mercoledì 22 febbraio 2017

Carnevali e orsi d'Europa


Il Carnevale nella pelle d’orso 
Mondi alla rovescia. La maschera bestiale e la sua fortuna nei secoli, in Europa. Dalle danze umoristiche alle allusioni erotiche, fino alla «caccia» contro l’invasore che ruba il lavoro

Claudio Corvino Manifesto 21.2.2017, 16:57 
Il freddo invernale ben si addice ai fantasmi e agli spettri mascherati che appaiono in queste settimane come un’orda tra i monti e le campagne d’Europa. Schiere selvatiche che come colorati eserciti mortuorum medievali si riversano in quello che noi siamo abituati a chiamare Carnevale, sorta di contenitore temporale in cui un cristianesimo poco più che millenario ha voluto relegare tutto ciò che sapeva di antico e di «pagano». 
Maschere cornute, linguacciute, impagliate o pelose le cui forme trasmodano incessantemente dal mondo umano a quello animale o vegetale, quasi dimenticando la loro forma originaria che è alla base e dietro quei travestimenti. Anzi è proprio in questo travalicare, in questo superare i limiti dell’umana forma nell’assoluta certezza che l’indomani, sobri e con il mal di testa, tutto tornerà come prima, che si trova il senso di questo eccedere: è il diventare «altro», è l’ubriacarsi che dà consapevolezza di chi sia il «noi» e cosa significhi l’essere sobri. 
IN QUESTA RUMOROSA sarabanda, ecco apparire travestiti da orsi Dioniso o Artemide, divinità che i folkloristi del secolo scorso rinvenivano dietro ogni effervescenza carnevalesca. Questi scalmanati cortei di uomini-orso bevono quanto e più dei loro confratelli dei culti dionisiaci quando, durante i riti, «non c’era più niente di fermo, tutto si agitava in frenesia», scriveva Euripide ne Le Baccanti.
Tutto ancora si agita, tutto gira, anche la testa, in un’inquietudine che ci ostiniamo ad attribuire sempre e soltanto al rito, mai all’alcol, come se l’antropologia degli stati alterati di coscienza fosse una parola sporca e gli stati alterati roba da «tossici». 
Quella dell’orso e del suo corteo di cacciatori-domatori è forse la più suggestiva e diffusa maschera in Europa, se le equipariamo anche le altre maschere del «Selvatico». Travestimenti che raccontano storie e, tra queste, quella semplice e ricorrente dell’orso che esce dal bosco per raggiungere il paese, seminare panico e attentare alla virtù delle ragazze. Altre volte invece, con gentilezza inaspettata, si limita a farle danzare. Un gruppo di giovani, un tempo coscritti della stessa età, ora con anche le donne al suo interno, cattura l’animale e lo rende domestico spogliandolo, facendogli la barba o al limite uccidendolo, per poi farlo rivivere.
Storie simili che troviamo da Saponara (Messina), dove un orso buffo e gentile costringe le donne a fare qualche giro di danza con lui, al più temibile e forzuto Oso di Prats de Mollo La Preste sui Pirenei, che provoca e viene provocato dalla folla che lo impegna in un combattimento. Fonni 
Poco distante, ad Arles sur Tech, l’orso si lancia sul travestito Roseta e lo costringe a simulare un amplesso nella pubblica piazza, prima di essere catturato dal Trappeur che può finalmente danzare in pace con la sua Roseta, mentre l’Oso resta a guardare seduto e depresso su di una sedia dove verrà rasato e portato a uno stato di estetica civiltà. A Urbiano di Mompantero (Torino) l’Urs dal terribile ruglio viene tenuto a catena dai suoi domatori/cacciatori, mentre a Fonni (Nuoro) s’Urthu, tenuto da sos Buttudos, si lancia continuamente verso le ragazze, sporcandole allusivamente con nerofumo di sughero bruciato, al modo di tutti gli altri suoi pelosi colleghi europei. 
MASCHERATE URSINE attraversano l’Italia dalla Val d’Aosta all’Orso Nicola di Satriano di Lucania (Potenza), e ancora dalla riproposizione dell’Orso di Segale di Valdieri (Cuneo) fino alla recentemente inventata Ballata dell’Uomo Orso di Jelsi (Campobasso) o alla Cattura dell’Orso di Chiusano San Domenico (Avellino). Come anche maschere ferine sono presenti in Romania, dove colonne di «orsi» girano in questue invernali, nei Paesi Baschi, a Ituren e Zubieta, dove uno degli elementi centrali del Carnevale, la carne animale, viene realmente esposta e portata in processione, e ancora i rumorosi scampanatori di Halubje in Croazia o l’Orso e il suo Domatore di Kosturino in Macedonia. 
Vesti pelose che verso la fine dell’inverno abbandonano le cantine, le stanze comunali o private dove erano conservate, per essere indossate da uomini pieni di forza ed energia (del vino si è già detto) che per ore ed ore andranno in giro a portare fortuna, fertilità e a unire la gente intorno a una storia di morte e rinascita immediatamente riconoscibile. Una «trama» transnazionale che lascia pensare che un tempo la cultura eurasiatica fosse molto più condivisa di quanto noi oggi pensiamo. 
QUESTA STORIA è iscritta più nella ciclica ripetizione della Natura che nei documenti. Non c’è bisogno di invocare alcuna continuità storica giustificativa: la presenza ininterrotta di questo simbolo, dalle raffigurazioni delle grotte paleolitiche franco-cantabriche ad oggi, riguarda l’uomo e il suo rapporto con le stagioni, con il letargo, con il caldo, con il freddo o con i suoi bisogni primari, più che con i documenti storici.
Certo, alcune maschere dell’orso possono anche essere state tramandate, riscoperte, dimenticate e riprese, mentre altre inventate di sana pianta da registi televisivi o pro loco, ma ciò non toglie che gli europei abbiano bisogno di raccontare se stessi in modi e forme capaci di plasmarsi nei vari contesti e nelle varie epoche mantenendo le stesse forme. 
Come la storia dell’orso che scende in paese a portare subbuglio e toccare, sporcare o rapire le donne. Una piccola tradizione antica che rivive nei parcellizzati paesi europei alla ricerca di una identità, una coesione e una coerenza che sono continuamente erose da forze e poteri esterni alla comunità. Una storia di antica pedagogia popolare che certamente racconta di violenze contro le donne, ma pure della violenza di un mercato matrimoniale endogamico in cui ci si sposava tra «paesani» e chi veniva da fuori era trattato come un orso e cacciato; al limite accettato, ma a patto che perdesse la sua natura ferina e si facesse «civilizzare» dal barbiere di turno. 
LA MASCHERA DELL’ORSO venuto da fuori può anche raccontare della brutalità dell’uomo sull’uomo, della competizione tra lavoratori, come gli stagionali italiani che lavoravano nelle saline di Aigues-Mortes in Francia, nel 1893: massacrati e uccisi di botte perché toglievano lavoro ai francesi. Non erano mascherati da orsi eppure, secondo le interrogazioni e le indagini del Parlamento italiano, la rivolta iniziò al grido di «En avant! À la chasse a l’ours!».
Forse perché rendere un pogrom una caccia a un animale lo rendeva meno raccapricciante, certo, ma forse anche perché tra i salariati francesi e piemontesi (Ugo Foscolo usava il termine Savoiardo come sinonimo di domatore d’orso) «caccia all’orso» suonava come una terribile parole d’ordine dell’inizio di una carnevalesca caccia a degli «animali» che certamente «rubavano» il lavoro ma, forse, «toccavano» e «sporcavano» le donne: in un mondo di «donne e buoi dei paesi tuoi», gli italiani furono doppiamente «orsi» ai francesi e meritarono una lezione.

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