mercoledì 15 febbraio 2017

Crisi della globalizzazione capitalistica, piattaforme, Stato nazionale. La consueta lettura negriera

Nick Srnicek: Platform capitalism, Polity

Risvolto
What unites Google and Facebook, Apple and Microsoft, Siemens and GE, Uber and Airbnb? Across a wide range of sectors, these firms are transforming themselves into platforms: businesses that provide the hardware and software foundation for others to operate on. This transformation signals a major shift in how capitalist firms operate and how they interact with the rest of the economy: the emergence of platform capitalism .
This book critically examines these new business forms, tracing their genesis from the long downturn of the 1970s to the boom and bust of the 1990s and the aftershocks of the 2008 crisis. It shows how the fundamental foundations of the economy are rapidly being carved up among a small number of monopolistic platforms, and how the platform introduces new tendencies within capitalism that pose significant challenges to any vision of a post-capitalist future. This book will be essential reading for anyone who wants to understand how the most powerful tech companies of our time are transforming the global economy."

L’impronta digitale della globalizzazione 
Tempi presenti. Il mondo che verrà. Il saggio di Nick Srnicek «Platform capitalism». Apple, Google, Simens, Roll Royce sono solo alcune delle imprese che hanno la Rete come infrastruttura. Finanza, lavoro precario, bassi salari, evasione fiscale, uso dell'intelligenza artificiale e tendenza al monopolio sono le loro caratteristiche
Benedetto Vecchi Manifesto 14.2.2017, 19:26 
In tempi dove la fila per dare l’estremo saluto alla globalizzazione si allunga sempre più, vedendo marciare gomito a gomito teorici in odore di marxismo e esponenti della destra populista e nazionalistica, un saggio come quello di Nick Srnicek Platform capitalism (Polity, pp. 171, euro 11,66) è decisamente controcorrente, visto che è scandito dalla convinzione che il capitale abbia una innata vocazione mondiale, «globalista». Tanto esponenti radical che xenofobi sostengono che è tempo di un ritorno alla sovranità nazionale, individuando in essa sia l’unico spazio della trasformazione sociale che il fortino dove salvaguardare identità locali. La crisi economica attesta che l’ideologia neoliberale sul mondo piatto era una perniciosa illusione che ha favorito il capitale finanziario e accentuato all’inverosimile le disuguaglianze sociali. Di fronte a tale critica c’è da sottolinearne la concezione storicista dello sviluppo capitalistico, quasi che la storia sia una linea retta che tende inesorabilmente alla sua fine. 
D’altronde che la globalizzazione non fosse un pranzo di gala era evidente sin dalla crisi della cosiddetta new economy. Anche allora ci fu chi scrisse che serviva solo chi desse l’estrema unzione alla globalizzazione dopo il tonfo della Borsa a Wall Street che decretò la chiusura di decine di imprese high-tech. Una crisi, quella di allora, che vide scorrere velocemente sugli schermi di tutto il pianeta le manifestazioni altermondialiste fino alle «giornate di Genova», l’assalto alle Torri gemelle, l’intervento militare in Afghanistan prima e Iraq dopo. 
NEL MONDO PIATTO amato dai neoliberisti la guerra – sebbene sia comunque un conflitto non convenzionale, cioè combattuto da eserciti nazionali – è sempre lo strumento di gestione politica della crisi capitalistica che, in questo caso, ha accelerato i processi di globalizzazione, all’interno di uno schema dove la somma tra discontinuità e continuità non si avvicina certo allo zero. Semmai dà forma a fenomeni di interdipendenza e diffusione planetaria del modo di produzione capitalistico, in un caleidoscopio di finanza internazionale, imprese globali e bacini di eterogeneo lavoro vivo. 
Anche quello che sta accadendo in queste settimane negli Stati Uniti dopo l’insediamento di Donald Trump non suona a morte per nessuno, ma segnala semmai la ferocia e la violenza che contraddistinguono i tentativi di fuoriuscire da una crisi a geografia variabile che dura ormai dal 2007 e della quale ancora non si vede l’uscita. Più che ratificare la fine della globalizzazione Trump sta semmai sottoscrivendo l’atto di dolore della fine dell’egemonia statunitense nell’economia mondiale. 
Per comprendere la difficoltà di chiudere una fase dello sviluppo capitalistico con un decreto presidenziale il denso saggio di Nick Srnicek è quindi una ventata di aria fresca. L’autore, nell’analisi del ruolo nel capitalismo mondiale di imprese come Google, Amazon, General Electric, Siemens, Ibm, Apple, Roll Royce, Uber, invita a pensare alla globalizzazione non come una parentesi, bensì come un elemento irreversibile, specificando tuttavia che non esiste un modello statico della globalizzazione stessa, bensì come un processo dove svolgono un ruolo fondamentale le strategie imprenditoriali tese a ingaggiare e prevenire il conflitto sociale, e di classe, nonché trovare una risposta, flessibile e in divenire, a una crisi del capitalismo che ha preso l’avvio nei, ormai lontani, anni Settanta del Novecento. 
RICERCATORE presso la Univerity of London e autore di un libro dove prefigura una società postlavorista (Inventing the Future: Postcapitalism and a World Without Work, scritto con Alex William) e di alcuni saggi sull’«accelerazionismo» – in Italia ne è stato pubblicato uno nel volume Gli algoritmi del capitale (ombre corte) -, Srnicek si propone in questo saggio di illustrare le caratteristiche di un capitalismo globale e dove lo stato-nazione serve tutt’al più a garantire la deregolamentazione del mercato del lavoro, la libertà di movimento dei capitali e a definire le norme affinché la vita sociale sia compatibile con il regime di accumulazione capitalistico. 
IL SAGGIO FORNISCE elementi analitici, approfondimenti sulle diverse tipologie di «piattaforma» e business model che scandiscono il platform capitalism. La scelta di una consolidata datazione storica dello sviluppo capitalismo – la crisi degli anni Settanta dovuta a un surplus di capacità produttiva e la conseguente sovrapproduzione, la liberalizzazione della circolazione dei capitali, la leva usata sui tassi d’interesse, la deregolamentazione del mercato del lavoro e un epocale processo di decentramento produttivo, lo tsunami di investimenti per la ricerca e sviluppo propedeutico alla «rivoluzione del silicio» – serve per leggere lo sviluppo capitalistico in base a una logica «sistemica» esterna alle relazioni sociali e i conflitti di classe, geopolitici che hanno caratterizzato gli anni del neoliberismo. Ed è questa logica sistemica che dà forma alla globalizzazione e alla sua infrastruttura tecnologica, la Rete. 
LA NARRAZIONE di Srnicek abbandona a questo punto i sentieri già aperti e battuti dalla tradizione keynesiana-marxista per affrontare elementi ritenuti inediti dell’attività economica: forme di impresa a rete dalle medie dimensioni che generano però alti profitti e che occupano il centro della scena globale produttiva. 
Già perché il modello di imprese emergente è quello definito, secondo l’autore, dalla Nike: accentramento della gestione di ideazione, progettazione e decentramento radicale di tutte le attività a basso contenuto di conoscenza (in questo caso torna utile la distinzione tra dati e conoscenza, spesso ignorata dagli agit-prop del capitalismo delle piattaforme). 
MA QUEL CHE FA DAVVERO la differenza è che i dati sono ormai diventati le materie prime privilegiate nello sviluppo capitalistico. E che la cosiddetta digital economy è trasversale, cioè coinvolge tutte le attività produttive. Considerando la tassonomia delle espressioni usate per indicarla – sharing economy, app economy, gig economy – una convenzione che qualifica questo o quell’aspetto dell’economia digitale, la tesi di Srnicek è che il platform capitalism è il modello emergente e vincente di questo giro di boa del capitalismo. Ogni impresa investe infatti in tecnologia e software, così come è connessa alla rete per rendere efficiente il coordinamento delle diverse fasi produttive, disperse geograficamente su regioni non sempre vicine, producendo così dati, cioè materia prima per se stesse e per altre imprese. 
La scala globale delle piattaforme è dovuta all’obiettivo di accrescere, in maniera esponenziale, la massa di dati da elaborare, impacchettare, vendere ad altre aziende per i loro affari, sia che siano vendita di spazi pubblicitari o servizi. 
INTERESSANTE è la distinzione introdotta per evidenziare diverse tipologie di piattaforma. C’è l’advertising platform (vendita di spazi pubblicitari: qui i padroni sono Google e Facebook), la cloud platform, cioè i proprietari di hardware e software usati da altre imprese, l’industrial platforms (che fornisce la tecnologie e il software affinché altre aziende possano ottimizzare i propri processi organizzativi e produttivi), le product platforms (i loro profitti derivano dall’uso di altre piattaforme, che trasformano i loro prodotti in servizi usati da imprese), le lean platforms (quei servizi come Airb&b e Uber). 
TUTTE QUESTE TIPOLOGIE più dati accumulano più potere esercitano sul mercato di loro competenza, garantendo così i propri margini di competività verso altre imprese. Ma la vocazione «globalista» è data da altri motivi triviali: l’evasione delle tasse, facendo leva sulle differenti legislazioni e sulla moltiplicazione di regioni tax free per attrarre investimenti. La creazione di monopoli è quindi la logica conseguenza di questo tipo di capitalismo, nonostante le retoriche dominanti sul libero mercato e la concorrenza come sale di una buona economia. 
IN UN MILIEU di capitale di ventura, sviluppo di software che attingono a ricerche sull’Intelligenza artificiale, lavoro precario e deregolamentato, le piattaforme sono inoltre imprese con pochi dipendenti, ma che attivano ampi indotti di piccole imprese che sviluppano app. Il nodo della crescita senza lavoro trova soluzione in questa dimensione «sistemica» del capitalismo delle piattaforme. 
L’altro elemento colto da Srnicek è il legame tra tecnologie della sorveglianza e accumulo dei dati. Più sorveglianza c’è, più dati possono essere tratti dai comportamenti dei singoli, attivando procedure automatizzate di «profilazione» che può essere successivamente venduta o per sviluppare strategie di pubblicità mirate. In questo caso, sarebbe però opportuna la formazione di un complesso militare-digitale, visto che tanto i militari che le imprese private raccolgono, «estraggono» dati. 
Pochi, invece, i riferimenti a su come sia cambiato il lavoro. Srnicek insiste sul fatto che il capitalismo delle piattaforme prevede una crescita senza lavoro, ma il discorso andrebbe meglio articolato. Da una parte ogni impresa di questo tipo dà forma a veri e propri bacini di forza lavoro che contemplano diverse forme contrattuali, specializzazione, appartenenza etnica e di genere e dove le imprese attingono ogni volta che ne hanno bisogno. Da questo punto di vista sarebbe corretto parlare che il lavoro vivo viene gestito tutto come un esercito industriale di riserva, eccetto per alcune mansioni ritenute strategiche, determinando la convergenza di interessi tra il core labour e le imprese (da questo punto di vista Silicon Valley è paradigmatica della difficoltà, se non impossibilità di pensare i knowledge worker come soggetto centrale di un rinnovato conflitto di classe). 
IL CASO NOTO dei Mechanical Turk di Amazon è qui significativo dell’uso di lavoro intermittente e con salari spesso sotto al di sotto della soglia di povertà. 
Ma questo non è l’oggetto del libro. Un limite certo, ma anche un punto di forza nel descrivere e mettere a tema teorico e politico il platform capitalism come forma emergente di quella globalizzazione che tutti considerano morta ma che fa della crisi, e della sua flessibile gestione, un elemento dinamico. Per le imprese, certo non per il lavoro vivo, che vede moltiplicarsi dispositivi, norme, regole di comportamento e una riduzione progressiva del suo salario.


Pierluigi Fagan: Verso un mondo multipolare. Il gioco di tutti i giochi nell'era Trump, Fazi editore

Risvolto
Quello in cui viviamo è un mondo sempre più complesso; in poco più di un secolo la popolazione è passata da 1,5 a più di 7 miliardi e secondo le stime demografiche entro il 2050 arriverà a 10. Anche gli Stati nel giro di cinquant’anni sono quadruplicati, passando da 50 a oltre 200. Il nostro establishment politico, economico e finanziario, come nella Francia di Maria Antonietta, pare avulso dalla realtà dei popoli e inadeguato ad affrontare i profondi cambiamenti che stanno investendo il pianeta. All’aumentare della complessità del mondo corrisponde una progressiva perdita di credibilità dei piloti, quell’élite occidentale a cui nessuno riconosce più il suo ruolo di guida. Allo stesso tempo, con la crisi della globalizzazione acquisiscono nuova importanza gli Stati, le unioni, gli accordi bilaterali, il giusto mix di hard e soft power, l’equilibrio tra i diversi attori. Verso un mondo multipolare esamina lo scacchiere internazionale attingendo alle forme di pensiero della cultura della complessità e dei sistemi. Il risultato è un’analisi condotta su diversi livelli dei punti di forza e debolezza sia degli attori tradizionali (USA, Cina, Russia ed Europa), sia dei nuovi centri emergenti, tutti impegnati nel grande gioco di tutti i giochi: assicurarsi le migliori condizioni di possibilità per accedere a un futuro in cui cambieranno molte cose. Un mondo in cui se l’Europa non troverà in fretta una sua chiara collocazione finirà per essere una pedina all’interno di un gioco a tre: Cina, Russia e America. Un mondo nuovo per il quale sono necessari un agire e un pensare inediti. 
Forse avremmo tutti preferito vivere in un’epoca quieta e prevedibile in cui svolgere la nostra esistenza alla ricerca del miglior beneficio personale, contando sul fatto che le più ampie strutture del mondo in cui viviamo sarebbero rimaste tra loro organiche e funzionali.
Ma non è andata così.

Giochi di ruolo nelle cangianti mappe del potere
Benedetto Vecchi Manifesto 14.2.2017, 19:30

La globalizzazione è finita. Donald Trump ne sta solo stendendo il certificato di morte. È la sintesi di un saggio del vicepresidente boliviano Alvaro Garcia Linera tradotto e pubblicato nel sito internet «contropiano» (contropiano.org), dove il ritorno dello stato nazionale è visto non solo come smentita della ideologia neoliberista, ma come una sfida per tutti quei movimenti sociali che hanno come base «naturale» della loro azione politica la dimensione nazionale.
GARCIA LINERA vede questa sfida come irrinunciabile per chi vede nel capitalismo un sistema sociale basato sull’oppressione e come un pericolo per la continuazione della specie umana, visto che i danni, le devastazioni dell’ambiente sono connaturati a questo modo di produzione.
Molti dei passaggi del testo, dall’apodittico titolo «La globalizzazione è morta» sono espressione di un senso comune molto diffuso nei movimenti «antisistema». Peccato che l’argomentazione si ferma sulla soglia di una spiegazione su come è già cambiata la forma-stato attuale, sempre più nodo «subalterno» di forme di comando e governance sovranazionali, come insegna il caso europeo.
Lo slogan di Donald Trump «America first» crea ovviamente movimenti tellurici nelle forme di comando in una logica isolazionista che trova l’ostilità non solo dei movimenti sociali statunitensi, ma anche delle imprese simbolo della globalizzazione – da Apple a Google, da Facebook alle major del bio-teech . Con realismo si può affermare che la globalizzazione non è un fenomeno statico, sempre eguale a se stesso. Semmai è in costante mutamento, che ne ridisegna sia la geografia economica, sociale e politica. E con il cambiamento della geografia mutano i rapporti di potere tra stati, tra imprese.
Non è quindi un caso che la world factory del capitalismo – la Cina – si candidi a sostituire gli Stati Uniti nella leadership economica mondiale attraverso la definizione di quel multilevel soft power che dovrebbe consentire non la società globale dell’armonia, bensì una governance del regime di accumulazione planetario che contenga alcuni effetti collaterali, come le guerre commerciali e le crescenti diseguaglianze sociali locali e mondiale.
IL SAGGIO DI PIERLUIGI FAGAN Verso un mondo multipolare (Fazi editore, pp. 347, euro 25) viene dall’interno di chi ha operato all’interno dell’globalizzaizone – l’autore è stato per decenni un manager di diverse multinazionali – e guarda alla nuova realtà per quella che è: un regime di accumulazione che deve dissolvere continuamente modelli organizzativi, strategie imprenditoriali, rapporti sociali per crearne di nuovi. Per Fagan – il libro è una miniera di case studies che meriterebbero ognuno di essere approfondito -, la globalizzazione cambierà nel corso del tempo, ridisegnando le mappe del potere. Interessanti sono quindi le parti sulle dinamiche inerenti la divisione internazionale del lavoro: guai a pensare che chi ha prodotto automobili per conto terzi non abbia deciso di progettarle e costruirne in proprio, modificando così la composizione del lavoro vivo. E di come il movimenti di uomini e donne possa essere fermato a colpi di decreti leggi. Semmai, ma questa è la realtà attuale, la globalizzazione sta ridisegnando anche i confini, mal tollerando la libertà di movimenti, intesa come affermazione di libertà. Ma questa è partita in corso. Giocarla pensando a un semplice ritorno al passato è il più impolitico errore che i movimenti sociali possono far. Anche se non può essere ignorata il rischio di trasformare le guerre commerciali in guerre guerreggiate.

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