martedì 7 febbraio 2017

Il Landini sta tornando per il colpo di grazia




Voto, la svolta di Renzi “Premio di coalizione ma urne a giugno” 
L’offerta alla minoranza Pd, ma senza intesa al congresso sarà resa dei conti

TOMMASO CIRIACO Rep 7 2 2017
Il premio alla coalizione in cambio del voto a giugno, ecco cosa è disposto a offrire Matteo Renzi ad amici ed avversari. O meglio, cosa fa offrire dai suoi ambasciatori a una settimana dalla direzione del partito. In queste ore i suoi messaggeri bussano alla porta dei capicorrente dem e di Silvio Berlusconi, coccolano Angelino Alfano e mediano con Pierluigi Bersani. Tutto pur di guadagnare le urne. Certo, le motivazioni della Consulta con l’invito a un sistema “omogeneo” allontaneranno ulteriormente un blitz elettorale. Ma l’ex premier ci proverà comunque, trattando come neanche ai tempi dei “caminetti”. «E dire - ha fatto sfoggio di autoironia in privato - che volevo passare per l’Obama italiano e mi ritrovo a fare Cirino Pomicino...».
Si scrive “legge elettorale”, ma si legge “data delle elezioni”. È su questo punto che l’intesa interna al Pd scricchiola. Il segretario ha bisogno del voto anticipato, anche se inizia a temere di perdere questa partita. Alla minoranza dem propone il premio di coalizione, mentre al Cavaliere offre i capilista bloccati. Tutti si mostrano disposti a discutere, salvo quando i messaggeri del capo - da Luca Lotti a Lorenzo Guerini, Ettore Rosato e Matteo Orfini - indicano la postilla in calce al patto: «Vogliamo garanzie per le elezioni a giugno».
Le garanzie, questo è il piano, dovrebbero essere contenute nel documento che la direzione dem del 13 febbraio sarà chiamata ad approvare. Alla riunione ci saranno anche i segretari regionali e provinciali (100 su 125 sono più o meno renziani), convocati dal segretario per mettere pressione al resto dell’assemblea. La bozza di riforma con il premio di coalizione è già sul tavolo della segreteria, pronto per l’uso. Quel che più conterà sarà però la road map che accompagnerà la proposta, con tanto di “timer politico” da far scattare in caso di melina parlamentare. «Senza una legge entro due mesi - il sunto della linea dem - è meglio considerare conclusa la legislatura ». L’arma del Pd sarà quella della fiducia, da chiedere alle Camere nonostante Paolo Gentiloni nutra dubbi sull’opportunità di questa mossa. E i tempi indicati saranno strettissimi: dopo le motivazioni della Corte, due settimane per approdare dalla commissione all’Aula di Montecitorio, a fine febbraio. Poi une legge votata entro la seconda decade di aprile, l’ultima data utile per non perdere il treno elettorale di giugno.
Fosse facile, ma non lo è. Se Dario Franceschini ha fatto sapere anche ieri che sì, va bene il premio alla coalizione in cambio del voto a giugno, Bersani e Roberto Speranza ripetono che senza congresso nessun accordo è possibile. La ragione? «Non ci fidiamo di Renzi, né basta una gazebata». Michele Emiliano, poi, è stato ancora più esplicito con uno dei big della segreteria: «Io mi candido comunque, anche per la premiership se necessario». E Francesco Boccia, al suo fianco: «Matteo la smetta con i truchetti, chi pensa di fregare? Senza congresso le strade si dividono e lui passa alla storia come l’Attila del Pd». Le sponde scarseggiano anche fuori dal partito, ad eccezione di Matteo Salvini. Berlusconi è corteggiato come ai vecchi tempi del Nazareno, ma è ossessionato dall’orizzonte elettorale. «Devo prima tornare ad essere ricandidabile ». E Angelino Alfano non ha nascosto a Renzi le difficoltà dell’operazione: «Io ti seguo, ma i miei pur di non votare farebbero di tutto. Deve essere il Pd a portarci al voto».
E si va avanti così, per tentativi. Eppure Renzi continua a mostrarsi dialogante. In modo da chiarire a tutti - e soprattutto al Colle - che l’impegno del Pd per cambiare la legge è massimo. «Poi certo - ragiona - se gli altri fanno fallire tutto, non si potrà dare a noi la colpa di nuove elezioni ». Proverà a spiegarlo all’opinione pubblica, anche sostenendo che lo spread cresce per l’incertezza sulla data del voto. E se fallisse ogni trattativa e si arrivasse ad elezioni nel 2018? «A quel punto sulla legge elettorale non ci saranno accordicchi - ha lasciato filtrare - ma se ne discuterà al congresso. Assieme all’idea di Pd che abbiamo in mente». La resa dei conti, insomma.
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