare con Renzi da una posizione di forza. Certo è che il segretario ora è tornato il «dominus» del partito (Dario Franceschini ha fatto sapere agli ambasciatori renziani che non ha intenzione di sollevare problemi sul voto) e dunque anche il «dominus» delle candidature: può decidere un centinaio di collocazioni sicure - in base al calcolo a spanne che il 30% dei voti alla Camera garantisce circa cento seggi - spartendo il suo potere tra le varie correnti che anelano posti al sole. 
L’arma dei tre mandati
E che vi sia tanta elettricità nell’aria, se pure siano discorsi prematuri, lo dimostra il fatto che venga brandita un’arma in più nella tasca del leader: è significativo l’elenco che i fiorentini amici di Matteo sciorinano di tutti quelli che avranno bisogno di una deroga (votata in Direzione dove Renzi ha la maggioranza) perché giunti al capolinea dei tre mandati. Una regola dello statuto che risparmia per ora solo i renziani di prima nomina. Tanto per dire, il primo della lista è proprio Paolo Gentiloni e poi ecco gli ex rutelliani, come Ermete Realacci e Luigi Zanda, ma anche il turborenziano Roberto Giachetti. Per non dire di Franceschini e di molti dei suoi parlamentari, fino ad arrivare allo stesso Bersani, seguito dai vari Migliavacca, Chiti e compagni. E se l’ex segretario i voti li ha in tasca in ogni caso, per altri ci sarà da faticare. Anche per i renziani, «perché si illudono quelli che vedono i posti sicuri destinati tutti al ceto politico... arriveranno sorprese».
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In arrivo 350 deputati nominati Nel Pd lista di “decani” in bilico 
Così i candidati bloccati mettono Montecitorio in mano ai leader di partito Tra i dem il caso di chi è in Parlamento da più di 15 anni: lo statuto li esclude

TOMMASO CIRIACO Rep
ROMA. Mezza Camera di “nominati” grazie al trampolino dei capilista bloccati, l’altra metà eletta a suon di preferenze. Ecco la fotografia dell’Aula di Montecitorio nella prossima legislatura, se davvero si tornerà al voto con il nuovo Italicum vidimato dalla Consulta. Nessuno può ovviamente prevedere il numero esatto dei candidati scelti dalle segreterie che entreranno davvero in Parlamento, ma tutte le stime in mano ai partiti si assomigliano. E fissano questa quota tra i 300 e i 350 “onorevoli”. Più o meno il 50% del totale.
Per giustificare il calcolo, occorre prima sfatare un luogo comune: il contestato meccanismo delle pluricandidature di uno stesso capolista non aumenta, ma per paradosso riduce il numero dei nominati. La ragione? Se un leader risulta eletto in dieci circoscrizioni, i “promossi” con le preferenze in Parlamento saranno nove. Con dieci capolista diversi, invece, quegli scranni finirebbero in mano a dieci “nominati”.
Le proiezioni riservate che circolano in queste ore tra le forze politiche, allora, ipotizzano che nessuna lista sia in grado di raggiungere il 40%. Senza premio di maggioranza, una forza che raccoglie il 28-30% conduce a Montecitorio - anche grazie al recupero proporzionale - 180-190 deputati. Sondaggi alla mano, è una mèta a cui possono ambire oggi solo il Pd e il Movimento 5 stelle, con la ragionevole certezza di eleggere tutti i capilista bloccati. Ecco allora il primo blocco di “nominati”: qualcosa in meno di un centinaio per parte (vista la possibilità di alcune candidature multiple), quasi ducento in totale.
Un ragionamento simile vale per Forza Italia. Accreditata attorno al 12%, può ambire a un’ottantina di deputati, per lo più selezionati tra i “bloccati”. La Lega, sondata alle stesse percentuali, farà invece scattare alcuni seggi con le preferenze in più, perché il radicamento concetrato al Nord proietterà in Parlamento qualche “secondo” e “terzo” eletto per collegio. In tutto, il centrodestra traghetterà un altro centinaio di capilista. E poi ci sono le forze minori. È presumibile che i partiti più piccoli ricorrano in modo massiccio alle pluricandidature ciò che come detto limita al massimo i “nominati” - spinti da due ragioni: garantire l’elezione del leader, fare da volano al simbolo e incentivare la battaglia interna alle liste per raccogliere preferenze. Con il solo capolista presumibilmente eletto, infatti, chi spenderebbe tempo e denaro per partecipare a una contesa in puro spirito decoubertiniano?
Tutto sommato, si gira attorno al numero ipotizzato di 300-350 eletti “bloccati” su 630, tra il 45 e il 55% del totale. Il resto sarà una gara senza quartiere a colpi di preferenze, a partire dal Pd. Digerita la sentenza della Consulta, Matteo Renzi inizia a mettere la testa su un’altra grana, quella dei parlamentari di lungo corso che da statuto non potrebbero essere ricandidati. L’articolo 21 fissa infatti il limite a tre mandati. In occasione delle ultime politiche si stabilì l’interpretazione autentica: non tre legislature, ma 15 anni di legislatura. La pratica è già sul tavolo della segreteria, divisa in due elenchi. Il primo, quello più “caldo”, include i 27 nomi di chi ha già alle spalle almeno tre lustri in Parlamento. Tra questi, c’è l’intera ossatura dell’attuale governo: il premier Paolo Gentiloni (16 anni), il ministro della Difesa Roberta Pinotti (16), dell’Interno Marco Minniti (16), dei Beni Culturali Dario Franceschini (16) e dei Rapporti con il Parlamento Anna Finocchiaro (30). E ancora, capicorrente come Rosy Bindi (23) e Beppe Fioroni (21), renziani e gentiloniani come Roberto Giachetti (16) ed Ermete Realacci (16), altri recordman di “anzianità parlamentare” come Gianclaudio Bressa (21), Giuseppe Lumia (23), Barbara Pollastrini (18), Ugo Sposetti (18), Vannino Chiti (16). Valesse invece il limite ancora più restrittivo dei tre mandati, si aggiungerebbero - come è facilmente verificabile anche su Openpolis - altri 56 nomi e si toccherebbe l’iperbolica cifra di 83, tra cui anche il guardasigilli Andrea Orlando, Nicola Latorre, Pierluigi Bersani, Emanuele Fiano e Cesare Damiano.
Li salverà solo una deroga. Dal quartier generale renziano si ragiona di una manciata di “eccezioni”, magari soltanto per i ministri e pochissimi altri, da candidare come capilista bloccati alla Camera (al Senato non sono neanche previsti). Uno schema forse non esaltante. Un’altra soluzione potrebbero essere, allora, il ricorso alle primarie. Oppure l’invito ad armarsi di coraggio per sottoporsi alla sfida delle preferenze. Un segnale, in questo senso, è arrivato da Renzi: «Io correrò a Palazzo Madama - ha promesso - voglio essere votato dalla gente». A buon intenditor...
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