venerdì 3 febbraio 2017

Il Gioco dell'Oca





"Bisogna stare dentro per spostare il quadro a sinistra": l'orgasmo elettorale centrosinistro e un ottuso perseverare nel crimine


Quale essere senziente, dopo aver ripetutamente verificato nel corso di 20 anni di merda che nei vigenti rapporti di forza un determinato percorso politico, magari sensato in altre epoche, non offre altro sbocco se non - di compromesso al ribasso in compromesso al ribasso - un ulteriore slittamento a destra, si ostina a ripetere il medesimo errore ad ogni nuovo baluginare delle elezioni, sbavando cupido al pensiero dello scranno e ratto rimuovendo ogni accenno di autocritica formulato dopo l'ultimo recentissimo fallimento, perché tanto "non c'è alternativa"?

Chi, dopo aver spalancato un'autostrada a un Movimento 5 Stelle, che è pieno di mentecatti e le spara grosse ogni giorno ma cresce proprio sulla propria diversità intransigente, invita alle alleanze perché con l'estremismo "si rimane isolati"?

Chi va incontro gioioso all'eterno ritorno dell'eguale cetriolone, soddisfatto di incarnare la tradizionale inclinazione popolare a una responsabilità nazionale che coincide con la distribuzione del meno peggio attraverso lo sfintere anale, ma verso l'interno?
Chi conserva il diritto di parola - e di pubblicazione sul Manifesto - pur avendo in passato riposto la propria fiducia politica in D'Alema, o in Vendola, che ci hanno portato dove siamo, o in chi per loro?

E' il mulo? E' il primate? E' il protozoo?

Ma no, è lui: il quadro politico medio della sinistra italiana di ogni orientamento, da Rifondazione a SEL a tutti gli altri [SGA].

“Ormai il Pd è imploso nascerà un movimento per la riscossa a sinistra” 

Nichi Vendola disegna il possibile listone: “Dagli ex dem a De Magistris” 

GIOVANNA CASADIO Rep 2 2 2017
«Non so se un Movimento popolare di riscossa della sinistra che vada da D’Alema a De Magistris e dopo la crisi del Pd oggi sulle labbra dei suoi stessi fondatori come Bersani, arriverebbe al 10% dei consensi, o a quanto. So però che mettendo insieme le esperienze, le pratiche, la cultura di chi ha resistito a sinistra, si può diventare punto di riferimento e speranza di milioni di italiani. Ma per farlo non basta sommare forze occorre un progetto di radicale discontinuità». Nichi Vendola torna alla lotta politica. Nella sede di Sinistra Italiana, al secondo piano di un antico Palazzo di via Arenula, Nichi si tiene accanto il piccolo Tobia, il figlio suo e del compagno Ed. «Non possiamo essere noi titubanti rispetto al voto a giugno, si può perfezionare in fretta la legge elettorale ». Ragiona, sorvegliando Tobia placido nel passeggino. Premette che il congresso – «non una generica kermesse» – di Sinistra Italiana, il partito dove confluisce Sel, si terrà il 17-19 febbraio a Rimini. «SI non si chiude in un recinto, ma si apre subito a un progetto e confrontarsi con ciò che si muove attorno a noi».
Vendola, lei è nel partito dei frenatori o pensa che si possa andare a votare a giugno?
«Bisogna trarre le conseguenze della condizione in cui si trova la politica e il Parlamento. Se la leadership del Pd usa qualsiasi argomento per evocare le urne, i grillini e parte della destra invocano il ritorno al voto, non possiamo essere certo noi titubanti davanti alle elezioni. Aggiungo che i parlamentari dem - eletti sulla base del programma del centrosinistra “Italia Bene comune”, ne stanno realizzando un altro, quello di Forza Italia».
Non condivide l’invito di Napolitano a completare la legislatura?
«No. Ma trovo insopportabile la volgarità di Salvini e della destra che accarezza la vena teppistica delle proprie tifoserie. Comunque quella di Napolitano è una presa di posizione verso Renzi ».
Corsa alle urne per evitare che in autunno scattino i vitalizi dei parlamentari, come dice Renzi?
« I vitalizi sono stati riformati nel 2012, se si vuole però ancora intervenire il Pd, che ha la maggioranza, può farlo. Renzi sembra l’ultimo propagandista grillino... fa un favore a Grillo. Il tema è la svolta politica da fare, perché la disoccupazione giovanile è al 40%, il paese è tecnicamente in deflazione, il bilancio è truccato da un eccesso di elettoralismo e c’è l’ipoteca di Bruxelles. Renzi ha coperto le macerie della crisi con tonnellate di propaganda anche grazie alla lunga astinenza degli italiani dalle urne. Si è giunti così al punto di non ritorno del risultato del referendum. Il senso di questa legislatura è consumato ».
E la sinistra si riunirebbe in un listone. Ma lei pensa di andare d’accordo con D’Alema?
«Non do nulla per scontato. Penso che bisogna mettere in campo un Movimento popolare di riscossa della sinistra. Siamo interessati a Consenso il movimento di D’Alema, il quale ha contribuito alla vittoria del No al referendum. Il Pd di Renzi si è rotto, sta implodendo. O come dice Bersani, la “ditta” non c’è più Siamo interessati a a quello che nel Pd avanza con le prese di posizione di Enrico Rossi e di Michele Emiliano. E a quello che è riuscito a costruire De Magistris a Napoli. A quanto si muove nei 5Stelle. Non dimentichiamo poi che c’è un popolo che si è rifugiato nell’astensione ».
Cosa significa interessati?
«Che vogliamo confrontarci con tutti. Ma nNon rinunciamo a un punto di vista autonomo. Qui sta la ragione di Sinistra Italiana ».
Non ha risposto alla domanda. Cosa condivide con D’Alema?
«Oggi si tratta di fare vivere la ragione sociale della sinistra. Con D’Alema ho avuto motivi di scontro e l’ho sconfitto politicamente su quello che era necessario per la Puglia. Però la lotta politica non si traduce in una inimicizia personale».
Bersani ha un progetto più ulivista.
«Siamo a un punto tale che occorre un progetto radicale. E poi il torcicollo in politica rischia di essere una malattia».
Renzi ha ancora una leadership forte?
«Il Pd è stato sottoposto a un’opera di renzianizzazione. Ma non sono in grado di valutare la tenuta del partito. Quella di Renzi mi sembra una parabola compiuta che, spoglia della generica affabulazione, ha determinato un rigetto generalizzato».


«Regole alla carta», salta il banco Scotto si ritira, c’è solo un candidato 
Sinistra italiana. Oggi l’annuncio ufficiale. Ma nessuno lascia il partito. I tesserati in dissenso terranno una controassemblea nei giorni del congresso. «Per un campo largo». Si è scontro sulle tessere, sui seggi e su D’Alema. Oggi il lancio del movimento di De Magistris

Daniela Preziosi Manifesto ROMA 2.2.2017, 23:59 
La denuncia è quella per cui i giocatori si ritirano, «impraticabilità del campo», e quella di aver fatto «regole à la carte» per far vincere un solo candidato, quello più vicino a Nichi Vendola e più lontano dalle ipotesi di «nuovo centrosinistra» che circolano in questi giorni dal lancio del movimento di Massimo D’Alema in poi. 
Il «campo» è quello del congresso di Sinistra italiana, che si svolgerà a Rimini dal 17 al 19 febbraio. Arturo Scotto, capogruppo alla camera di Sinistra italiana e candidato per l’area di Alternative, fa un passo indietro. Anzi due. Non correrà. Nel partito non ancora nato c’è già una spaccatura verticale, come anticipato martedì dal manifesto. Per ora le due anime convivono da separate in casa. 
La notizia non è ufficiale. L’interessato ieri non ha voluto aggiungere altro alle notizie di agenzia che davano la situazione su un piano inclinato. Ieri i ’dissenzienti’ hanno tenuto un’assemblea fino a tarda sera a Garbatella, quartiere popolare di Roma. La decisione finale arriverà oggi. Anche le motivazioni filtrano per sommi capi. Al tavolo della commissione di garanzia – composta da Alfredo D’Attorre, Elisabetta Piccolotti e Peppe De Cristofaro – la discussione si sarebbe fatta via via più tesa. Oggetto del contendere il congelamento delle tessere di Foggia. E la dislocazione dei seggi per il voto dei delegati che si svolgerà sabato prossimo. 
A Roma, dove è forte l’area Smeriglio-Scotto, un solo seggio, contro i sei di Firenze, dove è forte l’area vendoliana. «Un congresso blindato sulla linea e sulla leadership di Fratoianni se lo fanno da soli», è la conclusione dell’area che si sente penalizzata. 
E che non parteciperà al congresso ma non lascerà il partito. Nelle stesse ore convocherà un’assemblea degli iscritti per una «Sinistra italiana per un campo largo». Riecheggia il «campo progressista» proposto da Giuliano Pisapia e Massimo Zedda, ma se ne tiene un po’ discosta. Quella dell’ex sindaco di Milano è un’iniziativa che ancora non ha preso adeguate distanze dal Pd di Renzi. I militanti e i dirigenti di Alternative guardano piuttosto all’associazione ConSenso di D’Alema, e alla frattura in corso nel Pd in queste ore. 
Lo scontro interno per ora – ma solo per ora – non avrebbe conseguenze nel gruppo parlamentare. Che però alla camera è spaccato in due: metà con Scotto, metà con Fratoianni. Ma è proprio alla camera che era avvenuta la prima avvisaglia di quanto succede in queste ore. A metà gennaio, con una lettera aperta firmata da sedici deputati contro quella che definivano la «cultura dell’intolleranza» espressa dalla parte che fa capo a Nicola Fratoianni, candidato – ma ancora non ufficialmente – alla segreteria. In polemica con Scotto, che aveva firmato la lettera benché capogruppo – Stefano Fassina ha deciso di autosospendersi. 
Negli ultimi giorni il dialogo fra le due aree si era inceppato più volte. Erano volati reciproci sospetti sul tesseramento, che aveva stagnato per un anno a quota4mila tessere per poi balzare improvvisamente a 21mila nelle ultime settimane. La precipitazione verso il voto di Renzi e soprattutto la ’cosa’ di D’Alema hanno fatto ulteriormente alzare la temperatura. Favorevoli Scotto, Smeriglio e compagnia, molto più tiepido Fratoianni. 
Ieri Vendola ha rilasciato dichiarazioni «aperturiste» assicurando di vedere positivamente il «cambio di rotta» dell’ex premier, fin lì considerato uno degli ispiratori di un Pd sbagliato, uno dei padri putativi di Renzi e del renzismo. Apertura politica che però non viene presa sul serio dall’altra parte: «Vendola avrebbe potuto svolgere un ruolo ma ormai…». Oggi a Napoli intanto avverrà il lancio di DeMa, il movimento di Luigi De Magistris. Che certamente dirà la sua proprio sulla ‘cosa’ di D’Alema. Se fosse un no preventivo, sarebbe un messaggio forte alla sinistra-sinistra: o con me o con lui. In questo caso per Fratoianni e compagni la scelta non si porrebbe: con lui. 
Intanto in Sinistra italiana, in mattinata, si consuma la rottura finale sulle regole. Respinta la proposta di Scotto di fare tutti un passo indietro per una gestione collettiva del partito, in vista del voto. «No ad un accordo fra dirigenti» la risposta di Fratoianni. Che resta il solo candidato al congresso.

Il penultimatum di Bersani
Democrack. Anche l’ex leader verso il «nuovo Ulivo». Ma Orfini offre le primarie. La minoranza non crede alle ’aperture’: «No alla gazebata». Ma c’è Emiliano che scalda i motori
Daniela Preziosi Manifesto 2.2.2017, 23:59
Ancora un passo avanti verso l’uscita dal Pd. Lo fa Pier Luigi Bersani, considerato fin qui inamovibile, anzi «inestirpabile» dai suoi avversari interni, quello che «il Pd è la mia casa, e se non credessi nel Pd quale altre soluzioni ci sarebbero in giro?». Stavolta però un’altra soluzione in giro c’è, ed è il partito che di fatto Massimo D’Alema ha lanciato sabato scorso a Roma, anzi «il movimento per la rinascita del centrosinistra» come ha ripetuto a Cagliari. Ieri Bersani ha formulato quello che di fatto è un ultimatum al suo segretario: «Se Renzi forza, rifiutando il congresso e una qualunque altra forma di confronto e di contendibilità della linea politica e della leadership per andare al voto, è finito il Pd. E non nasce la cosa 3 di D’Alema, di Bersani o di altri, ma un soggetto ulivista, largo plurale, democratico», ha detto all’Huffington Post.
La decisione di procedere all’affondo è nata all’inizio della settimana nel corso di un pranzo con Davide Zoggia, Danilo Leva, Roberto Speranza e Nico Stumpo. Oltre ad essere il quartetto dei vicinissimi all’ex segretario i deputati costituiscono, insieme al senatore Miguel Gotor, anche il drappello degli ufficiali di collegamento con D’Alema. Alcuni hanno già un piede fuori dal Pd: Danilo Leva, ex responsabile giustizia, presto sarà il referente di ConSenso, l’associazione dalemiana, per la regione Molise da cui è stato eletto. Durante il pranzo i quattro hanno spiegato, con toni definitivi, che la situazione nel Pd è insostenibile. La discussione interna è ormai impraticabile. L’accelerazione renziana verso il voto mira a ’epurarli’ dalle liste. L’offerta di dieci posti da capolista è solo una provocazione. E la prova del nove sarebbe stata l’accoglienza ricevuta da Speranza e Stumpo all’assemblea di Rimini, alla quale si erano scapicollati dopo quella di Roma in nome dell’unità: cordialità da parte della platea, gelo da parte dei renziani.
Così Bersani decide di non negare più la possibilità di scissione. Martedì con l’affermazione «non minaccio ma non garantisco». Ieri – mercoledì – con la minaccia vera. Ma anche – Bersani è sempre Bersani, a un passo avanti segue almeno un passo indietro – con l’indicazione di una possibile strada per ricucire: se Renzi non vuol fare il congresso anticipato perché «non vuole dimettersi», prima delle elezioni potrebbe comunque fare un’altra cosa: «Chiamalo come vuoi, congresso, primarie, ma un luogo di confronto e di contendibilità lo chiedo. Per l’amor dio Dio, non mi si parli di Statuto e cavilli. L’assemblea in un partito è sovrana e può fare quel che vuole. Sia chiaro, serve una roba vera, non una gazebata», insomma «si trovi il modo».
Così a stretto giro è il presidente Matteo Orfini a lanciare l’ancora da Carta Bianca, la trasmissione di Bianca Berlinguer su Raitre: «Se ci dovesse essere un’accelerazione sul voto, non faremo in tempo a fare il congresso. Si può trovare il modo di fare le primarie prima delle elezioni». Un’apertura, mezza. Registrata dalla minoranza come «un fatto positivo». In due sottolineano lo stesso concetto: «La via maestra resta congresso e una buona legge elettorale» e tuttavia «nel caso si trattasse di una discussione vera nei circoli sulla linea politica potrebbe essere l’inizio di un ragionamento», «ma le primarie debbono essere di coalizione». Ma nessuno vuole esporsi: «La proposta di Orfini potrebbe essere solo un’esca, aspettiamo quello che dice Renzi. È lui che comanda». In realtà anche il vicesegretario Lorenzo Guerini è fra i ’pontieri’.
Ma Renzi in questi giorni non dà segni di interessarsi un granché della sorte della minoranza. In caso di ’listone’ punterebbe a affidare la parte della ’sinistra’ (cioè la sinistra di sua maestà) a chi ritiene più affidabile per sé. Come ad esempio il presidente del Lazio Nicola Zingaretti, che infatti dalla viva voce del ministro Luca Lotti ha ricevuto l’offerta di un posto da capolista al senato. L’interessato con i suoi collaboratori smentisce seccamente: soprattutto smentisce l’intenzione di accettare.
Certo è che lo strappo non ancora consumato di D’Alema ha provocato un contraccolpo al Nazareno. Dopo anni di gelo, l’area bersaniana è tornata fan dell’ex presidente Giorgio Napolitano, che ieri ha lanciato un accigliato monito: «Nei paesi civili alle elezioni si va a scadenza naturale e a noi manca ancora un anno», «Per togliere le fiducia ad un governo deve accadere qualcosa. Non si fa certo per il calcolo tattico di qualcuno…». Parole dure all’indirizzo di Renzi. Alle quali è seguita la sgangherata accusa di «traditore» da parte del leghista Salvini, quindi una difesa generale dell’ex inquilino del Colle. Che però, nonostante la proverbiale memoria, dimentica di aver lasciato sfiduciare Enrico Letta nella stessa maniera. Erano solo tre anni fa. Allora non seguirono le elezioni anticipate. Era proprio, guarda caso, il 13 febbraio. La stessa data in cui è convocata la prossima direzione del Pd. Anche Bersani deve essere venuto un déjà vu per questo. E infatti ha avvertito anche il premier Gentiloni: «Un presidente del consiglio giura sulla Costituzione, non facciamo vedere un autolicenziamento in streaming alla direzione del Pd».


la strana alleanza per le urne 

Marcello Sorgi Busiarda 2 2 2017
Le elezioni anticipate rappresentano sempre un trauma nella vita politico-istituzionale, ed è comprensibile che il presidente Mattarella, a cui spetta costituzionalmente firmare o no lo scioglimento delle Camere, si accosti a questa decisione con la serietà e la preoccupazione che si richiedono in questi casi. Sotto i suoi occhi, infatti, nel giro di due giorni, sono venuti allo scoperto i due partiti trasversali pro e contro il voto, che da settimane si fronteggiavano in un lungo braccio di ferro.
Il primo è il partito Renzi-Grillo-Salvini-Meloni, che ha ottenuto di cominciare al più presto, già il 27, la discussione parlamentare sulle modifiche da apportare alle leggi elettorali uscite dalle due sentenze della Corte costituzionale che hanno cassato il Porcellum e l’Italicum, per concluderla in tempi brevissimi, e in caso di accordo anche a colpi di fiducia, e andare alle urne a giugno. L’ipotesi su cui questa strana alleanza tra l’ex premier battuto nel referendum e tre dei maggiori responsabili della sua sconfitta potrebbe stringere un patto temporaneo sarebbe di esportare anche al Senato l’ex Italicum, che la Consulta ha trasformato in legge a un solo turno, con il premio di maggioranza molto eventuale riservato alla lista che riesce a superare il 40%.
E con i cento capilista bloccati ma privati del potere (sostituito con il sorteggio) di scegliere il collegio dove essere eletti, per determinare con la propria rinuncia l’ascesa dei numeri due. Reggerà o no l’intesa? Nel Parlamento esausto, sopravvissuto a una legislatura fallimentare, che ha visto un’intera stagione riformatrice cancellata dai risultati referendari, qualsiasi previsione è azzardata: limitiamoci a dire che per il momento il partito del voto a giugno può contare su due terzi dei deputati e senatori, ma è consapevole della fragilità degli accordi tra avversari che restano tali e di qui a poco si contenderanno la guida del Paese con opposti argomenti e senza esclusione di colpi.
Il secondo partito, che punta alla conclusione naturale della legislatura nel febbraio 2018, ha trovato ieri a sorpresa un autorevole portavoce nell’ex capo dello Stato Napolitano: il quale, alleato fino a ieri con Renzi nella partita delle riforme, adesso è diventato, non suo nemico, ma avversario del modo in cui il leader del Pd sta cercando di andare al voto a rotta di collo. Accanto al Presidente emerito della Repubblica sono schierati i due presidenti delle Camere Grasso e Boldrini, il leader della minoranza Pd Bersani - che in un’intervista all’Huffington Post ha rotto gli indugi, minacciando anche lui di uscire dal Pd per formare «un nuovo Ulivo» e chiedendo che il governo sia lasciato governare e la legislatura durare fino a scadenza -, Sinistra italiana, il ministro degli Esteri Alfano, il leader centrista Casini, e un Berlusconi voglioso, sì, di allungare i tempi, ma renitente a stare in questa compagnia. Inoltre, dietro la facciata ufficiale del partito del 2018, si muovono quelli che di tanto in tanto ci si ostina ancora a definire «poteri forti»: una parte del Vaticano, le ambasciate di importanti partners europei, Bankitalia e i vertici dei principali istituti di credito italiani inquieti per la risalita dello spread, gli osservatori delle banche d’affari straniere, la Confindustria. I dubbi di questo largo fronte sono emersi la sera del 4 dicembre, di fronte alla clamorosa vittoria del «No» e al rischio, per l’Italia, di andare indietro tutta rispetto al percorso virtuoso delle riforme degli ultimi anni. Un timore che la piega che stanno prendendo le cose non contribuirà certo a fugare.
È difficile dire a questo punto cosa farà Mattarella. Stretto tra questi due partiti trasversali, il Presidente ascolterà tutti e alla fine deciderà in solitudine: com’è suo dovere in una circostanza così delicata. BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI


La solitudine dell’ex premier ora l’assedio è anche nel Pd “Sotto tiro come un piccione”
Tutti i padri nobili del centrosinistra gelano la corsa alle elezioni. Renzi promette uno sforzo per convincerli: “Prove dure, servirà un governo forte”GOFFREDO DE MARCHIS Rep 2 2 2017
«È un tiro al piccione. Il piccione sono io», dice Matteo Renzi agli amici nel giorno in cui è sembrato più solo dal 4 dicembre. Per rompere l’assedio il segretario del Pd ha telefonato all’ultimo dei padri nobili del centrosinistra ad averlo messo nel mirino: Giorgio Napolitano. Era un mese che non si sentivano. Ieri mattina l’ex capo dello Stato si è scagliato contro il voto a giugno secondo lui dettato dal «calcolo tattico di qualcuno». Praticamente ha fatto nome e cognome. Renzi non ha chiamato per litigare, ma per esprimergli solidarietà dopo le offese di Matteo Salvini. Eppoi, certo, ha spiegato al presidente emerito la sua posizione.
Una posizione che fatica a farsi strada in Parlamento e viene osteggiata da altri leader di quello che fu l’Ulivo, non a caso evocato da Pier Luigi Bersani in un’intervista all’Huffington. Da Romano Prodi a Bersani, sempre più prossimo alla scissione, da Massimo D’Alema, che ha già tratto il dado, a Enrico Letta, silente ma critico. D’Alema fondatore dell’Ulivo è una definizione che fa sempre arrabbiare Renzi, (semmai lo considera l’affondatore del progetto), ma è un fatto che quel gruppo dirigente, con il suo carico di storia (glorie ed errori compresi), lo ha isolato. Ha rotto con lui in maniera definitiva. Per Renzi però non ci sono ragioni politiche in questo strappo. Vogliono buttarlo fuori, è il pensiero del segretario. Punto.
Altri segnali non sono buoni, come la rivolta dei parlamentari del Pd, di tutte le razze e correnti, dopo l’uscita renziana sui vitalizi. Persino gli amici più cari, a Montecitorio, invocano, scherzando, «la camicia di forza», descrivono «la scarsa lucidità» del leader. E se si parla di soldi, allora altri insinuano che Renzi voglia correre al voto per avere finalmente lo stipendio da parlamentare. «Parliamo di vil denaro? - dice Enzo Lattuca, giovanissimo deputato Pd -. Negli ultimi 4 anni, io ho versato al partito 125 mila euro. Matteo quanti?».
È sempre più evidente che Renzi non può giocarsi il tutto per tutto da solo. Deve avere delle sponde, non può spaccare tutto, è obbligato a salvare il salvabile. Infatti ora dice: «Cercherò di coinvolgere tutto il partito nel percorso. Parlerò con tutti. Mi dispiace che passi l’idea che io voglia andare alle urne per forza. Non è così. Non me l’ha mica ordinato il dottore».
La sua linea però non è cambiata, la frenata riguarda gli equilibri esplosi del Partito democratico, non i buoni motivi per andare a votare a giugno. O meglio, il buon motivo perchè Renzi lo ha ridotto a uno, il più convincente secondo lui, quello fondamentale. C’è una legge di bilancio difficile da varare a settembre, è l’analisi del segretario, «miliardi e miliardi delle clausole di salvaguardia da gestire». Questa legge perciò la deve scrivere e votare un governo forte, legittimato dalle urne, che abbia 5 anni di lavoro davanti. Messa così, diventa una questione di buonsenso e di rispetto verso gli elettori e non la paura di pagare un prezzo salatissimo nel febbraio del 2018 dopo una finanziaria varata comunque da un governo del Pd, il governo Gentiloni.
Prima della direzione del 13 febbraio, Renzi proverà a spiegare la linea ai big del Pd e con lui lo faranno i fedelissimi. Ieri per esempio alla Camera ci ha provato Graziano Delrio discutendo invano con Bruno Tabacci. Il congresso non è invece una soluzione, non serve a pacificare il Pd, è il pensiero di Renzi. «Non lo hanno voluto loro, quelli della minoranza. È pazzesco come faccia fatica a emergere questa semplice verità. Lo hanno chiesto invece quando la Consulta ha confermato i capilista bloccati...». Come dire: quando ci sono stati i posti in ballo, si sono svegliati. Per sedersi al tavolo delle candidature. Però qualcosa deve cambiare nella natura renziana. Ormai è evidente anche a Largo del Nazareno. E non basta fare accordi con la Lega e con Grillo, il quale poi cambia idea sui capilista. Renzi giura di essersi convinto. Ma al patto con Salvini e M5s non rinuncia.
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Bersani: “Pronti a un nuovo Ulivo”
L’ex segretario dem fa un altro passo fuori dal Pd: “Se Renzi insiste, il partito è finito”. D’Alema: “Convincente” Il piano per coinvolgere i moderati ed evitare che nasca una forza minoritaria. Il ruolo di Letta e degli ex prodianiRep 2 2 2017
Bersani fa ancora un passo fuori dal Pd. L’ex segretario avverte Renzi: «Se forza, rifiutando il congresso e una qualunque altra forma di confronto e di contendibilità della linea politica e della leadership per andare al voto, è finito il Pd». Ma quello che a Bersani preme chiarire è che «non nasce la “Cosa 3” di D’Alema, di Bersani o di altri, ma un soggetto ulivista largo, plurale, democratico». Il progetto alternativo al renzismo che il leader della sinistra dem ha in mente è d’impostazione ulivista. Non vuole una sorta di Ds-bis o una lista a sinistra del Pd che potrebbe arrivare forse all’8%. L’impresa è più ambiziosa. E in un’impresa ulivista sarebbero certamente coinvolti i prodiani anti renziani e tutto un mondo popolare che al renzismo è stato insofferente, ad esempio Rosy Bindi. Un raggruppamento che potrebbe vedere anche la presenza di Enrico Letta.
Nell’intervista ieri all’Huffington Post, l’ex segretario dem, che ha ripetuto incessantemente negli ultimi mesi di non volere abbandonare il Pd, il partito che ha contribuito a fondare, neppure con le cannonate, non entra nel dettaglio del nuovo progetto. Ma certo punta a ricalibrare l’alternativa al renzismo lanciata da D’Alema. «Vogliamo dirci la verità? - aggiunge Bersani - Per anticipare il congresso servono le dimissioni del segretario, evidentemente qualcuno non si vuole dimettere... non mi si parli di cavilli e statuto, l’assemblea è sovrana e chiamalo come vuoi, congresso, primarie... sia chiaro serve una roba vera, non una gazebata». Nessuno insomma si aspetti «che semplicemente avvenga qualcosa che assomigli a una rottura tra Ds e Margherita. Otto anni non sono passati invano e l’idea del Pd risorgerebbe dalle ceneri perché è una idea buona». È l’opinione di Bersani. Che D’Alema apprezza: «Convincente. A me piacerebbe discutere democraticamente nel mio partito ma questo non mi viene concesso». Il movimento lanciato dall’ex premier sabato scorso “Consenso” sta raccogliendo le prime adesioni: si parla di due deputati pronti ad associarsi.
Un tentativo di evitare il braccio di ferro lo fa il presidente del Pd, Matteo Orfini che prevede primarie se si anticiperà il voto. «Se c’è un’accelerazione non facciamo in tempo a fare il congresso ma c’è l’esigenza di ridiscutere con quale candidato andremo alle elezioni, come chiede Bersani, potremmo tranquillamente trovare il modo di fare le primarie prima delle elezioni». Per i bersaniani però il problema è più grave. «Nel Pd si è aperta una enorme questione democratica - spiega Bersani, chiedendo che il governo Gentiloni vada avanti. «Evitiamo un autolicenziamento in streaming alla direzione del Pd del 13 febbraio ».
( g. c.)
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