martedì 7 febbraio 2017

"Compagno Trump", "Compagna Marine". L'Unione Europea è finita ma ne usciremo all'estrema destra

Non ci vuole molto a capire che Trump si sta semplicemente sbarazzando di ogni artificio morale e che critica la Nato perche vuole mano ancor più libera e pretende che gli alleati ci mettano più soldi. Così come non ci vuole molto per capire che Marine Le Pen attacca la UE per ragioni molto diverse da quelle che sono sempre state e dovrebbero ancora essere le preoccupazioni della sinistra.
La destra caritatevole e "sociale" legata alla piccola borghesia è sempre esistita dal XIX secolo e quando c'è crisi rialza la testa. La realtà, poi, non è mai binaria ma sempre dialettica.
Il problema non è, come si sente dire, che una cosa rimane valida anche se a dirla è uno di destra: il problema è che si possono volere cose apparentemente simili per ragioni molto diverse e che le ragioni per cui si vuole una cosa non sono secondarie.
Non è che per andare contro il PD e la "sinistra" neoliberale o postmoderna uno è costretto a diventare di destra: è sufficiente rimanere coerentemente di sinistra.
E invece è tutto un fiorire di sbarellamenti e di "Compagno Trump" e "Compagna Marine".
In queste condizioni ogni ipotesi di "Fronte Ampio", praticabile in teoria durante le fasi di ascesa e quando il movimento cresce, significa consegnarsi mani e piedi a queste destre, che sono largamente egemoni. E va respinta perché è un suicidio deliberato.
La fine indecente della nostra tradizione culturale è certa. Che si possano fare le pulizie non è consolazione sufficiente [SGA].

 Draghi: no al protezionismo Usa Poi difende l’euro, ma lo spread vola 

Il differenziale fra Btp e Bund tedesco supera i 200 punti. Male anche i francesi Il presidente della Bce: molto preoccupanti i segnali che arrivano dall’America 

Marco Bresolin Busiarda 7 2 2017
Esprime timori per le minacce di protezionismo e deregulation che si alzano dalla Casa Bianca. Blinda l’euro (“è irrevocabile”), vero collante “in tempi di chiusure nazionali”. Fa quadrato attorno alla Germania per respingere le accuse di Trump, ma al tempo stesso difende le politiche dalla Bce dalle critiche di Berlino. In una giornata nera per i mercati europei, che forse hanno risentito degli annunci di Marine Le Pen («Se divento Presidente, la Francia uscirà dalla Ue»), Mario Draghi ha tenuto un discorso carico di significato politico al Parlamento europeo di Bruxelles. Ma l’effetto sui listini non si è visto. Tutte le principali Borse europee hanno chiuso in negativo, lo spread tra i Btp a dieci anni e i Bund tedeschi è schizzato oltre quota 200 punti, ai livelli più alti dal febbraio 2014. Anche quello francese è salito a 77 punti (+21,5%).
Davanti agli eurodeputati della commissione Affari Economici e Monetari, il numero uno della Bce ha definito “molto preoccupanti” i segnali che arrivano dalla nuova amministrazione Usa sulla deregulation finanziaria: “L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è l’allentamento delle regole”. Altro campanello d’allarme - visto che “l’Ue è fondata sul libero scambio” - sono poi gli “annunci di potenziali misure protezionistiche”: Trump ha stracciato l’accordo commerciale trans-Pacifico (Tpp) e lasciato intendere un futuro simile per i negoziati del Ttip con l’Ue.
Ma se le trattative per gli accordi commerciali possono trasformarsi in carta straccia, lo stesso non si potrebbe dire dell’Euro. Per Draghi “è irrevocabile”. Lo ha ribadito in italiano e in inglese, rispondendo a una domanda dell’eurodeputato Marco Valli. Il parlamentare M5S ha evocato la prospettiva di un sistema Sme2, con monete nazionali uscite dall’euro, ma il presidente della Bce è stato netto: “Il mercato unico non sopravvivrà davanti a svalutazioni competitive”. La moneta unica resta quindi il pilastro, a maggior ragione in un’epoca in cui avanzano partiti anti-sistema che prospettano l’uscita dei loro Paesi dall’eurozona e la sua conseguente disgregazione: “L’euro ci tiene uniti in tempi di chiusure nazionali - ha aggiunto -. Possiamo e dobbiamo affrontare le fragilità a livello nazionale ed europeo”.
I governi, però, stanno iniziando a declinare questa necessaria unità in modo diverso. Si ritorna a parlare con insistenza di un’Europa a più velocità: nei fatti esiste già, ma Angela Merkel l’ha rilanciata venerdì scorso a Malta. Draghi non si esprime perché “credo ci sia una visione appena abbozzata” e “il concetto non è ancora sviluppato”. Pieno sostegno alla Merkel, invece, bersaglio delle accuse di Trump: “Noi non manipoliamo l’euro” ha scandito, citando un recente rapporto del Tesoro che di fatto dice la stessa cosa. Altra sponda a Berlino anche sulla questione del surplus commerciale: “Non è vero che la Germania lo usa per speculare”.
Però c’è anche una Berlino che critica. La politica monetaria della Bce è spesso nel mirino del ministro delle Finanze Wolfgang Schaeuble. Draghi gli ha risposto parlando di critiche “pre-elettorali” e aggiungendo che “i banchieri centrali sentono i politici, ma non li ascoltano”. Quindi ha rivendicato il piano di Quantitative Easing, che proseguirà fino a dicembre al ritmo di acquisti pari a 60 miliardi al mese. Respinta al mittente l’accusa di aver favorito l’Italia: “Non ci sono diseguaglianze”. Infine un passaggio che è sembrato una retromarcia della Bce sulla bad bank europea per i crediti deteriorati. Secondo Draghi, «non sarebbe una panacea». Meglio gestire le situazioni «a livello nazionale». BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI
“Ci vuole un’Europa a due velocità È l’unico modo per salvare l’Unione” 

L’economista Sinai: l’Italia ha bisogno di una moneta meno cara 

Paolo Mastrolilli Busiarda 7 2 2017
Allen Sinai, presidente di Decision Economics, condivide l’analisi del capo della Bce: «Draghi ha ragione: sul piano economico l’eurozona va nella direzione giusta. Su quello politico, però, il vento tira a favore del populismo, e quindi l’Europa a due velocità è l’unica opzione per tenerla unita».
Draghi teme il protezionismo dell’ amministrazione Trump.
«L’Eurozona va bene, i numeri dell’economia sono buoni, l’inflazione sale, la spinta è positiva, e la Brexit sta facendo molti danni. Sarebbe un peccato se qualunque tipo di protezionismo interferisse con quella che appare come una vera ripresa».
Il consigliere economico del presidente Trump, Peter Navarro, ha accusato la Germania di manipolare i cambi.
«Non c’è alcuna prova. Il declino dell’euro è dipeso dalla debolezza dell’economia continentale e dalla linea della Bce per i tassi negativi, che serviva ad alzare l’inflazione. Il quantitave easing sta funzionando, ma è la Bce che fa la politica monetaria, non la Bundesbank, che anzi vorrebbe un euro più forte».
Quindi dobbiamo aspettarci un rialzo dell’euro?
«No, credo che scenderà ancora un po’, perché l’economia Usa è forte, i tassi salgono, e gli stimoli fiscali di Trump favoriranno la crescita. Ma il dollaro salirà per la forza dell’America, non per le manipolazioni della Bce o della Bundesbank».
Quando cambierà la linea della Bce?
«L’inflazione sta salendo e la crescita aumenta: sarei sorpreso se il quantitative easing durasse oltre la fine dell’anno in corso».
L’economia dell’eurozona migliora, ma il populismo si rafforza grazie allo scontento economico. Non è contraddittorio?
«Questo è il vero pericolo. La Germania è forte, la Spagna ha avuto una buona annata, ma molte altre economie sono deboli e soffrono a causa di un euro che per loro è ancora troppo alto. È una questione politica, che si giocherà nelle elezioni francesi e tedesche. Il risultato potrebbe far saltare l’euro».
L’eurozona a due velocità potrebbe essere la soluzione?
«Sì. Non ho mai pensato che la moneta unica potesse funzionare in situazioni di stress, e quando è arrivata la crisi ha peggiorato la situazione. Ha provocato instabilità, populismo, nazionalismo, un movimento avverso alla globalizzazione incarnata dall’euro. I prossimi risultati elettorali andranno in questa direzione, e la moneta unica rischia di saltare tra uno e tre anni. Le due velocità sono l’unica possibilità di salvare l’eurozona».
Come si potrebbe realizzare questa riforma?
«Suddivisione tra nord e sud, in base agli accordi commerciali». 
L’Italia farebbe parte della seconda fascia?
«Sul piano economico l’Italia ha bisogno di una moneta più bassa».
Dunque l’economia europea si sta riprendendo nonostante l’euro?
«Direi di sì. Draghi opera supponendo che l’euro resterà, ma questa è una decisione politica. Germania e Spagna vanno bene, ma molti altri paesi europei sono scontenti, come lo erano la Gran Bretagna e gli Usa, dove infatti il populismo ha prevalso. L’euro è stato un esperimento per la globalizzazione europea, ma non ha funzionato».
Abbandonarlo quindi non sarebbe un pericoloso ritorno a protezionismo e nazionalismo?
«Sono due cose separate. Da parte americana non ci sarebbe alcuna giustificazione per adottare il protezionismo contro la Germania. Invece l’eurozona, per salvarsi, avrebbe bisogno delle due velocità».
Prevede scontri tra la nuova amministrazione Usa e la Ue?
«Frizioni sì, ma non scontri. I nostri legami non cambieranno, per ragioni di cultura, sicurezza ed economia».
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SuperMario contro Trump Torna il patto con la Merkel 

Il capo dell’Eurotower appare come l’ultimo baluardo europeista Difende la cancelliera per sostenere Bruxelles: “Bisogna stare uniti” 

Alessandro Barbera Busiarda 7 2 2017
Come nell’autunno 2011, quando la Cancelliera accettò che fosse lui a salire all’ultimo piano del grattacielo di Francoforte e salvare l’eurozona dal disastro. Allora l’epicentro del problema era l’Italia ed erano i mercati a mettere in discussione la moneta unica. Oggi la situazione è persino più grave: le picconate arrivano da ogni dove, dalla politica e dalle piazze, dentro e fuori il Continente. Ecco perché dopo quattro anni di convivenza a tratti difficile, Merkel e Draghi si trovano di nuovo uniti nel tentativo di mettere in sicurezza la casa comune. 
All’Eurotower l’incontro di giovedì a Berlino viene derubricato come uno dei tanti e regolari scambi di vedute fra i due. Ma la situazione è tutt’altro che regolare. Ormai per far schizzare all’insù lo spread fra il Btp italiano e il Bund tedesco basta una frase di Marine Le Pen. Alla fine di quest’anno il panorama politico europeo potrebbe essere stravolto: si voterà in almeno tre Paesi fondatori dell’Unione, e nessuno sa con certezza chi e come ne uscirà vincitore. Ormai non c’è giorno nel quale l’amministrazione Trump non assesti un colpo contro l’Unione, poco importa che si parli del cambio della moneta unica o del destino della Nato. Quel «keeping us united» infilato da Draghi nelle prime righe del suo intervento a Bruxelles somiglia tanto ad uno dei motti cari alla retorica a stelle e strisce. Non è la prima volta che il governatore manda messaggi indiretti a Washington in pubblico. La stampa tedesca l’ha già ribattezzato «l’anti-Trump», l’ultimo europeista rimasto a riempire il vuoto pneumatico delle élite continentali.
Nell’agenda di Trump ci sono almeno tre cose che preoccupano Francoforte: i propositi protezionisti che si propagano come veleno nelle vene del mercato unico, la promessa di deregolamentare la finanza, le dichiarazioni che sembrano fatte apposta per mettere scompiglio nel mercato dei cambi. Se l’Unione in questi anni ha funzionato, è perché ha fatto l’esatto contrario: si è data regole comuni, ha imposto vincoli più severi alle banche, ha evitato scossoni all’euro. 
Per Draghi questo è il momento in cui «stare uniti», dunque vanno difese soprattutto le ragioni di chi finora ha tenuto insieme i pezzi dell’Europa, ovvero quelle di Angela Merkel. Non è usuale sentire gli elogi di Draghi alla Germania che «fa le riforme», che «non specula sui cambi» e si è costruita «un’economia più forte e flessibile». Di fronte ad un Continente in ordine sparso, significa riconoscere che nonostante tutto se il sogno dei fondatori è ancora in piedi lo si deve anche ai tedeschi. Per paradosso in questo momento il tecnico Draghi ha le mani più libere della politica Merkel, sempre più costretta in una campagna elettorale in cui deve vedersela con la concorrenza populista di Alternative fur Deutschland. 
Per il governatore Bce difendere Berlino significa anche difendere l’Unione dall’aggressività della nuova amministrazione americana, e in ultima analisi la tenuta dell’area euro da chi si è convinto possa davvero saltare da un momento all’altro. Qualche settimana fa nella risposta ad una interrogazione scritta al Parlamento di Strasburgo da parte di due deputati grillini Draghi diceva che in caso di uscita dalla moneta unica l’Italia dovrebbe «regolare i saldi finanziari», ammettendo implicitamente la sua reversibilità. Ieri nella risposta a voce è apparso quasi sprezzante: «I Trattati dicono che l’euro è irreversibile». 
Sul fatto che la moneta unica costituisca un caso di successo a Francoforte non nutrono alcun dubbio. I numeri nel loro insieme gli danno ragione: l’area euro cresce da 14 trimestri consecutivi, la disoccupazione è scesa sotto il 10 per cento, la fiducia di consumatori e imprese è ai massimi da sei anni. Ma nonostante questo sembra salire un’onda inarrestabile. La speranza cui si attacca la politica europea è Martin Schulz, l’ex presidente dell’Europarlamento in grande crescita nei sondaggi dell’Spd. Se così fosse, le elezioni d’autunno in Germania saranno le uniche nel Continente in cui a fronteggiarsi per la Cancelleria saranno due leader europeisti. I nemici dell’Unione diranno che è una ragione in più per lasciarla. 
Twitter @alexbarbera 
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Ambizioni militari e diplomazia Così Mosca tesse la sua tela in Libia 

Il doppio fronte del Cremlino: sta con Haftar ma media con Sarraj e l’Italia 

Marco Bresolin Lucia Sgueglia Busiarda 7 2 2017
L’ombra della Russia si affaccia in modo sempre più insistente sul Mediterraneo. E la Libia è il terreno cruciale per le ambizioni di Mosca. A Bruxelles lo sanno bene, tanto che ieri la questione libica si è presa buona parte della discussione tra i ministri europei degli Esteri. Non per parlare dei flussi migratori, che sono stati al centro del summit di venerdì scorso a Malta. «Il tema è più ampio», conferma George Vella, ministro maltese coinvolto nelle trattative con il governo di Tripoli. Si lavora a una «stabilizzazione politica» del Paese. E la Russia vuole giocare un ruolo decisivo nella «mediazione».
Lo confermano i contatti sull’asse Roma-Mosca e Bruxelles-Mosca, che si sono intensificati proprio venerdì. Il ministro degli Esteri Sergei Lavrov non ha parlato soltanto con il suo omologo italiano Angelino Alfano. Nel giro di 48 ore è stata organizzata anche una telefonata con Federica Mogherini, Alto Rappresentante per la Politica Estera della Ue. Hanno discusso di Ucraina, ovviamente. Ma soprattutto di Libia. La visita del premier di Tripoli Fayez al-Sarraj a Bruxelles e a Roma, dove ha firmato un memorandum d’intesa con il governo italiano, ha dato una spinta alla necessità di «confronto».
Ma qual è il piano del Cremlino? Negli ultimi mesi le sue attività intorno alla Libia sono cresciute. È chiaro il sostegno al generale Khalifa Haftar: a novembre lo ha invitato a Mosca e l’11 gennaio lo ha ospitato a bordo della portaerei russa Kuznetsov al largo della Cirenaica, dove si è collegato con il capo della Difesa russa. La scorsa settimana, poi, si è saputo che una clinica di Mosca ha curato circa 70 soldati del suo esercito, feriti in scontri con miliziani del governo di Misurata. Si parla addirittura di un accordo per fornirgli delle armi via Algeria, nonostante l’embargo.
Allo stesso tempo, la Russia vuole vestire i panni del mediatore. Entro fine mese Sarraj sarà a Mosca. «Stiamo lavorando con entrambi i centri di potere in Libia (Tripoli e Tobruk, ndr) - spiega la portavoce degli Esteri Zakharova -, cerchiamo di incoraggiarli a cercare compromessi sulle questioni controverse». Ieri il vice di Lavrov, Bogdanov, ha incontrato l’inviato dell’Onu in Libia, Martin Kobler. Hanno spinto sulla necessità di «un governo unitario».
Nonostante l’evidente distanza politica tra Londra e Mosca, lo stesso concetto è stato espresso ieri dal ministro degli Esteri britannico Boris Johnson: «Dobbiamo unificare l’Est e l’Ovest del Paese - ha detto arrivando a Bruxelles - e per farlo servirà un po’ di creatività». Il Consiglio Ue ha lanciato un primo segnale: «Per sostenere la pace, la stabilità e la sicurezza» della Libia si valuta la possibilità di «rivedere le misure restrittive» che sono state applicate ad alcuni oppositori di Sarraj. Bruxelles aveva infatti deciso di «punire» alcuni pezzi grossi come Agila Saleh (presidente del Parlamento di Tobruk), l’ex premier Khalifa Ghweil e Nuri Abu Sahmain (presidente del Congresso nazionale generale non riconosciuto). L’Italia, dopo l’ambasciata a Tripoli, starebbe pensando di aprire il consolato nell’Est del Paese (lo sostiene lo stesso Saleh). Nelle conclusioni del Consiglio non si cita direttamente Haftar, ma Mogherini ha esplicitamente detto che l’Ue vuole «incoraggiare il dialogo tra Haftar e Sarraj». Bruxelles lavora per evitare la rottura, che potrebbe condurre a scenari pericolosi: per ripicca, Haftar avrebbe interesse ad attirare sulle coste orientali del Paese i trafficanti di esseri umani, controllando così i flussi migratori verso l’Europa. 
In questa partita non va sottovalutato il fattore-Trump. Secondo alcuni analisti, la «primavera» Russia-Usa può fiorire proprio intorno alla Libia. Putin è interessato a ristabilire la vecchia influenza russa persa dopo Gheddafi, e se possibile una presenza militare. Ma c’è anche il petrolio: Haftar da settembre controlla i terminali chiave del greggio nel paese. Trump scaricherebbe così su Mosca parte del peso della lotta contro l’Isis, come in Siria. Di questo se ne starebbe occupando Michael Flynn, consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca.
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in Francia l’ue si gioca il futuro 
Stefano Stefanini  Busiarda 78 2 2017
L’elezione di Donald Trump dimostra che il populismo può vincere andando all’offensiva. Servono solo i nemici: immigrazione, globalizzazione, islamismo. Contro di loro non c’è più bisogno di nascondersi dietro una cortina di correttezza politica. Marine Le Pen ringrazia e abbassa la maschera. Aggiunge un altro nemico: l’Unione europea. Per realizzare il nazionalismo protezionista che promette alla sua base deve dare un colpo di grazia all’integrazione europea. Lo sanno i suoi alleati nei rivoli populisti che attraversano il continente. Il nazionalismo li dividerà domani se andassero al potere, ma li unisce oggi contro il nemico comune. Lo sa chi difende l’Ue.
Le Pen cavalca la spaccatura pro e contro l’Ue che divide francesi e europei. La battaglia si gioca alle urne. Quelle francesi sono il tornante decisivo. Il discorso di domenica a Lione segna un cambio di marcia nella campagna presidenziale del candidato del Fronte Nazionale. I contenuti non sono nuovi, lo è però il ritorno esplicito all’equazione immigrazione incontrollata-terrorismo-religione musulmana. Trump docet: ecco l’affondo strumentale alla ripresa di tutti gli attributi della sovranità nazionale. Sulla strada Le Pen trova l’Ue. 
Il grido di battaglia di Lione, «chez nous», significa fuori dall’Ue. Ma la Francia non può uscire come il Regno Unito, con una discussione più o meno amichevole sul conto da pagare. L’Ue senza Parigi perderebbe la parvenza di unità europea. La «confederazione di nazioni» di cui ha parlato Le Pen, evocando abilmente qualche nostalgia gaullista, sarebbe un palliativo. 
La sopravvivenza dell’Unione è la posta in gioco alle urne francesi del 23 aprile e del 7 maggio. La candidata francese ha parlato di rinegoziare con Bruxelles, ma il suo vero scopo è creare le condizioni per l’uscita della Francia. Il contrario dell’infelice tentativo di David Cameron che avrebbe voluto rimanervi. La conseguenza sarebbe però non solo «Frexit», sarebbe il crollo dell’Ue. 
Governi, forze politiche e partiti pro-Ue sanno benissimo che presidente Le Pen e Ue sono incompatibili. Sanno pure che gli stessi fermenti nazionalisti sono presenti in tutto il continente e che la Francia è lo spartiacque del confronto. Mai si sono trovati a dover combattere per la stessa sopravvivenza di un processo d’integrazione che va avanti con successo da settant’anni. 
Sta finalmente emergendo la loro risposta. Fa leva sull’idea di un’Unione più elastica e adattabile. Un’Ue che si concentri sulle dimensioni che richiedono una stretta integrazione (moneta unica, Schengen) e sulle preoccupazioni tangibili dei cittadini (su crescita, immigrazione, lotta al terrorismo, difesa), ma allarghi le maglie altrove par dare respiro alle identità nazionali. Sono le «due velocità» di parlato Angela Merkel, i cerchi concentrici di Angelino Alfano, le risposte concrete ai bisogni essenziali di Enrico Letta.
C’è molto buon senso in questo messaggio. Il rischio è che non faccia breccia. Che sia troppo poco, troppo tardi («too little, too late»). Un anno fa avrebbe potuto evitare Brexit. Le opinioni pubbliche sono già formate. L’importante adesso è la promessa, credibile, di un vero cambiamento di marcia, di un vero avvicinamento al pubblico. L’Ue deve guardarsi dal riflesso condizionato di una risposta istituzionale. Deve soprattutto «fare» rapidamente, ad esempio sull’immigrazione, che è il nodo su cui si vincono e perdono le elezioni. 
Può il buon senso avere la meglio sulla dirompenza del messaggio populista? L’Italia, pur con tutte le sue incertezze politiche, può giocare un ruolo importante nella partita quando, il 25 marzo, ospita le celebrazioni del 60° anniversario del Trattato di Roma. L’Ue deve resistere alla tentazione di celebrare troppo il passato e di torturarsi sul presente per guardare al futuro. Deve far capire alla gente cosa sta concretamente facendo. Ma non a Bruxelles: nelle acque del Mediterraneo; o per difendere le esportazioni dalle ventate protezionistiche che attraversano l’Atlantico, come ha appena fatto Mario Draghi; per la sicurezza delle strade e delle piazze di Parigi e di Monaco; per creare posti di lavoro dove mancano, come in Grecia e in Spagna. Questo, non voli pindarici, è quanto gli europei si aspettano dalla Dichiarazione di Roma del 2017. 
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Euroffensiva  Un asse tra la Banca centrale e Merkel per contrastare la deregulation Usa e l’avanzare dei populismi locali
Il numero uno Bce vede con favore la maggiore convergenza su difesa e sicurezza. Proprio i temi su cui la Cancelliera vuole progressi

TONIA MASTROBUONI Rep 7 2 2017
Mario Draghi ha già deciso ieri di rispondere con inusitata durezza agli Stati Uniti, dopo che nei giorni scorsi il consigliere al Commercio di Trump, Peter Navarro, aveva aggredito la Germania per attaccare l’Europa e l’euro. E il presidente della Bce non si è fermato qui: ha criticato anche l’amministrazione Trump per l’intenzione di voler smantellare il Dodd-Frank-Act, quel poco di regolamentazione finanziaria che Obama è riuscito a imporre dopo il disastro dei subprime. Ma se Draghi ha fatto scudo ad Angela Merkel alla vigilia di un faccia a faccia a Berlino previsto per giovedì, è per vari motivi.
Primo, perché il suo solido europeismo lo porta ad accettare l’identificazione tra la Germania e l’Europa che sta diventando sempre più scontata ovunque, da Pechino a Washington. Una sovrapposizione confermata proprio in questi giorni da una storiella apparentemente minima che rimbalza tra la capitale tedesca e Bruxelles e che sta provocando imbarazzo e irritazione. Il Canada vorrebbe mandare un solo ambasciatore per la Germania e per l’Unione europea: l’ex ministro degli Esteri, Stéphane Dion. E risiederà a Berlino, non nella capitale d’Europa.
Così, mentre un inferocito presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, sta riflettendo su come rispondere a Trudeau, Draghi ha già mandato un segnale chiaro a Trump. La Bce “non manipola” l’euro - l’ultimo intervento diretto sui mercati valutari risale al 2011 ed era frutto, come accaduto quasi sempre, di un’azione coordinata tra le banche centrali più importanti (altro elemento che Draghi non si stanca mai di sottolineare è l’importanza di azioni concordate tra i guardiani delle monete, proprio per evitare guerre). Soprattutto, l’italiano ha ricordato a Washington che «la Germania ha un surplus commerciale significativo con gli Usa», ma che «non è mai intervenuta unilateralmente sui mercati valutari».
Allo stesso tempo, il presidente della Bce ha replicato con fermezza alla stessa Germania che attraverso il suo ministro delle Finanze, Wolfgang Schaeuble, sta aumentando le pressioni su di lui per tirare su i tassi di interesse e uscire dalla fase emergenziale. Attenzione a non reagire «a singoli dati e a picchi temporanei dell’inflazione», ha sottolineato ieri, aggiungendo che «c’è ancora bisogno delle nostre politiche monetarie ». Al “primo della classe” Germania, il banchiere centrale ha ricordato che la moneta unica deve tenere conto di diciannove economie e non solo di quella più forte.
Ma osservando la triangolazione Draghi- Merkel-Schaeuble con attenzione, è chiaro che stia riemergendo un vecchio gioco delle parti. D’un lato Schaeuble come testa di ponte - tanto più in una delle campagne elettorali più difficili di sempre - dell’ortodossia tedesca anti-Bce. E con il miglioramento della situazione economica (confermata ieri anche dagli strabilianti ultimi dati che arrivano dall’industria), gli elettori conservatori non faranno che alzare sempre più la voce per ottenere un rialzo dei tassi di interesse e un’uscita dalla fase emergenziale e del quantitative easing. Tanto più che ieri è uscito il primo sondaggio che dà il rivale di Schaeuble e Merkel, il capo della Spd Martin Schulz, persino davanti alla Cdu.
Dall’altro, Merkel è sempre stata un’alleata fidata di Draghi, nelle fasi più drammatiche dell’euro e dell’Europa. E negli ultimi tempi è di nuovo evidente una certa sintonia nei loro discorsi. Ieri il presidente della Bce non ha voluto rispondere alle domande sul merkeliano rilancio dell’”Europa a più velocità” - mancano ancora troppi dettagli - ma nei suoi interventi più recenti, se letti in filigrana, c’è già la risposta a qualche interrogativo emerso di recente. Il presidente della Bce ha cominciato ad esortare i governi ad ascoltare maggiormente i cittadini e li ha invitati ad una maggiore convergenza sulla difesa e sulla sicurezza - esattamente i temi che la cancelliera ha in mente, quando parla di Europa a più velocità.
Ma nell’attesa che si capiscano meglio le vere intenzioni di Merkel, Draghi ha voluto affrontare di petto un terzo fronte insidioso, dopo Trump e Schaeuble: quello dei populisti. Per farlo, ha dovuto recuperare un’espressione che sperava di aver seppellito dopo la crisi più acuta dell’euro. La moneta unica è “irreversibile”, ha precisato. Appena una settimana fa, in uno dei discorsi più politici degli ultimi anni, a Lubiana, l’ex governatore della Banca d’Italia aveva ricordato anche ai pifferai magici dei ritorni ai sistemi monetari, quanto era costata cara all’Italia l’uscita dallo Sme, dal sistema di cambi pre-euro, nel 1993. Ma a volte la storia è dura da accettare, soprattutto nel magico mondo delle post- e mezze verità e della propaganda bugiarda.
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2 commenti:

Anonimo ha detto...

Che c'entra il fronte ampio, scusi?
Il problema è un altro: lei in Francia chi voterebbe, Macron, Fillon o Le Pen?
Si asterrebbe?

materialismostorico ha detto...

Non lasciate commenti anonimi.

L'idea di un fronte "populista" oltre destra e sinistra circola da tempo anche nella sinistra antagonista.
Se in Francia i candidati fossero solo quelli mi asterrei, certo.