lunedì 16 gennaio 2017

Xi Jinping porta il Nuovo Mondo a Davos. I vecchi colpevoli del disastro adesso criticano la "globalizzazione"



Corriere della Sera


Corriere della Sera


Xi Jinping diventa l’alfiere della globalizzazione 
Il leader cinese a Davos si propone come alternativa agli Usa per l’Ue “Protezionismo e populismo inadeguati per un’economica mondiale” 
Alessandro Barbera Busiarda 17 1 2017
Sui tetti del centro congressi di Davos i cecchini in tuta termica total-white attendono dall’alto i potenti del mondo. Nonostante i meno dieci al sole l’apparato di sicurezza è più vigile che mai. Nell’angolo più cementificato delle Alpi svizzere arriva il nuovo alfiere della globalizzazione, il presidente cinese Xi Jinping. Il messaggio del leader all’Europa è chiaro: se volete il mercato, il mercato siamo noi. L’avreste mai detto? La Cina dei diritti negati, delle censure a internet e delle restrizioni ai movimenti di capitale si propone al mondo come argine all’isolazionismo americano. Xi si fa accompagnare da tutti i più noti imprenditori di casa: ci sono Jack Ma di Alibaba, Wang Jianlin di Wanda, la presidente di Huawei Sun Yafang, il numero uno di Google made in China Zhang Yaqin e quello di China General Nuclear He Yu, il colosso che costruirà assieme ai francesi di Edf una centrale nucleare in Gran Bretagna.
Xi sa che l’Europa non può fare a meno della Cina e la Cina non può fare a meno dell’Europa. Nel discorso di fronte agli imprenditori svizzeri non si è presentato il leader di una nazione che si autoproclama ancora comunista, ma una specie di ideologo liberista: «Il protezionismo, il populismo e la de-globalizzazione sono in crescita, e questo non va bene per una più stretta cooperazione economica a livello globale». L’Unione a trazione tedesca dipende dalle esportazioni molto più di quanto non accada all’ex impero celeste, che dopo molti anni di transizione ora ha una classe media in grado di alimentare la domanda interna. La visita è carica di significati simbolici, perché la Svizzera è una delle prime democrazie ad aver riconosciuto la Cina comunista, e perché proprio in questi giorni cade il primo anniversario della nascita della Asian Investment Bank, l’istituzione multilaterale che promette di fare della Cina il nuovo motore dell’economia mondiale grazie anche al contributo di Italia e Germania. 
La diplomazia cinese ha preparato la tre giorni in ogni dettaglio fin dall’anno scorso, ben prima del voto sulla Brexit e della vittoria di The Donald. Pechino sperava nella vittoria di Hillary, ma nessuno meglio dei cinesi conosce la virtù della necessità. La vittoria delle ragioni populiste nelle democrazie più stabili del mondo è una ragione in più per cercare nel vecchio Continente un sempre più solido alleato commerciale. «Pechino e Bruxelles hanno in comune molto più di quanto non possa accadere con la nuova amministrazione americana», scrive in un editoriale del quotidiano di Stato in inglese China Daily firmato dal direttore del centro euro-asiatico Fraser Cameron. I numeri parlano chiaro: se l’insieme di import ed export vale circa un terzo del Pil americano, le due voci in Europa valgono fra il settanta e l’ottanta per cento.
Bruxelles non vuole però che la somma di dare e avere svantaggi l’economia europea. Con molta fatica e un duro scontro l’Unione ha concesso alla Cina lo status di economia di mercato, ma ora Bruxelles chiede garanzie. L’industria dell’acciaio cinese è in cronica sovraccapacità: fatta dieci quella europea la loro vale due volte e mezza. Stessa cosa accade in altri settori, dalla carta alla ceramica, dal vetro al cemento fino alla chimica dove il rapporto è uno a otto. Per questo – spiegano fonti europee – a primavera la Commissione preparerà un rapporto per fotografare lo stato delle relazioni commerciali. Dal rapporto emergerà un’Unione troppo export-dipendente, il modello imposto dalla Germania negli anni d’oro dell’espansionismo in Cina e delle fabbriche tedesche che compensavano in Cina l’assenza di manifattura cinese. Ora che la Cina cammina sulle sue gambe, ora che il livello di scambi mondiali si è drasticamente ridotto, l’economia del Continente ha bisogno di un maggior contributo della domanda interna. Non è casuale l’enfasi con cui la Commissione preme Berlino perché riveda almeno in parte il suo modello di crescita. 
Trump può permettersi di stare a guardare? In parte sì, in parte no. Nelle banche cinesi c’è un pezzo di debito americano, e per la Casa Bianca è impensabile una crisi diplomatica con Pechino. Ma Donald ha vinto le elezioni al grido «America First», e almeno in una prima fase deve mostrare i muscoli. A Davos per lui ci sarà uno dei suoi consiglieri più fidati, il finanziere di Wall Street Anthony Scaramucci. Sarà lui a verificare che i messaggi d’intesa fra Pechino e Bruxelles non si trasformino in un problema per Washington.
Twitter @alexbarbera
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La rabbia è già esplosa urgenti nuove regole su tasse, bonus e lobby 
Il premio Nobel: “Se la maggioranza dei cittadini si sente esclusa dai vantaggi della crescita si ribellerà al sistema, Brexit e Trump lo dimostrano”
JOSEPH STIGLITZ Rep 16 1 2017
NEGLI ULTIMI ANNI, incontrandosi a Davos, i leader del mondo economico e imprenditoriale hanno classificato la disuguaglianza tra i maggiori rischi per l’economia globale, riconoscendo che si tratta di questione economica oltre che morale. Non vi è dubbio, infatti, che se i cittadini non hanno reddito e perdono progressivamente potere d’acquisto, le corporation non avranno modo di crescere e prosperare. Il FMI è della stessa idea e avverte che a funzionare meglio sono i paesi dove c’è meno disuguaglianza.
Se la maggioranza dei cittadini sente di non beneficiare a sufficienza dei proventi della crescita o di essere penalizzata dalla globalizzazione finirà col ribellarsi al sistema economico nel quale vive. In realtà dopo Brexit e i risultati delle elezioni americane, ci si deve chiedere seriamente se questa ribellione non sia già cominciata. Sarebbe d’altronde del tutto comprensibile. In America il reddito medio del 90% dei meno abbienti ristagna da 25 anni e l’aspettativa di vita ha mediamente cominciato ad abbassarsi.
Da anni, Oxfam fotografa i livelli sempre più accentuati della disuguaglianza globale e ci ricorda come nel 2014 fossero 85 i super ricchi – molti dei quali presenti a Davos - a detenere la stessa ricchezza di metà della popolazione più povera (3,6 miliardi di persone). Oggi, a detenere quella ricchezza sono solo in 8.
È chiaro dunque che a Davos il tema della concentrazione della ricchezza nelle mani di pochissimi abbia continuato a tenere banco. Solo per alcuni continua a essere una questione morale, ma per tutti è una questione economica e politica che mette in gioco il futuro dell’economia di mercato per come la conosciamo. C’è una domanda che assilla, sessione dopo sessione, gli Ad presenti al Forum: «C’è qualcosa che le corporation possono fare rispetto alla piaga della disuguaglianza che mette in pericolo la sostenibilità economica, politica e sociale del nostro democratico sistema di mercato?» La risposta è sì.
La prima idea, semplice ed efficace, è che le corporation paghino la loro giusta quota di tasse, un tassello imprescindibile della responsabilità d’impresa, smettendo di fare ricorso a giurisdizioni a fiscalità agevolata. Apple potrebbe sentire di essere stata ingiustamente presa di mira tra tante, ma in fondo ha solo eluso un po’ più di altri.
Rinunciare a giurisdizioni segrete e paradisi fiscali societari, siano essi in casa o offshore, a Panama o alle Cayman nell’emisfero occidentale, oppure in Irlanda e in Lussemburgo in Europa. Non incoraggiare i paesi in cui si opera a partecipare da protagonisti alla dannosa corsa al ribasso sulla tassazione degli utili d’impresa, in cui gli unici a perdere davvero sono i poveri in tutto il mondo.
È vergognoso che il Presidente di un paese si vanti di non aver pagato le tasse per quasi vent’anni – suggerendo che siano più furbi quelli che non pagano –, o che un’azienda paghi lo 0,005% di tasse sui propri utili, come ha fatto la Apple. Non è da furbi, è immorale.
L’Africa da sola perde 14 miliardi di dollari in entrate a causa dei paradisi fiscali usati dai suoi super-ricchi: a questo proposito Oxfam ha calcolato che la cifra sarebbe sufficiente a pagare la spesa sanitaria per salvare la vita di 4 milioni di bambini e impiegare un numero di insegnanti sufficiente per mandare a scuola tutti i ragazzi di quel continente.
C’è poi una seconda idea altrettanto facile: trattare i propri dipendenti in modo dignitoso. Un dipendente che lavora a tempo pieno non dovrebbe essere povero. Ma è quel che accade: nel Regno Unito, per esempio, vive in povertà il 31% delle famiglie in cui c’è un adulto che lavora. I top manager delle grandi corporation americane portano a casa circa 300 volte lo stipendio di un dipendente medio. È molto di più che in altri paesi o in qualunque altro periodo della storia, e questa forbice ampissima non può essere spiegata semplicemente con i differenziali di produttività. In molti casi gli Ad intascano ingenti somme solo perché niente impedisce loro di farlo, anche se questo significa danneggiare gli altri dipendenti e alla lunga compromettere il futuro stesso dell’azienda. Henry Ford aveva capito l’importanza di un buono stipendio, ma i dirigenti di oggi ne hanno perso la cognizione.
Infine c’è una terza idea, sempre facile ma più radicale: investire nel futuro dell’azienda, nei suoi dipendenti, in tecnologia e nel capitale. Senza questo non ci sarà lavoro e la disuguaglianza non potrà che crescere. Attualmente invece una porzione sempre più consistente di utili finisce ai ricchi azionisti. Un esempio su tutti viene dalla Gran Bretagna, dove nel 1970 agli azionisti andava il 10% degli utili d’impresa, oggi il 70%. Storicamente le banche (e il settore finanziario) hanno svolto l’importante funzione di raccogliere risparmio dalle famiglie da investire nel settore delle imprese per costruire fabbriche e creare posti di lavoro. Oggi negli Stati Uniti il flusso netto di denaro compie esattamente il percorso opposto. L’anno scorso, Philip Green, magnate britannico della vendita al dettaglio, è stato accusato da una commissione parlamentare di non aver investito abbastanza nella sua azienda e di aver inseguito il proprio tornaconto personale, arrivando alla bancarotta e a un deficit previdenziale di 200 milioni di sterline. Per quanto incensato e blandito dai governi succedutisi, promosso a cavaliere del regno e considerato faro dell’economia britannica, quella commissione parlamentare non avrebbe potuto scegliere parole più esatte, definendolo come «la faccia inaccettabile del capitalismo».
Le multinazionali sanno che il loro successo non dipende solo dalle leggi dell’economia, ma dalle scelte di politica economica che ciascun paese compie. È per questo che spendono così tanto denaro per fare lobby. Negli Stati Uniti, il settore bancario ha esercitato il suo potere d’influenza per ottenere la deregulation, raggiungendo il proprio obiettivo. Ne sanno qualcosa i contribuenti costretti a pagare un conto salato per quanto accaduto in seguito. Negli ultimi 25 anni, in molti paesi, le regole dell’economia liberista sono state riscritte col risultato di rafforzare il potere del mercato e far esplodere la crisi della disuguaglianza. Molte corporation sono poi state particolarmente abili – più che in qualsiasi altro campo – nel godere di una rendita di posizione – vale a dire nel riuscire ad assicurarsi una porzione più grande di ricchezza nazionale, esercitando un potere monopolistico o ottenendo favori dai governi. Ma quando i profitti hanno questa origine, la ricchezza stessa di una nazione è destinata a diminuire. Il mondo è pieno di aziende guidate da uomini illuminati che hanno capito quanto l’unica prosperità sostenibile sia la prosperità condivisa, e che pertanto non fanno uso della propria influenza per orientare la politica, al fine di mantenere una posizione di rendita finanziaria. Hanno capito che nei paesi dove la disuguaglianza cresce a dismisura, le regole dovranno essere riscritte per favorire investimenti a lungo termine, una crescita più veloce e una prosperità condivisa. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

La prima volta della Cina a Davos Xi spinge sulla globalizzazione 
Busiarda 16 1 2017
La lista di presenti e assenti al World Economic Forum di Davos quest’anno spiega meglio di molte analisi cosa accade agli equilibri mondiali. Fra le Alpi svizzere non ci sarà nessun membro «ufficiale» della nuova amministrazione americana: Donald Trump non vuole deludere le aspettative dell’americano medio. Cosa penserebbe se nella settimana del solenne giuramento alla Casa Bianca (venerdì) spedisse fra i potenti della Terra uno dei suoi? Alcuni di loro sono di casa a Davos, come Gary Cohn, già presidente di Goldman Sachs e ora capo del National economic council. In compenso a Davos ci sarà - ed è la prima volta nella storia - il presidente cinese Xi Jinping. Il messaggio di Xi sarà specularmente opposto a quello di Trump: se quest’ultimo non fa che parlare di «America first», il leader cinese vuole la «globalizzazione inclusiva». Pechino è preoccupata per i venti populisti che spirano ad Occidente e Trump è in cima ai pensieri: promette la fine della Trans Pacific Partnership firmata da Obama e pesanti dazi. «Il protezionismo commerciale porterà all’auto-isolazionismo, e questo non è interesse di alcuno», spiegava pochi giorni fa il viceministro degli Esteri, Li Badong, nel briefing con la stampa. La Cina di Xi oggi è il contrario dell’America di Trump: fa pesare la sua presenza al Fondo monetario, lancia iniziative bilaterali, sogna una nuova via della seta e fonda una banca pubblica per gli investimenti (la Asian Investment Bank) in cui ha coinvolto Italia e Germania. Insomma nell’era delle ideologie rovesciate, da un lato sembra esserci un ricco presidente americano paladino dell’isolazionismo, dall’altra un leader comunista cinese difensore del commercio globale.
Eppure la storia insegna che non bisogna fermarsi a osservare i messaggi in superficie. Del resto le prime mosse di Trump dimostrano chiaramente che l’uomo è più pragmatico delle apparenze. Così, se dalla lista dei membri ufficiali della squadra di governo si passa a quella degli «unofficial», si scopre che Trump a Davos ci sarà eccome. Nella lista degli invitati spiccano due nomi, entrambi influenti membri del «transition team» del neopresidente: una è Rebekah Mercer, consigliere politico del presidente, figlia del finanziere Robert e, secondo Politico, oggi la donna più influente dei Repubblicani. L’altro nome di spicco è l’italoamericano Anthony Scaramucci, partner del fondo di investimento SkyBridge Capital e vecchia conoscenza del Forum svizzero. La storia di Scaramucci meriterebbe un libro. Ex Goldman Sachs, ex sostenitore di Obama e poi di Mitt Romney, filantropo e autore di un libro su «come fare fortuna senza perdere l’anima», in un incontro pubblico con l’ex presidente democratico lo accusò di «colpire Wall Street come una pignatta». Oggi è un convinto trumpiano e ufficiale di collegamento fra la Casa Bianca e la finanza americana. Quest’estate al «Salt», l’evento organizzato da Scaramucci a Las Vegas, c’erano il gotha di Wall Street e Steven Mnuchin, ex collega a Goldman Sachs e nel frattempo nominato segretario al Tesoro. Scaramucci è considerato dai cinesi un interlocutore al pari di un ministro. Diceva Li Badong a proposito di un possibile incontro: «Ci sono canali di comunicazione aperti, se l’ipotesi si realizzerà e il programma lo permetterà potremmo incontrarlo». L’importante è che non si noti. 
[ale. bar.]

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