venerdì 3 febbraio 2017

Comunisti, "populisti", rapporti di forza diseguali in Europa e piccola borghesia: quando eravamo qualcosa. Le lacrime di coccodrillo degli spacciatori di populismo reattivo e il centenario del 1917

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Niente di tutto questo è ovviamente oggi possibile, e questo sia nel male che nel bene; tuttavia può essere utile per un orientamento politico generale in questa fase [SGA].

da Karl Radek: Der Faschismus, wir und die deutschen Sozialdemokraten (Moskau, 2. Juli 1923), "Internationale Pressekorrespondenz", Nr. 114, 6. Juli 1923, S. 1002-1004; trad. it. di S.G. Azzarà

"... Il fascismo è un movimento politico che riguarda larghe masse della piccola borghesia proletarizzata. E se lo si vuole combattere, bisogna combatterlo sul piano politico. Su questo piano è possibile combattere il fascismo solo se anzitutto si aprono gli occhi alle vaste masse sofferenti della piccola borghesia su come i loro legittimi sentimenti vengano abusati dal capitale, il quale non solo è colpevole [schuldig] per le loro difficoltà economiche ma lo è anche per lo stato di bisogno nazionale della Germania. In secondo luogo il fascismo può essere combattuto solo indicando a queste masse piccolo-borghesi la giusta via della lotta per i loro interessi. Contro cosa essi lottano? Lottano contro l’intollerabile miseria nella quale sono finiti e lottano contro la riduzione in schiavitù della Germania da parte del trattato di Versailles. La classe operaia deve sostenerli in questa lotta? Essa ha il dovere di sostenerli nella lotta contro l’impoverimento. Il socialismo non è mai stato solo la lotta per un pezzo di pane per gli operai industriali. Esso ha sempre cercato di essere una fiaccola accesa per tutti coloro che soffrono nel bisogno. La socialdemocrazia sta aiutando nella loro battaglia materiale i lavoratori intellettuali che soffrono, le grandi masse della piccola borghesia che soffrono? Mostra loro la via d’uscita dalla condizione in cui si trovano? Non lo fa. Essa inveisce contro i demagoghi, che sfruttano il bisogno della piccola borghesia per spingerla nelle braccia del grande capitale. Ma non è capace di mostrare una via d’uscita alle masse piccolo-borghesi, perché essa stessa non la conosce. Sul terreno del capitalismo, non è possibile prestare loro nessun aiuto ma questo terreno è sacro per la socialdemocrazia. Il Partito comunista deve essere in grado risvegliare nelle masse piccolo-borghesi la grande e religiosa fiducia [Glauben] nella possibilità di superare il bisogno, deve risvegliare in esse la convinzione che insieme alla classe operaia saranno capaci di superare la necessità e di porre le basi per una nuova vita in Germania. Se la classe operaia tedesca non sarà in grado di procurare alle grandi masse piccolo-borghesi questa fede, allora sarà vinta o quantomeno la sua vittoria dovrà essere rinviata per lungo tempo.
Abbiamo il dovere di guidare la lotta contro la riduzione in schiavitù della Germania mediante il Trattato di Versailles? Il “Vorwärts” non può negarlo... "

I FANTASMI DEL 1917 
PAOLO RUMIZ Rep 2 2 2017
DICONO che il Diciassette meni gramo e allora, visto che siamo nell’anno con quel numero, forse è il caso di farsi qualche domanda sul futuro, dispiegando a scopo scaramantico tutto il pessimismo della ragione. Che Europa avremo alla fine del 2017? La riconosceremo ancora? Sarà simile oppure del tutto diversa da quella che abbiamo conosciuto finora? Che ne sarà dello spirito unitario dei padri fondatori? Che destino avranno Inghilterra, Francia, Grecia, Italia e le stesse istituzioni comunitarie dopo Brexit e l’insediamento di Trump alla presidenza americana? Saprà la nostra patria comune ricompattarsi e reagire con un soprassalto di audacia visionaria al prevedibile cortocircuito tra gli egoismi nazionali o finirà impantanata in un quadro balcanico di protezionismi incrociati, xenofobie e reticolati? È curioso notare che già un secolo fa, nel 1917, l’Europa ha conosciuto una trasformazione drammatica, tale da alterarne l’identità e renderla irriconoscibile.
L’INGLESE John P. Taylor, autore di una storia affascinante del primo conflitto mondiale, scrive che se nei primi mesi di quell’anno Napoleone fosse tornato in vita, nonostante i cannoni incomparabilmente più potenti rispetto a quelli di un secolo prima e la visione apocalittica di milioni di uomini-ramarri immobili nel fango delle trincee, non avrebbe trovato nulla che non fosse in grado di comprendere. Stesse potenze in campo, stesse dinastie in lotta per l’egemonia, stesse rete di zar, re e imperatori, stessa centralità dell’Europa nei destini mondiali.
Se invece Bonaparte — scrive Taylor — fosse tornato in vita alla fine di quello stesso anno, sarebbe rimasto senza parole. Si sarebbe trovato di colpo davanti alla fine della storia d’Europa e all’inizio in grande stile della storia mondiale. A un’estremità del globo avrebbe visto trionfare il bolscevismo, ideologia utopica mai vista prima; all’altro capo del mondo avrebbe assistito all’ingresso in guerra degli Stati Uniti, potenza capace di eclissare tutte le altre messe insieme, con tramonto definitivo del Vecchio Continente. Avrebbe anche assistito al trionfo irreversibile della guerra come macchina e come business, guerra che diventa parte integrante dell’economia, non più la sua totale antitesi.
Certo, gli storici sanno che il salto di qualità è già avvenuto nel 1914. È allora che l’Europa mostra la sua fisiologica propensione al suicidio e si getta nel baratro nel momento del suo massimo fulgore economico, senza rendersi conto delle conseguenze dell’atto. È allora che governi imbecilli mandano a picco un’unione per molti aspetti già fatta, ricca di una formidabile rete bancaria e ferroviaria e di un network di commerci perfettamente integrati grazie alle Borse, ai telex e alla navigazione a vapore. Ma è nel 1917 che il mondo di ieri definitivamente collassa. È allora che finisce il tempo delle riverenze, dei walzer e della Sachertorte, e si spalanca quello dei totalitarismi, dei grandi fratelli e di una propaganda di massa fatta di slogan brevi e brutali. È soprattutto allora che il soldato-contadino, figlio di una piccola Heimat, si trova, come scrive Walter Benjamin, sbattuto col suo corpo inerme in un mondo dove tutto è mutato “tranne le nuvole”.
Cent’anni dopo, nel 2017, ci troviamo nuovamente sull’orlo di un salto nel buio. Stati Uniti che si chiudono a riccio, possibile ridimensionamento della Nato, avvicinamento fra Mosca e Washington con conseguente divisione dell’Europa in sfere di influenza, potenze circostanti che, a partire dalla Russia, fiutano avidamente il nostro vuoto politico con una voglia matta di riempirlo anche a costo di riaprire linee di faglia dormienti a cominciare dai soliti Balcani. Se a questo aggiungiamo il terrorismo islamista e la marea dei profughi, è chiaro che «l’Europa sarà chiamata a una prova cruciale », come conveniva con me giorni fa in un caffè di Trieste, il politologo americano Robert D. Kaplan, autore di “ Monsoon” e del grandioso “ The revenge of geography”.
Il quadro possibile è scoraggiante. Inghilterra che esce di scena, Scozia che dichiara la secessione, le due Irlande costrette a separarsi con un muro, la Francia che piccona i pilastri del suo laicismo in funzione anti-islamica, lanciando i lepenisti al potere e facendo in definitiva il gioco del Terrore. E poi la Turchia, sommersa di tensioni, che ci scarica milioni di profughi scatenando una reazione a catena di xenofobie nei Paesi dell’Est. E l’Italia, resa ingovernabile dai populisti del web, col razzismo che vola nella rete con parole d’ordine estreme cui nessuno osa contrapporre nulla. E la Germania, che si chiude a riccio e perde il suo ruolo di guida, e magari — perché no — il separatismo catalano che si riaccende in un generale “si salvi chi può”. Sullo sfondo, una mutazione semantica impressionante: il definitivo svuotamento di senso della parola “Europa”, termine che non emoziona più nessuno, e ciò a fronte di una leadership incapace di serrare le file ed esprimere un linguaggio forte, alternativo a quello del disfacimento. Tutto è davvero possibile. Karl Kraus, negli anni Venti, parlò dello stato di sonnambulismo in cui si trovava l’Europa alla vigilia della Grande Guerra. Facce da clown, disse, recitarono un copione da tragedia. Immagine perfetta anche per descrivere i populisti di oggi.
È meglio pensarci, a tutto questo, per evitare il peggio. È meglio preoccuparsi che crogiolarsi nell’incoscienza.Tutte le volte che metto le mani in tasca e ne tiro fuori spiccioli di euro mi commuovo. Li guardo luccicare nel palmo della mano e penso che Paesi ieri in guerra oggi sono inquilini della stessa Unione. Ma subito dopo ho paura. Non vedo negli europei la coscienza del miracolo che hanno vissuto negli ultimi settant’anni di non belligeranza, in un continente segnato da sempre dal sangue di milioni di uomini. E allora penso alla vecchia Jugoslavia, di cui nessuno immaginava il disfacimento. E quando sento dire «Ti ricordi la vecchia Jugo?», magari con un pizzico di insana nostalgia del vecchio mondo bipolare, allora penso che non vorrei trovarmi a sentire, tra qualche tempo, parole simili sull’Unione.
Un dialogo del tipo: «Ti ricordi dell’Europa?». «Non era poi male la nostra vecchia casa comune». Non vorrei trovarmi a dire ai miei nipotini cose come: «Era bella l’Europa, bambini. Era bella e l’ho amata. Ma non so dirvi come ce la siamo lasciata scappare di mano».
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Ignatieff: “L’Europa fermi l’onda dei populismi” 
FRANCESCA CAFERRI Rep 2 2 2017
«La tempesta perfetta si sta avvicinando all’Europa. E’ racchiusa in tre appuntamenti importantissimi, come il voto in Francia, nei Paesi Bassi e in Germania: tre Paesi in cui i partiti populisti sono in ascesa. Ma penso che questa volta l’Europa possa evitare la tempesta: la Brexit ci ha colto di sorpresa, la vittoria di Trump anche. Ora però nessuno può più sorprendersi: la realtà è sotto gli occhi di tutti. Per questo credo che più che far guadagnare voti ai vari Le Pen e Gilders, il nuovo presidente americano glieli stia facendo perdere». Michael Ignatieff è una delle menti più acute del panorama degli intellettuali contemporanei: canadese, autore di una dozzina di saggi, ex docente ad Harvard, ex leader del partito liberale canadese, è oggi rettore e presidente della Central european university di Budapest, una posizione di privilegio per osservare l’ondata di nazionalismo e populismo che sta prendendo piede in Europa e che proprio da Budapest è partita per dilagare nel Vecchio continente.
Professore, molti pensano che il fenomeno Trump giochi a favore della diffusione del populismo, ma Lei sostiene il contrario: perché?
«Perché l’Europa ha una memoria storica: sa ricordare cosa accadde negli anni ’30 e a cosa portarono i vari Hitler e Mussolini. Per questo ho fiducia che sia in grado di evitare l’avvento di un’era simile a quella. Non penso che le persone siano condannate a ripetere gli stessi errori».
Quindi in Trump c’è un effetto positivo?
«Non voglio negare che la sua elezione possa incoraggiare il dilagare della xenofobia in tutto il mondo: ma sta anche incoraggiando la resistenza. Fino a qualche giorno fa molti americani non avevano mai riflettuto su quanto la loro economia, le loro realtà di eccellenza, come la Silicon Valley e le università, dipendessero dal contributo degli immigrati. Ora lo sanno: e in tanti sono scesi in piazza».
Troppo tardi, però per un risveglio, non crede? Che contributo hanno dato quelli che oggi sono in piazza, i liberali e i progressisti, alla vittoria di Trump? In cosa hanno sbagliato?
«Ho due risposte da darle. La prima è che il liberalismo ha dimenticato le radici delle società in cui opera: i suoi leader, con poche eccezioni, hanno dimenticato di fare appello alla generosità delle persone in nome delle loro storie, del loro vissuto. Mio padre era un immigrato, mio nonno anche: è facile per me riconoscermi nei siriani se qualcuno mi ricorda questo. Ma sono pochi i politici che lo hanno fatto. E la seconda risposta è che le persone devono sentirsi sicure di chi entra nei loro Paesi: serve controllo delle frontiere. Capisco di suonare impopolare, ma è solo così che i cittadini accetteranno i nuovi arrivati: se sono stati sottoposti a controlli e si dicono pronti ad accettare le nostre regole. Il liberalismo ha dimenticato questi due principi e per questo è stato punito. Guardate oggi al mio Canada: siamo un Paese che ha fatto della tolleranza la sua bandiera, ma che questa tolleranza la basa su uno stretto controllo dei confini».
Cosa che non ha evitato al suo Paese di essere colpito, con la strage nella moschea di Quebec city… «E’ vero. Il Canada è sotto shock, perché è una nazione di immigrati, costruita sul mito del vivere l’uno al fianco dell’altro. Ma quando i discorsi di odio sono tanto diffusi, globali mi viene da dire, come sono oggi, c’è poco da fare: basta una persona che non recepisca il messaggio perché accada ciò che è successo. Eppure posso dirle che non credo che il mio Paese cambierà atteggiamento verso il resto del mondo: siamo e resteremo un Paese tollerante».
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2 commenti:

massimo zanaria ha detto...

Al Diciassette è dedicato anche l'ultimo numero di Origami, il settimanale della Busiarda. Comprende un'intervista a Sergio Romano, un articolo di Serena Vitale, una poesia di Maurizio Cucchi e alcuni memorabilia.

Democrazia cercasi: come o dove trovare il suo libro? Richiesto ad alcuni distributori non sono (ancora) riusciti a farmelo avere. Saluti

materialismostorico ha detto...

Può chiederlo direttamente a Imprimatur Editore, forse si può ordinare anche sul sito della casa editrice. http://imprimatureditore.tumblr.com/

La ringrazio comunque per l'attenzione.