domenica 5 febbraio 2017

Il Compagno Trump che doveva portarci la pace nel mondo multipolare



Trump: “L’Iran gioca con il fuoco” 

Il presidente vara nuove sanzioni per il test missilistico. Colpiti alti esponenti del regime 

Paolo Mastrolilli Busiarda 4 2 2017
«L’Iran gioca col fuoco». Così ha twittato ieri il presidente Trump, mentre la sua amministrazione imponeva nuove sanzioni a Teheran, per punirla del test missilistico condotto domenica e dell’aiuto fornito alle milizie degli houthi in Yemen. Le misure non toccano l’accordo nucleare, e sono basate su provvedimenti che erano stati presi da Obama, ma rappresentano il chiaro segnale di un cambio di strategia verso la Repubblica islamica. Le reazioni già arrivate dall’Iran lasciano prevedere un’escalation, e lo stesso capo della Casa Bianca ha detto che tutte le opzioni restano sul tavolo, inclusa quella militare.
Domenica le forze armate di Teheran hanno lanciato un missile di medio raggio, che ha volato circa mille chilometri prima di esplodere in aria. Due giorni dopo il consigliere per la Sicurezza nazionale Flynn ha condannato il test, ha detto che violava la risoluzione Onu alla base dell’accordo nucleare, e ha minacciato ritorsioni. La Repubblica islamica ha risposto che non aveva violato nulla, perché la risoluzione vieta solo i vettori capaci di trasportare testate atomiche. Ieri però è arrivata la ritorsione di Washington, dove il dipartimento al Tesoro ha imposto nuove sanzioni contro 25 individui e imprese iraniane, libanesi, cinesi, perché hanno facilitato il programma missilistico. La distinzione è fondamentale, perché la rappresaglia non tocca l’accordo nucleare. Gli strumenti per contrastare il riamo convenzionale di Teheran erano stati già messi in atto dall’amministrazione Obama, e Trump li ha semplicemente usati per rispondere ad una provocazione. In teoria quindi ha seguito la linea del suo predecessore, come ha fatto giovedì quando il portavoce Spicer ha invitato Israele a non costruire nuovi insediamenti, e quando l’ambasciatrice all’Onu Haley ha ribadito che le sanzioni contro la Russia per la crisi ucraina resteranno in vigore. In realtà il cambio di approccio è evidente. Infatti la Repubblica islamica, già inserita nella lista dei 7 paesi banditi dagli Usa, ha subito risposto imponendo misure contro «i cittadini americani che aiutano i terroristi locali». Il ministro degli Esteri Zarif ha detto che «noi non abbiamo intenzione di attaccare nessuno, ci armiamo solo per difenderci». L’ayatollah Khatami ha accusato gli americani di «combattere contro l’Islam. Viviamo in un mondo pieno di lupi, come gli Usa, e in un mondo così abbiamo bisogno di armi per difenderci». 
Le nuove sanzioni non hanno un grande impatto pratico, ma rappresentano un avvertimento. Puniscono il test, ma anche la collaborazione iraniana con gli houthi, e così segnalano all’Arabia la volontà di ricostruire un’alleanza contro l’Iran, come dimostrava ieri la presenza della nave da guerra Cole davanti alle coste dello Yemen. Se Teheran continuerà a «comportarsi male», come ha detto ieri Trump, lo scontro si acuirà.
La prima opzione è quella di aumentare le sanzioni, per rimettere il regime in difficoltà economica, e favorire così anche l’opposizione interna che già nel 2009 poteva rovesciarlo. La seconda è annullare l’accordo nucleare, anche se finora Washington ha preferito tenerlo fuori dalla disputa. La terza, nel peggiore dei casi, è quella militare, che il presidente non ha escluso. Di sicuro il vento è cambiato: «L’Iran gioca col fuoco. Non hanno apprezzato quanto il presidente Obama sia stato gentile verso di loro. Ma io non lo sarò!».
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Trump, pugno duro su Iran e Cuba ma i suoi dietrofront spiazzano il mondo 
Israele, sì alle colonie anzi no Stop sanzioni a Putin, poi la retromarcia: le mosse contraddittorie in politica estera

FEDERICO RAMPINI Rep 4 2 2017
Di sicuro c’è ancora qualcosa: Cuba e l’Iran nella parte dei cattivi. Sui rapporti con L’Avana «inizia un riesame», che può sfociare nell’abbandono o ridimensionamento del disgelo in corso da un anno. Piovono sanzioni nuove contro Teheran, Donald Trump su questo terreno però non si distacca più di tanto dal predecessore: le sanzioni economiche decise ieri allungano la lista di misure già varate da Barack Obama per castigare Teheran dopo i test di missili ballistici. Altre 12 entità iraniane e 13 individui sono andati ad aggiungersi ad una “lista nera” già in vigore sotto Obama (embargo che si estende a qualsiasi impresa straniera che faccia business con quei soggetti).
Su quasi tutto il resto dello scacchiere mondiale in 24 ore Washington ha mandato segnali contraddittori, dietrofront o ripensamenti sulla linea Trump, generando una cacofonia di messaggi su Israele, Russia, Corea del Nord. E seminando il dubbio su chi sia credibile: i nuovi ministri, i consiglieri del presidente? Oppure è lui ad avere l’ultima parola, e con un tweet può disfare tutto il lavoro della sua squadra?
La sorpresa più grossa forse l’ha avuta Benjamin Netanyahu. Sicuro dell’appoggio totale dal nuovo presidente americano, il premier israeliano è stato gelato da un improvviso comunicato della Casa Bianca: altolà ai nuovi insediamenti di coloni nei territori palestinesi. Il comunicato della Casa Bianca parla chiaro, questi insediamenti «non aiutano a perseguire l’obiettivo della pace». Ma questo è ciò che andava dicendo da anni Obama. Il quale concluse la sua presidenza astenendosi al Consiglio di sicurezza dell’Onu su una mozione che condannava proprio quegli insediamenti in quanto illegali. Trump – che all’epoca era ancora il presidente-eletto – accusò Obama di mollare l’unico alleato solido in tutto il Medio Oriente, mandò un messaggio a Netanyahu: «Appena m’insedio io, cambia tutto». Cos’è successo per incrinare la perfetta intesa Trump-Netanyahu? Un’interpretazione che cerca di minimizzare lo strappo, si rifà ai precedenti. È la prassi, alla vigilia di un summit bilaterale, emettere questo genere di raccomandazioni: un congelamento temporaneo dei nuovi insediamenti di coloni sulle terre palestinesi aiuta a tenere il summit in un clima disteso. Netanyahu è atteso il 15 febbraio alla Casa Bianca. Però il rispetto dei precedenti, la routine della diplomazia, non sono tipici di questo presidente.
L’altro strappo lo ha compiuto la sua nuova ambasciatrice alle Nazioni Unite, Nikki Haley. Appena insediata a Palazzo di Vetro, la Haley è andata giù dura sulla Russia. Non se ne parla di revocare le sanzioni economiche finché Vladimir Putin non restituisce la sovranità alla Crimea e non smette di destabilizzare l’Ucraina. Continuità perfetta con la Nato e con la linea di Obama. Ma che fine ha fatto la promessa di Trump a Putin di ristabilire rapporti economici proficui tra le due nazioni? E come mai, mentre l’ambasciatrice Haley parlava all’Onu, il Tesoro dava la prima “picconata” all’edificio delle sanzioni, esentando alcune forniture di materiale hi-tech che coinvolgono i servizi segreti russi?
Per finire c’è la sfuriata contro la Corea del Nord che ha fatto il neo segretario alla Difesa, generale Jim Mattis, nel suo primo viaggio all’estero dopo la nomina. Parlando a Seul, Corea del Sud, il capo del Pentagono ha lanciato un duro ammonimento a Pyongyang: qualsiasi uso di armi nucleari sarebbe seguito da una risposta «travolgente, devastante » da parte degli Stati Uniti. Anche qui non ci sarebbe granché di nuovo se a parlare fosse un esponente dell’esecutivo Obama (o anche Bush). Ma Trump si era distinto per l’isolazionismo, a Giappone e Corea del Sud (così come agli alleati europei) lui aveva rivolto parecchie esortazioni perché si attrezzino a difendersi da soli.
La cacofonia contribuisce a seminare dubbi sulla coerenza e compattezza della squadra Trump. Non è chiaro quanto si parlino fra loro, i responsabili dei messaggi contraddittori. Certo non aiuta il fatto che la squadra sia ancora sottile: mancano molte nomine, e quindi gran parte dello staff anche dirigenziale nei vari ministeri o ambasciate è obamiano.
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PERCHÉ TRUMP SEDUCE I MERCATI 

ALBERTO BISIN Rep 4 2 2017
LA PRESIDENZA Trump è iniziata in velocità, con una serrata sequenza di ordini esecutivi, nomine, ed altre decisioni che fanno presagire interventi profondi sulla società e sull’economia. In linea con quanto promesso in campagna elettorale, questi interventi toccano nodi di fondamentale importanza, dal commercio con l’estero alla sanità, dai diritti civili all’immigrazione.
La reazione dura ed immediata di larga parte della società civile, aggredita nel rispetto e nella protezione di diritti faticosamente ottenuti dagli anni ’60 ad oggi, era facilmente prevedibile. E così il tentativo dei Democratici al Congresso di rallentare e disturbare le mosse dell’amministrazione.
Molto meno prevedibile era invece la reazione dei mercati finanziari. Il parere relativamente unanime degli economisti è che la politica economica delineata da Donald Trump in campagna elettorale, centrata su protezionismo riguardo a uomini e merci, corrisponda ad un danno netto per il paese. Per questa ragione ci si aspettava una reazione negativa anche profonda del mercato azionario. Uno dei commentatori economici più in vista del New York Times, Justin Wolfers, aveva addirittura azzardato la previsione di un crollo del 10-12% del mercato, sulla base dei movimenti del valore dei titoli e delle proiezioni elettorali nel corso di uno dei dibattiti televisivi. Al contrario, i mercati finanziari hanno festeggiato l’elezione di Trump: l’indice Dow Jones ha segnato aumenti quasi continui, dell’ordine del 9% da novembre ad oggi.
Prevedere l’andamento dei mercati si dimostra quindi ancora una volta una futile attività. Possiamo provare però a capire ex-post cosa stia succedendo. A questo proposito bisogna innanzitutto premettere che gli indici azionari non misurano necessariamente i costi e benefici attesi delle politiche economiche. Piuttosto essi misurano i profitti attesi che discendono alle imprese da queste politiche economiche. La differenza è sostanziale. I profitti delle imprese possono derivare da una crescita economica generalizzata ma anche da una redistribuzione di costi e benefici dell’attività economica a favore dei redditi da capitale. In quest’ultimo caso, una borsa in crescita è perfettamente compatibile con politiche economiche di fatto dannose per l’economia nel suo complesso.
Alcuni elementi fanno pensare che questo sia almeno in parte il caso nel contesto presente. Innanzitutto, gli analisti sono abbastanza concordi nel ritenere che i rialzi di borsa siano motivati in modo particolare dalla promessa di riforma della tassazione di impresa e da quella di smembramento della recente regolamentazione dei mercati finanziari, che va sotto il nome di legge Dodd-Frank. Il sistema fiscale americano, per quanto riguarda le imprese, è molto distorsivo, come dimostrano aliquote molto elevate e gettito relativamente esiguo. Una sua riforma potrebbe quindi avere effetti positivi, in linea di principio, sull’attività economica. Ma le varie (vaghe) proposte elettorali sembrano indicare più l’obiettivo di una riduzione del peso fiscale alle imprese che non di una sua razionalizzazione. Si tratterebbe cioè, soprattutto in vista di aumenti di spesa pubblica in infrastrutture, di uno spostamento del carico fiscale da imprese a famiglie, da capitale a lavoro, con notevoli costi anche in termini di diseguaglianza.
Lo stesso discorso vale per la legge Dodd-Frank: con tutti i limiti di questa legislazione, la deregolamentazione avviata ieri da Donald Trump garantirebbe vantaggi immediati al settore finanziario associati a grossi rischi per la stabilità del sistema economico nel suo complesso. Non è un caso quindi che il solo settore finanziario sia responsabile di più di metà della crescita dei mercati dopo le elezioni: il titolo di Goldman Sachs (che si avvantaggia però anche di stretti rapporti diretti con l’amministrazione) è cresciuto di circa il 30%, quello di Wells Fargo del 25%.
Nonostante questa possibile redistribuzione a favore dei redditi da capitale, una crescita così netta dei mercati dopo le elezioni non è comunque compatibile con i notevoli costi che molti economisti associano al protezionismo economico che l’amministrazione pare voler intraprendere con decisione. I mercati evidentemente scontano la probabilità che le preannunciate tariffe sulle importazioni possano indurre ad una guerra commerciale con Cina e con Canada e Messico, cui gli Stati Uniti sono legati da un accordo commerciale (Nafta) che l’amministrazione Trump intende rinegoziare. Allo stesso modo i mercati apparentemente ripongono notevole fiducia in un atteggiamento pragmatico invece che ideologico dell’amministrazione nei confronti delle previste limitazioni all’immigrazione. Questo perché l’industria americana necessita che non si rallenti eccessivamente il flusso di capitale umano soprattutto dai paesi dell’est, ad esempio di ingegneri indiani a Silicon Valley.
Ed è infatti proprio il venir meno di questa fiducia ad aver causato un riallineamento dei mercati dopo il fiasco sul fermo all’immigrazione, che ha fatto intravedere incompetenza ed un pericolo estremismo ideologico. L’amministrazione Trump è avvisata.
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